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Il caporalmaggiore Salvatore Vacca morì di leucemia nel 1999 per aver respirato le esalazioni di uranio impoverito delle bombe usate a piene mani, per così dire, dagli americani e dagli inglesi nella guerra di Bosnia del ‘94/’95. In Bosnia era restato 150 giorni. Ora la corte d’Appello di Roma ha condannato il ministero della Difesa a pagare un milione e mezzo di euro ai familiari della vittima. Secondo l’Osservatorio Militare i soldati italiani morti per lo stesso motivo sono 333 e i malati 3.600. All’inizio dell’anno era stata data notizia della morte per leucemia e sempre per gli stessi motivi del maresciallo dell'Aeronautica militare Luciano Cipriani che aveva prestato servizio in Afghanistan. La sentenza della corte d’Appello si basa sul fatto che i militari non erano stati sufficientemente informati del pericolo delle contaminazioni. Però che l’uranio impoverito costituisse un’insidia era comunque cognizione diffusa fra i nostri soldati che, sia pur a livello personale e senza avere le precise informazioni che il ministero della Difesa avrebbe dovuto dare, qualche precauzione l’avranno pur presa. Inoltre i membri dei nostri reparti, come quelli di tutti gli altri contingenti, restano nel luogo di guerra a rotazione e quindi per un periodo limitato. Nulla invece ci viene detto dei morti e degli ammalati fra gli abitanti dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Bosnia dove gli occidentali hanno scaricato bombe all’uranio impoverito a tonnellate. Questo è particolarmente vero soprattutto in Afghanistan dove queste bombe sono state utilizzate a man bassa prima per cercare di uccidere Bin Laden (7.000 tonnellate solo per questo obbiettivo ‘mirato’) e poi nella guerra contro la resistenza talebana. E gli abitanti dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Bosnia, oltre a non saper nulla delle insidie ‘collaterali’ di quelle bombe, su quei territori non ci sono restati tre o quattro mesi ma ci vivono. Non è difficile presumere, facendo un raffronto con quanto accaduto ai nostri soldati, che fra i locali i morti e gli ammalati di leucemia siano migliaia o decine di migliaia. Inoltre abbiamo testimonianze dirette che in Afghanistan sono nati e continuano a nascere bambini focomelici. Nel marzo del 2003 un vecchio, Jooma Khan, che vive in un villaggio della provincia di Laghman, nell’Afghanistan nord-orientale, ha raccontato: “Quando vidi mio nipote deforme mi resi conto che le mie speranze per il futuro erano scomparse. Ciò è differente dalla disperazione provata per le barbarie russe, anche se a quel tempo persi il mio figlio più grande, Shafiqullah. Questa volta invece sento che noi siamo parte dell’invisibile genocidio che l’America ci ha buttato addosso, una morte silenziosa da cui non potremo fuggire” (Robert C. Koehler, in Tribune Media Services, 2004).

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2016

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Nei giorni della lunga agonia di Marco Pannella mi è tornato in mente il pamphlet di Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, ripubblicato in Italia nel 2012 non a caso in forma semiclandestina dall’editore Castelvecchi. In questo libro si possono leggere affermazioni come queste: “l’idea di partito non rientrava nella concezione politica francese del 1789, se non come quella di un male da evitare”, “quando in un Paese esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco”, “lo spirito di partito è arrivato a contaminare ogni cosa”, “la soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro”. La Weil riteneva che il solo e il vero fine di un partito è l’autopotenziamento proprio e dei suoi adepti. Nella prefazione del libro della Weil André Breton riferisce come Albert Camus (riferendosi ovviamente alla democrazia francese del dopoguerra) “vedesse nella non-appartenenza a un qualunque genere di partito la prima garanzia che dovrebbe essere fornita da tutti coloro che, attraverso un largo e appassionato scambio di idee e punti di vista, ritengono sia ancora possibile aspettarsi un rimedio al male odierno”.

La battaglia contro la partitocrazia ha avuto in Italia anche altri protagonisti come il giurista Giuseppe Maranini e addirittura, nel 1960 l’allora Presidente del Senato Cesare Merzagora che in un durissimo discorso in Parlamento tuonò contro la crescente invadenza dei partiti in ogni settore della vita pubblica e anche privata, ma solo Marco Pannella, a mio modo di vedere, è stato l’interprete, sia pur a modo suo, del pensiero radicale di Simon Weil. Cercò di affermare le idee superando i partiti (e infatti fu sempre ostile alla trasformazione dei Radicali in partito e quando il movimento da lui fondato raggiunse il consenso record dell’8 per cento sembrò dolersene più che gioirne) ma servendosi di essi di volta in volta, con molta disinvoltura perché le idee e non i partiti avessero il sopravvento.

