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Secondo una ricerca di Sergio Dugnani, docente di Scienze del Movimento all’Università di Milano, in prima media due ragazzi su tre non sono in grado di fare una capriola. Per Annalisa Zapelloni, decano dei docenti di educazione fisica romani, mancano in moltissimi giovani, non più bambini, la forza delle braccia e il senso dell’equilibrio. “Vedo ragazzini in difficoltà se chiedi loro di saltare a piedi pari una riga disegnata sul pavimento. Non sono disabili: semplicemente non l’hanno mai fatto”.

Com’è possibile in un’epoca che ha fatto della cura del corpo un cult e quasi un’ossessione? Dice la Zapelloni che ciò è dovuto alla scomparsa del “gioco di strada”. Che a sua volta è conseguenza delle strutture che hanno assunto le nostre città, grandi, medie, ma anche piccole, dove non ci sono più spazi liberi e non regolamentati. Ai tempi miei, di bambino e adolescente degli anni Cinquanta, per noi ragazzi milanesi c’erano immensi terrain vague anche grazie ai bombardamenti anglo americani. Noi ci giocavamo a calcio, a correre a chi arriva primo, a guardie e ladri e, dividendoci in bande, facevamo a cazzotti che a quell’età non possono fare un gran male perché i pugni sono leggeri, al massimo ne uscivi con un labbro spaccato o col classico ‘occhio nero’ (onta da nascondere ai padri non perché si era fatto zuffa, ma perché voleva dire che le avevi prese). Le bambine avevano giochi più quieti. Ma col ‘pampano’ devi almeno essere capace di saltare con un piede solo, tenendoti in equilibrio, una serie di righe, segnate col gesso, e chinarti per raccogliere il sasso gettato sempre più lontano. E poi, senza distinzione di sesso, di ‘genere’ come si dice adesso con un termine che trovo raggelante, si giocava a prendersi, a nascondersi, a ‘palla prigioniera’, a ‘palla avvelenata’, ai ‘quattro cantoni’. Era insomma un allenamento inconsapevole, un’educazione fisica naturale. La strada era poi una scuola di vita, dove si imparava a conoscere gli altri e se stessi: la lealtà, la slealtà, il coraggio (ma questo è un altro discorso anche se tout se tient).

Oggi i bambini e i ragazzini hanno perso quello spazio che noi avevamo in abbondanza. Al posto della campagna, che fino agli anni Cinquanta penetrava ancora nelle città, hanno il famigerato ‘verde’ che non si può toccare, quando non i ‘boschi verticali’ dove gli alberi sono impiccati alle facciate dei grattacieli (i boschi, per quanto ne so io, uomo del pleistocene, sono fatti per camminarci dentro). Milano ha pochissimi parchi, anch’essi peraltro di fatto impraticabili, ma le lussuose case del centro hanno tutte, all’interno, uno splendido giardino, però i regolamenti condominiali vietano ai bambini di giocarci: troppo rumore, troppe risa, troppe grida che invece di rallegrarli disturbano i vecchi rincoglioniti. Mettiamoci anche l’apprensione delle ‘mamme’ che appena vedono il loro figlioletto fare un gioco un po’ ardito vanno in catalessi e la fine della leva militare obbligatoria ed ecco che abbiamo generazioni di giovani debosciati, giovani che con tutte le loro preoccupazioni salutiste sono già vecchi. Dice Mario Bellucci, autore di uno studio sulla questione: “Tanti quindicenni non sanno andare in bici. Di correre non se ne parla, il camminare è ridotto a pochi metri al giorno. La loro muscolatura è così poco tonica da creare problemi di postura: dopo pochi minuti in piedi devono sedersi. Sono stanchi”. Giovani privi di forza fisica o della capacità di usarla. Non è ammissibile che un uomo della mia età, che non ha certo la struttura di Mike Tyson, batta regolarmente a braccio di ferro ragazzi poco più che ventenni.

