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Furio Colombo in un articolo pubblicato dal Fatto qualche giorno fa ci chiede se ci ricordiamo che cosa stavamo facendo alle 14:45 (ora italiana) dell’11 settembre 2001. Io lo ricordo bene. Dormivo, dopo una notte balorda. Mi svegliò lo squillo del telefono. Era un’amica: “Stanno bombardando New York. Accendi la Tv”. Accesi e vidi quello che più o meno tutti abbiamo visto, fino al collasso delle Torri. Non provai né costernazione né fui preso dalle isterie Fallaci style (“Oh God! Oh my God!”) che poi diventeranno il tema de La rabbia e l’orgoglio. Nella mia testa aleggiavano piuttosto i pensieri che poco dopo il filosofo francese Jean Baudrillard avrebbe messo sulla carta con crudezza, con lucidità e con grande coraggio (e ce ne voleva davvero tanto in quel momento): “che l’abbiamo sognato quell’evento, che tutti senza eccezioni l’abbiamo sognato – perché nessuno può non sognare la distruzione di una potenza, una qualsiasi, che sia diventata tanto egemone – è cosa inaccettabile per la coscienza morale dell’Occidente, eppure è stato fatto, un fatto che si misura appunto attraverso la violenza patetica di tutti i discorsi che vorrebbero cancellarlo” (Lo spirito del terrorismo, 2002).

Per tutta la vita ho sognato che bombardassero New York e non potevo essere così disonesto con me stesso e con i lettori da negarlo nel momento in cui il fatto era avvenuto. Eppure ho provato anch’io un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano. Pensavo però che gli americani, colpiti per la prima volta sul loro territorio e che per mezzo secolo avevano colpito, con tranquilla e spietata coscienza, nei territori altrui, che negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale bombardarono a tappeto Lipsia, Dresda, Berlino col preciso scopo di uccidere milioni di civili perché, come dissero esplicitamente i comandi politici e militari statunitensi dell’epoca, bisognava “fiaccare la resistenza del popolo tedesco”, che avevano sganciato una terrificante Bomba su Hiroshima, replicando tre giorni dopo su Nagasaki quando i devastanti effetti dell’Atomica erano diventati evidenti e che nel dopoguerra avevano fatto centinaia di migliaia di vittime innocenti in ogni angolo del pianeta, capissero la lezione. Capissero cioè che cosa vuol dire vedere le proprie abitazioni, le proprie case, i propri grattacieli distrutti d’un sol colpo lasciando sul terreno migliaia o decine di migliaia di morti. Invece il cowboy stordito da quel colpo imprevisto, rialzatosi cominciò a sparare sul bersaglio più a portata di mano e più facile: l’Afghanistan (per la verità il Washington Post e il New York Times – libertà dei giornali americani rispetto a quelli italiani che sono sempre più realisti del re – rivelarono in seguito che i piani per l’aggressione all’Afghanistan e all’Iraq erano pronti da mesi e del resto era circa da un anno che il Pentagono trafficava con il leader dei Tagiki, Massud, per preparare l’invasione dell’Afghanistan).

Non c’era nessuna seria ragione per attaccare l’Afghanistan talebano. Bin Laden? L’ambiguo califfo saudita i Talebani se l’erano trovato in casa, ce l’aveva portato il nobile Massud, che in Occidente gode di grande considerazione, perché lo aiutasse a combattere un altro ‘signore della guerra’, Gulbuddin Hekmatyar, suo storico avversario. E quando nell’inverno del 1998 Bill Clinton aveva proposto al Mullah Omar di far fuori Bin Laden, che Omar disprezzava e definiva “un piccolo uomo”, il capo dei Talebani si era dichiarato disponibile purché fossero gli americani a assumersi ufficialmente la responsabilità dell’assassinio. Perché Bin Laden godeva di un certo prestigio in Afghanistan dato che con le sue ricchezze personali vi aveva costruito infrastrutture, strade, ponti, ospedali (cioè quello che avremmo dovuto in seguito fare noi e non abbiamo fatto). Comunque all’ultimo momento Clinton, da cui pur partiva la proposta, si era tirato inspiegabilmente indietro. Non c’era un afghano nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle, non un solo afghano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Qaeda scoperte dopo l’11 settembre. C’erano arabi sauditi, tunisini, egiziani, giordani, yemeniti, ma non afghani. Inoltre, durante i 14 anni di resistenza agli eserciti occupanti i Talebani hanno sempre colpito obiettivi militari e politici, non i civili se non per gli inevitabili ‘effetti collaterali’. Recentemente, il 24 agosto a Kabul, è stata attaccata l’università americana (American University of Kabul) dove studiano molti studenti afghani. I Talebani non solo hanno smentito di essere i responsabili ma hanno dichiarato che apriranno un’inchiesta su questo attentato che ha causato una quindicina di morti. Temono infatti che tra le loro file si siano infiltrati elementi dell’Isis che gli occidentali stano ottusamente favorendo combattendo i Talebani, che per quanto sunniti, sono acerrimi nemici di Al Baghdadi invece che gli uomini del Califfo. E, sia detto di passata, nel codice di comportamento dei guerriglieri talebani, dettato dal Mullah Omar nel 2009, è escluso l’utilizzo di bambini in guerra e tantomeno come kamikaze.