La mancanza di spazi di libero gioco si lega, come concausa e conseguenza della scarsa efficienza fisica dei bambini e dei ragazzi delle nuove generazioni, all’irrompere nella loro vita della playstation e di tutto il mondo digitale che vi gira attorno. Stanno ore e ore, immobili, seduti sul divano, a trafficare con questi aggeggi che offrono loro ogni tipo di divertimento virtuale ma non l’azione fisica. Una mia vicina di casa ha un figlioletto di sei/sette anni. Ogni tanto i due vengono a trovarmi. E io dico al bambino: “Dai, giochiamo a nasconderci, a prenderci, a mosca cieca” e, scherzosamente, aggiungo “con me non hai neanche bisogno di bendarmi”. Ma vedo che non è contento. Ha voglia di tornare al computer.

E’ comico, se non fosse tragico, che esista un ‘centro di rieducazione motoria’ per bambini e ragazzini. Mi suona come quei centri per la rieducazione dei rapaci, aiutati a ridiventare dei serial killer. La felicità di un bambino è correre. La necessità di un rapace è uccidere. Se il bambino non sa correre e il rapace non è in grado di uccidere, il primo non è più un bambino e il secondo non è più un rapace.

Naturalmente molti genitori –almeno quelli che possono permetterselo- per impegnare il tempo dei loro figli li mandano a scuola di tennis, di nuoto, di calcio. Ma è una cosa molto diversa dal movimento naturale e spontaneo del gioco da strada. Per parecchi motivi. E’ eterodiretto. Stimola solo certi muscoli e certe articolazioni e non altre. E può essere persino controproducente, perché oggi si ha la tendenza a professionalizzare fin da subito i bambini e i ragazzini con la speranza che dal mucchio esca qualche campione. Giocare liberamente seguendo il proprio istinto è una cosa, fare movimenti forzati e obbligati in un’età prematura è un’altra. Nelle scuole di calcio, magari sponsorizzate da grandi squadre, ho visto bambini sviluppare seri problemi alle anche, ai legamenti, ai tendini.

Anche noi facevamo, a volte, dei giochi statici. I tappi di bottiglia, i ‘tollini’, solo per fare un esempio fra i tanti possibili, erano l’ideale per simulare Giri d’Italia, Tour de France, partite di calcio. Ma questi giochi ce li inventavamo da noi e questo sviluppava la nostra fantasia. E anche se sembra non c’entrarci col problema della capacità motoria, in qualche modo vi si ricollega.

Io sono divorziato da quando mio figlio aveva sette anni. A weekend alterni veniva a casa mia. Se non potevo occuparmi di lui perché avevo da scrivere, se ne stava nella sua stanzetta. Un pomeriggio venne da me e mi chiese, sconsolato: “Papà, come facevi tu a inventarti tanti giochi?”. La playstation non esisteva ancora, ma in ogni caso i giochi eterodiretti cui era abituato, come tutti i suoi coetanei, avevano tarpato le ali alla sua fantasia.

Ma anche se le ricerche sulla forma fisica degli studenti, piccoli e meno piccoli, sono focalizzate sul nostro Paese, il problema riguarda tutto il mondo occidentale propriamente detto. Gli americani, bambini o adulti, sono obesi. Nel complesso, complice certamente anche la mancanza dell’esercizio fisico praticato in modo naturale fin da bambini, ma non solo, nella società del benessere, dove le macchine e gli algoritmi fanno tutto al nostro posto, impigrendoci, infiacchendoci, fisicamente e spiritualmente, è la vitalità che ci è venuta meno. Per restare in Europa: se c’è una rapina in banca non è mai un locale a reagire, ma un serbo, un rumeno, un nero.

Non possiamo poi meravigliarci se poche migliaia di guerriglieri dell’Isis, che certamente non hanno problemi motori, tengono in scacco centinaia di milioni di occidentali superarmati ma incapaci di saltare una siepe.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2017

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Credo che noi siamo in una situazione molto simile a quella in cui dovettero trovarsi a vivere i Romani nei decenni che precedettero il crollo dell’Impero. C’è nell’aria un ‘sensus finis’, un’assenza di speranze, collettive e individuali, uno sfinimento, uno sfibramento, una mancanza di vitalità, un sentimento di impotenza. Che sono i classici segni di un mondo in decadenza.

I ‘barbari’ sono alle porte, molti sono già dentro le mura, premono, come ai tempi dell’Impero, ai nostri confini. I Goti, i Burgundi, i Franchi, i Vandali poterono averla vinta sulle ben più potenti e organizzate armate romane, fino a conquistarne la Capitale, riducendola ai tempi dei Lanzichenecchi a 37 mila abitanti, perché nei secoli precedenti, l’Impero e le sue strutture istituzionali e mentali erano state corrose da un tarlo che si chiamava cristianesimo. Invano gli imperatori, da Diocleziano in poi fino all’ultimo e disperato tentativo di Giuliano l’Apostata, avevano cercato di estirpare, con la repressione e la violenza, questo tarlo. Il mondo pagano, corrotto fino al midollo proprio a cagione della propria potenza, verrebbe da dire della Superpotenza, non poté nulla contro un’ideologia che portava in sé valori fortissimi e nuovi. Ma solo parzialmente nuovi perché originavano dal giudaismo. Insomma il cristianesimo rimaneva un fenomeno mediterraneo che non partiva dal nulla e non veniva dal nulla. Perciò nel giro di pochi secoli il cristianesimo poté avere di fatto la meglio sul mondo germanico, apparentemente vincitore, convertendolo a sé com’è documentato dai canti dell’Edda. Alle quasi infinite superstizioni che avevano attraversato quel mondo, ma che avevano anche, per misteriosi canali, molti punti di contatto con la Bibbia e con il Vangelo, se n’era sostituita un’altra, unica, più forte, più convincente, più coinvolgente.

Ma anche il cristianesimo, tradotto da San Paolo in una struttura potente, religiosa ma anche temporale come la Chiesa, aveva in sé i germi e i prodromi della sua fine. Dopo venti secoli di egemonia e di ascesa il pensiero cristiano nelle sue varie declinazioni cattolica, ortodossa, protestante ha terminato la sua fase propulsiva, per dirla con le parole di Enrico Berlinguer in riferimento al comunismo sovietico.

Forse noi non abbiamo compreso appieno cosa ha voluto dire “la morte di Dio”. Quando Friedrich Nietzsche la proclama nei primi anni ’80 dell’Ottocento, constata, con qualche decennio di anticipo, perché era un genio, che Dio, in virtù o a causa dell’Illuminismo e dell’affermarsi della Dea Ragione, è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. Ma i suoi funerali non saranno affatto indolori. Non per nulla il capitolo successivo a questa affermazione nicciana si intitola Incipit tragoedia. Dio sarà sostituito dalle Ideologie. Ma le Ideologie, nel giro di un tempo relativamente breve, due secoli e mezzo all’incirca, periranno anch’esse. E anche la loro morte, come quella di Dio, verrà salutata come una liberazione. Invece è un’altra tragedia. Perché è venuto meno ogni punto di riferimento laico o religioso (un Dio morto non può essere resuscitato), non potendosi considerar tale il libero mercato che non è nemmeno più non dico un’ideologia, com’era ai tempi di Adam Smith e di David Ricardo, ma neppure un’idea. E’ semplicemente un meccanismo che va per conto suo, autopotenziandosi nella misura in cui indebolisce l’uomo che lo ha innescato, sfuggito di mano non solo agli ‘apprendisti stregoni’ che lo concepirono, ma anche alle mosche cocchiere che si illudono di guidarlo e del quale, prima o poi, saranno anch’esse vittima.

Da qui lo smarrimento che ci coinvolge tutti, poveri e ricchi. E la paura, l’abbietta paura (basta pensare a quanto è avvenuto pochi giorni fa alla Gare du Nord dove c’è stato un fuggi fuggi generale dei passeggeri, che hanno abbandonato persino i loro bagagli, la ‘robba’, perché un uomo si aggirava armato di un coltello) nei confronti dei ‘nuovi barbari’ che sono davvero, a differenza di quelli d’antan, ‘altro da noi’. Ma non è del terrore che noi dovremmo aver terrore. Ma del nostro vuoto di valori. Sarà questo che ci perderà, nonostante noi occidentali si sia tanto superiormente armati, come lo erano i Romani di fronte alle orde di origine germanica.