Ma questa è storia dell’oggi. Torniamo a quanto accadeva immediatamente dopo l’11 settembre. Gli americani che avevano già portato i loro bombardieri nelle basi dell’alleato Pakistan pretesero dal governo talebano la consegna di Bin Laden. Il governo talebano chiese che gli americani fornissero delle prove o almeno degli indizi consistenti che Bin Laden era alle spalle dell’attentato alle Torri Gemelle e di quelli avvenuti nel 1998 in Kenya e Tanzania. Come avrebbe fatto qualsiasi altro governo e come sta facendo il governo americano a proposito della richiesta turca di estradizione di Gülen. Gli americani risposero arrogantemente: “Le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. E fu la guerra.

Leggo nelle cronache rievocative di oggi un certo disprezzo per la scarsa resistenza che i Talebani opposero all’invasione americana. Per forza. I Talebani sul terreno si trovavano di fronte uomini di pari valentia guerriera, i Tagiki di Massud (che nel frattempo era stato assassinato proprio dagli americani per i motivi che ho spiegato nella mia biografia del Mullah Omar) ma dal cielo le loro linee erano costantemente bombardate da diecimila metri d’altezza dai B52. Si ritirarono a Kandahar, la loro storica roccaforte. Ma responsabilmente il Mullah Omar decise la resa, liberando i suoi uomini da ogni impegno, perché i caccia americani bombardavano la città a tappeto, come sempre a chi cojo cojo, distruggendo anche i parchi giochi dei bambini. A quel punto americani e inglesi, che erano anche loro della partita, cominciarono la caccia a Omar su cui pendeva una taglia, allora, di 50 milioni di dollari. Tutti pensavano che Omar fosse intrappolato a Kandahar. Invece era riuscito a sgusciare dall’assedio la notte stessa in cui aveva dichiarato la resa insieme a 1.500 fedelissimi rifugiandosi nel territorio, i Monti Neri sopra Bagram, controllato da un capo tribale, Walid. Individuato finalmente dopo un mese grazie ai satelliti, gli inglesi, a cui era stato dato questo compito, ne chiesero la consegna a Walid. Walid traccheggiò per un paio di giorni consentendo al Mullah Omar quella famosa fuga in moto che per me resta l’ultimo, e forse unico, atto romantico delle sordide guerre ‘post eroiche’ e ‘asimmetriche’ che stiamo combattendo da quindici anni.

Con pazienza il Mullah Omar ritesse la sua tela e diede inizio alla resistenza contro gli occupanti stranieri. Qui c’è da sfatare una leggenda, o meglio ancora una balla, in cui cadono anche sperimentati commentatori e inviati occidentali. E cioè che l’indipendentismo talebano sia stato foraggiato dal Pakistan o addirittura che sia un’emanazione dell’Isi, il servizio segreto pakistano. Se così fosse almeno un missile Stinger terra-aria i Talebani lo avrebbero (quei missili che, forniti dagli americani, costrinsero al ritiro i sovietici). È evidente infatti che le difficoltà del movimento indipendentista talebano-afghano derivano da non avere una contraerea. Quando, recentemente, hanno conquistato la città di Kunduz i bombardieri della Nato l’hanno quasi rasa al suolo colpendo anche l’ospedale di Medici senza frontiere, come qualcuno ricorderà. Inoltre il 5 maggio 2009 l’esercito pakistano lanciò un attacco di violenza inaudita, senza precedenti anche per i livelli di questi Paesi turbolenti, nella valle di Swat su ordine del generale americano David Petraeus. L’attacco aveva l’obiettivo di uccidere tutta la dirigenza talebana, Mullah Omar in testa, che si pensava fosse nascosta da quelle parti. Quanti siano stati i morti non si sa. Si sa invece che i profughi da Swat furono due milioni. I giornali italiani titolarono: “Due milioni in fuga dai Talebani”. Invece fuggivano dall’esercito pakistano. Di questo genere sono le informazioni che si danno sull’Afghanistan e questo è l’aiuto che il Pakistan ha fornito al movimento talebano.