Presso ogni cultura, quasi senza eccezioni, è previsto che il proprio sistema di valori non sia eterno, ma a un certo punto collassi. Ma la favola convenuta, nella inesausta necessità di speranza che è propria di quella tragica creatura che è l’uomo, vuole che dopo ogni krisis, intesa in senso greco, rinasca un mondo migliore e più degno di essere vissuto. A noi non resta che aggrapparci a questa favola e augurarci che non sia veritiera la premonizione di Eraclito che nel VI secolo prima di Cristo ammoniva che l’umanità era destinata a degenerare senza soluzione di continuità. Anche se la Storia, almeno finora, sembra dargli ragione.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2017

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Il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) di Atlanta ha diffuso una nota in cui consiglia ai cittadini americani di prendere delle precauzioni quando vengono in Italia perché il nostro Paese è ad alto rischio epidemiologico. Vi infuria una pericolosissima malattia: il morbillo. Nei primi tre mesi di quest’anno il morbillo ha colpito 1.473 persone. Un’enormità, circa lo 0,0025% della popolazione italiana. Per la prima volta siamo considerati un Paese ‘a rischio’ come la Sierra Leone colpita dal virus dell’Ebola.

Il morbillo, come la varicella o la rosolia, è una di quelle classiche malattie esantematiche (le ‘malattie infantili’ come si diceva una volta) che, scarlattina a parte, non hanno mai fatto male a nessuno. Nella mia generazione, che è quella della guerra e del primo dopoguerra, tutti abbiamo preso il morbillo, eppur siam vivi. Ci facevano molta più paura (o meglio la facevano ai nostri genitori) le bombe che gli americani gettavano a man bassa su Milano senza peraltro riuscire a colpire un qualche obbiettivo militare come la Stazione Centrale. Il morbillo, come la varicella o la rosolia, è probabilmente una autoimmunizzazione. Tanto che ai tempi miei molte madri usavano mettere i loro figli sani accanto ai bambini malati di morbillo, così se lo beccavano e non ci si pensava più. Solo in casi rarissimi il morbillo –ma il discorso vale anche per una semplice influenza- può avere effetti collaterali pericolosi. Ma evidentemente gli americani lo temono come la peste. Del resto sono dei maniaci dell’igiene oltre che del controllo su tutto e su tutti. A qualcuno dei lettori sarà certamente capitato di andare a letto con qualche ragazza americana del tipo WASP. Ti chiede preventivamente di farti una doccia, poi va in bagno e si fa abluzioni per mezz’ora. Quindi esce con una camicetta (un tempo babydoll) in cui manca poco che ci sia scritto “fuck me”. E a te cade tutta la libido, ammesso che non l’avessi persa nel frattempo.

Molto attenti alla loro salute (anche se l’Aids in grande stile è partito proprio dall’America a causa di una eccessiva promiscuità omossessuale e bisessuale) lo sono pochissimo per quella altrui. E’ notizia di pochi giorni fa che hanno gettato la GBU-43 Massive Ordnance Air Blast bomb detta in acronimo Moab e in volgare la ‘madre di tutte le bombe’, di cui negli States pare che vadano molto fieri (qualche flebile protesta c’è stata solo per il costo: 314 milioni di dollari che forse potevano essere usati diversamente) un ordigno dal peso di 10 tonnellate che certo fa un po’ più male del morbillo. “Non si sa, non è ancor certo” se abbiano colpito gli jihadisti, il loro obbiettivo dichiarato, ciò che è sicuro è che i contadini afgani che abitavano nelle vicinanze dell’esplosione non ne sono usciti bene.