L’aggressione all’Afghanistan è, per parafrasare Saddam Hussein, ‘la madre’ di tutto ciò che è successo dopo. Gli afghani non sono arabi, sono un antico popolo tradizionale, come i curdi, ma sono pur sempre musulmani. L’aggressione all’Afghanistan, con le successive umiliazioni, sevizie e torture subite dai guerriglieri talebani a Guantanamo ha infiammato l’immaginario del mondo arabo, o almeno di parte di esso. Lo dicono quelle tute arancioni che gli uomini dell’Isis fanno indossare ai loro prigionieri prima di decapitarli com’è documentato da quei loro atroci video. E arancioni erano le tute in cui a Guantanamo gli americani costringevano i prigionieri afghani.

All’inizio quindi c’è l’Afghanistan. Poi ci sono stati l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003, l’attacco alla Somalia degli shabaab, per interposta Etiopia, del 2006/2007, l’attacco alla Libia del 2011.

L’11 settembre di quest’anno non starò quindi ad ascoltare compunto la lettura dei nomi delle quasi tremila vittime delle Torri Gemelle che si fa ogni anno a Ground Zero. I morti civili provocati direttamente o indirettamente dagli americani e dai loro alleati dopo l’11 settembre assommano a circa un milione. A nominarli tutti uno per uno, ammesso che un nome questi ce l’abbiano, ci vorrebbero quindici anni. Esattamente il periodo di tempo che passa dall’aggressione all’Afghanistan ad oggi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2016

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Caro Biondo,
sono d'accordo con lei, ma non del tutto. In una partita della Nazionale di non mi ricordo più quanti anni fa il commentatore Bruno Pizzul, bravissimo (anche se non all'altezza di Nicolò Carosio che non riconosceva i giocatori ma sapeva dare patos alle partite) osò chiamare 'negretto', in senso assolutamente positivo (la frase era più o meno "gioca bene questo negretto") l'ala destra dell'Inghilterra. Si scatenò un putiferio contro l'innocente e un po’ sbalordito Pizzul bollato come 'razzista'.
Sì, parlando in un senso più lato, stiamo diventando peggio degli americani, che è tutto dire. Se le gravi condizioni della mia vista non me lo impedissero me ne andrei volentieri altrove, in particolare in Corsica, isola bellissima abitata ancora da uomini veri (diciamo degli afgani in tono un po' minore). Non posso lasciare l'Italia, ma posso lasciare il giornalismo, un mestiere inutile quando non complice, tranne rarissime eccezioni, del Potere, di qualsiasi Potere purché sia quello del momento. Addebito alla classe intellettuale italiana, più che alla politica, le condizioni in cui ci siamo ridotti.
Un caro saluto dal suo Massimo Fini


Sabato, 3 settembre 2016

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Non credo affatto che l’attentato di Gaziantep sia dell’Isis. Non solo, e non tanto, perché l’Isis, che punta a mettere il suo cappello anche sull’incendio di un pagliaio, non l’ha rivendicato, come non ha mai rivendicato nessun attentato avvenuto in territorio turco, ma perché nella estremamente complessa situazione mediorientale dove tutti sono, almeno in apparenza, contro l’Isis e l’Isis è contro tutti, il movimento indipendentista curdo è l’ultimo che può interessare gli uomini di Al-Baghdadi (anzi gli fa gioco perché contribuisce ad alimentare il caos in cui l’Isis sguazza) così come poco gli interessa colpire la Turchia che a lungo ha fatto il doppio gioco, e probabilmente continua a farlo, fingendo di combattere Isis ma in realtà per picchiare più comodamente sui curdi. Tra l’altro sul fronte siriano curdi e guerriglieri di al-Nusra (una dependance dell’Isis) sono oggettivamente alleati perché combattono, insieme agli altri insorti, contro il regime di Assad, sia pur per motivi diversi. I curdi per riprendersi una parte del proprio territorio occupato arbitrariamente dalla Siria, i jihadisti per cercare di sfondare su quel fronte o quantomeno per tentare di ritardare l’avanzata della coalizione anti-Isis verso il territorio del Califfato. È anche vero però che nel generale rimescolamento delle carte i peshmerga curdi e i pasdaran iraniani combattono in Libia contro Isis. E in Libia i curdi non hanno interesse alcuno. È un generoso regalo che i curdi, straordinari combattenti ma politicamente sprovveduti (basta pensare alle loro decennali divisioni interne fra il PKK di ispirazione comunista e gli altri indipendentisti che oggi sono riuniti sotto la sigla TAK) fanno all’Iran che li ha sempre massacrati (la prigione di Evin, a Teheran, è sempre stata piena di detenuti curdi) e agli americani che pure li hanno sempre osteggiati in funzione dell’alleato turco.