Gli americani hanno una vera fobia per le ‘armi di distruzione di massa’ specialmente chimiche. Non fan che disegnare ‘linee rosse’ insuperabili, quando queste armi le usano gli altri. Eppure sono i più grandi dispensatori di ‘armi di distruzione di massa’. Chi ha gettato l’Atomica su Hiroshima e, tre giorni dopo, su Nagasaki quando il Giappone era già in ginocchio? Al bilancio di 80 mila morti in un colpo solo va aggiunto quello, ancor più grave, dei bambini e degli adulti contaminati per decenni dalle radiazioni nucleari. Hanno usato il napalm in Vietnam. Hanno utilizzato proiettili all’uranio impoverito in Bosnia. Fra i soldati italiani che accompagnarono quella spedizione punitiva antiserba i morti per leucemia, al 2016, sono 333 e quelli che si sono ammalati di cancro per essersi contaminati con quei proiettili sono oltre 3.600 (dati forniti dall’Osservatorio Militare). Non si hanno informazioni precise sugli abitanti di Bosnia, ma se tanto mi dà tanto i morti e gli ammalati devono essere molti di più, visto che i nostri soldati qualche precauzione l’avevano pur presa e sul territorio ci sono stati per un periodo limitato, mentre gli abitanti hanno continuato a viverci o piuttosto a morirci.

In Afghanistan, per stanare gli uomini di Bin Laden nascosti nelle caverne di Tora Bora, hanno usato i gas tossici per stessa ammissione del segretario della Difesa Donald Rumsfeld. E poi hanno continuato imperterriti. Nel marzo del 2003 un vecchio, Jooma Khan, che viveva in un villaggio della provincia di Laghman, nell’Afghanistan nord-orientale, ha raccontato: “Quando vidi mio nipote deforme mi resi conto che le mie speranze per il futuro erano scomparse. Ciò è differente dalla disperazione provata per le barbarie russe, anche se a quel tempo persi mio figlio più grande, Shafiqullah. Questa volta invece sento che noi siamo parte dell’invisibile genocidio che l’America ci ha buttato addosso, una morte silenziosa da cui non potremo fuggire” (Robert C. Koehler, in Tribune Media Services, 2004). Del resto ai genocidi, silenziosi o meno, questi cowboy vigliacchi non sono nuovi. Parte della loro storia inizia col genocidio dei pellerossa, usando, oltre i winchester contro le frecce, l’’arma chimica’ del tempo, il whisky, per indebolire e fiaccare una popolazione altamente spirituale, poi descritta nei loro indecenti film western come tribù di barbari ‘scalpatori’. In seguito li hanno chiusi nelle riserve, ma non bastandogli continuano a farci i loro porci comodi. Nel gennaio di quest’anno Donald Trump ha deciso, nonostante la disperata opposizione dei Sioux, di far passare alcuni oleodotti nelle loro riserve del North Dakota.

Se erano vigliacchi in partenza ora lo sono diventati all’ennesima potenza. Non hanno il coraggio di scendere sul terreno, ma usano quasi esclusivamente bombardieri e droni. Affermano che l’Isis è il maggior pericolo per l’Occidente, ma per conquistare Mosul utilizzano il coraggio (quelli ce l’hanno) dei peshmerga curdi e dei pasdaran iraniani. Non c’è quasi ospedale che non abbiano colpito, in Afghanistan, in Siria e altrove.

Dal 1990, collassato il contraltare sovietico, non fanno che inanellare guerre di aggressione: prima guerra del Golfo (1990), guerra antiserba in Bosnia con l’appoggio degli europei (1992-1995), guerra alla Serbia del 1999 con la partecipazione di altri membri di quella finzione che è la Nato, ma non tutti (la piccola Grecia si rifiutò di parteciparvi, l’Italia invece si prestò nella poco nobile parte del ‘palo’, gli aerei che andavano a bombardare Belgrado partivano da Aviano), guerra all’Afghanistan (2001-?), guerra all’Iraq (2003) nonostante l’opposizione dell’Onu che si era opposta anche all’aggressione alla Serbia, guerra alla Somalia per interposta Etiopia (2006-2007), guerra alla Libia (2011) con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti quelli che ora piangono lacrime di coccodrillo. In attesa di ulteriori sviluppi della crisi nordcoreana.

Hanno un centinaio di basi militari, anche nucleari, in tutto il mondo, persino nella piccola e pacifica Islanda, e possono colpire chi vogliono e quando vogliono.

E allora chi sono i terroristi internazionali? Una bella epidemia di morbillo e magari di varicella e anche di pertosse è il minimo che gli si può augurare.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2017