Tuttavia io penso che quello di Gaziantep sia un auto attentato organizzato da Erdogan che, come abbiamo visto, è ormai capace di tutto. In primo luogo perché lo pensano gli stessi curdi di Gaziantep che dopo l’attentato hanno gridato “assassino, assassino” riferendosi a Erdogan e alla delegazione del suo partito (AKP). Inoltre perché molto sospetta la precipitosa attribuzione, da parte di Erdogan, dell’attentato all’Isis che gli permette di continuare nel doppio gioco di fingere di combattere Isis per poter colpire con mano libera, e meno decifrabile, i movimenti indipendentisti curdi. Perché per la Turchia il vero pericolo non è né Assad né Isis, ma sono i circa 12 milioni di curdi che vivono al suo interno, che bramano l’indipendenza e che da sempre sono repressi nel modo più brutale dal governo di Ankara. Ed è una delle vergogne del governo D’Alema l’aver consegnato il leader del PKK Ocalan, che si era rifugiato a Roma chiedendo un asilo politico che gli era dovuto, alla Turchia e alle sue famigerate prigioni in cui è tuttora rinchiuso (qualcuno ricorderà forse lo splendido film Fuga di mezzanotte).

In realtà una parte del caos mediorientale, e non solo, si potrebbe spiegare con la politica anti curda del governo di Ankara sostenuto in questo dagli Stati Uniti. Per molti decenni la Turchia è stato l’alleato privilegiato degli americani nella regione, molto più dell’Europa, sia per la sua posizione geografica e orografica (è una grande portaerei naturale in mezzo al Mediterraneo e gli USA vi mantengono tuttora, anche se i legami si sono fatti più complicati, la fondamentale base aerea di Incirlik).

Nel 1988 Saddam Hussein, allora cripto alleato degli Stati Uniti, ‘gasò’ in un sol colpo nella cittadina curdo-turca di Halabaya cinquemila civili e quel gas gli era stato fornito, oltre che dalla Francia e, via Germania Est, dall’URSS, dagli stessi Stati Uniti. E che cosa fecero gli americani, questi riparatori di torti, questi giustizieri della notte, questi scrupolosissimi difensori della legalità internazionale, questi vessilliferi dell’ordine morale? Fecero finta di nulla. Spiegò allora il giornalista Safire del New York Times: “Parte del compenso per la collaborazione di Ozal (allora il premier turco, ndr) nel concederci una base aerea consiste nella garanzia che non avremmo incoraggiato il nazionalismo curdo. Probabilmente gliela abbiamo data: svendere i curdi, anche dopo Halabaya, è una specialità del Dipartimento di Stato americano”.

Anche la inesplicabile e illegittima guerra alla Serbia di Milosevic per il Kosovo si può spiegare (oltre che con la volontà di togliere di mezzo l’ultimo stato paracomunista rimasto in Europa) in funzione pro Turchia. Era intenzione degli americani di creare nei Balcani una striscia di musulmanesimo moderato (Kosovo + Bosnia + Albania) a favore della Turchia, laica ma anche musulmana sia pur all’acqua di rose. Come dalla guerra all’Iraq del 2003 anche questa operazione gli è girata in culo, agli americani e soprattutto a noi europei: oggi in Kosovo, in Bosnia, in Albania ci sono basi (Bosnia) e cellule jihadiste nel centro dell’Europa, pronte a colpirci in ogni momento.

Quindi se le modalità dell’attentato di Gaziantep sembrano Isis (anche se poi il governo turco ha dovuto smentire che si trattasse di un bambino kamikaze) è molto probabile che alle sue spalle ci sia, in modo diretto o indiretto, Recep Tayyip Erdogan. Colpevolizzare l’Isis fa comodo a tutti, farlo con Erdogan disturba i russi, gli europei e soprattutto gli americani che a loro volta in Medio Oriente, non diversamente da tutti gli altri protagonisti di questo conflitto, fanno un doppio e triplo gioco. Sono contro Assad sostenuto dai russi ma sono anche alleati ai russi, non gli piace il governo di Erdogan ma sono costretti a tenerselo ben stretto perché è un alleato strategicamente troppo importante.

Bisogna malinconicamente concludere che in Medio Oriente e altrove c’è una sola forza che ha obiettivi chiari e non parla con lingua biforcuta: l’Isis.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano del 24 agosto 2016