La Weil, Albert Camus, André Breton possono essere ascritti all’area di pensiero della sinistra radicale, ma la questione dei partiti come elemento degenerativo della democrazia e anzi come la sua stessa negazione (in sintesi: i partiti non sono l’essenza della democrazia ma la sua fine) fu affrontata, in modo ben più sistematico, già ai primi del Novecento dalla cosiddetta scuola elitista italiana, vale a dire Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Gaetano Mosca, ritenuta di destra. Scrive Mosca ne La classe politica: “Cento che agiscano sempre di concerto e di intesa gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro”. Il voto del cittadino singolo, libero, non intruppato in gruppi, si diversifica e si disperde, proprio perché libero, laddove gli apparati dei partiti, facendo blocco, o addirittura il loro leader, sono quelli che effettivamente decidono chi deve essere eletto. Il voto di opinione, cioè il voto veramente libero, non ha alcun peso rispetto al voto organizzato. Così l’uomo libero, che per convinzione o temperamento non vuole assoggettarsi a umilianti infeudamenti ai partiti, e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia altrettanto ideale, ne diventa invece la vittima designata contradicendo i principi della Rivoluzione francese come ricordava Simon Weil nel suo pamphlet.

Ma non c’è stato niente da fare. Nel corso degli ultimi due secoli i partiti hanno preso il sopravvento e il pensiero liberale che voleva valorizzare capacità, meriti, potenzialità del singolo è stato tradito a favore delle lobbies di cui i partiti sono la principale incarnazione. Questo processo è avvenuto in tutte le democrazie occidentali ma è particolarmente evidente e scandaloso in Italia dove i partiti si sono impadroniti di tutte le Istituzioni (Presidenza della Repubblica, governo, parlamento, consiglieri regionali, provinciali, comunali, sindaci) delle aziende di Stato e del parastato finendo per lottizzare tutto, dai vigili urbani ai netturbini.

Poco importa che oggi il Pd sia magna pars di questa spartizione, la questione è di sistema. Prendiamo la Rai che è l’esempio più emblematico ma anche quello forse più comprensibile al lettore. La Rai è un ente pubblico che, in quanto tale, dovrebbe appartenere a tutti i cittadini. Invece non c’è direttore di rete, direttore di telegiornale, giornalista e nemmeno usciere che non sia al posto che occupa in virtù del legame con un partito (non è necessario avere una tessera, questo lo fanno solo gli sprovveduti, perché tutto avviene con accordi sottobanco). In Rai c’è una Commissione di Vigilanza che dovrebbe, appunto, vigilare sulla equa distribuzione delle libere opinioni. Ma da chi è composta la Commissione di Vigilanza? Da rappresentanti dei partiti. Cioè i controllati sono anche i controllori.

Ma Rai a parte tutto o quasi il settore dell’informazione, anche quella privata, vitale in una democrazia, vive sotto il tallone, a volte di ferro, a volte in modo più soft, dei partiti. Il grottesco e anche patetico caso della sostituzione alla direzione di Libero di Maurizio Belpietro con Vittorio Feltri è dovuto all’interesse dei proprietari, gli Angelucci, a legarsi a Denis Verdini a sua volta legato al Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. La stessa sorda lotta per assicurarsi la proprietà del Corriere della Sera non è una lotta per impadronirsi di quote di mercato e trarne profitto, ma per compiacere i politici in questo momento dominanti.

In questa situazione torna l’eterna e cernysevskijana e leniniana domanda: che fare? Con il proprio voto ai partiti i cittadini non riusciranno mai a liberarsi della loro invadenza perché i partiti non rinunceranno mai a ridurre il loro potere, dato che, come dice ancora la Weil, il loro fine primo se non anche ultimo è quello di costantemente autopotenziarsi. Ci vorrebbe una rivolta sociale. Ma gli italiani sono troppo deboli, fiacchi o rassegnati per una soluzione del genere. E così continueremo in questa agonia in saecula saeculorum.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2016

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L’intero Sessantotto visse molto di più sui giornali borghesi che nella realtà. Almeno fino a quando, col rapimento del giudice Sossi e il conseguente assassinio, due anni dopo del Procuratore generale di Genova Francesco Coco, le Brigate Rosse non passarono all’azione. Ma le Brigate Rosse non si ispiravano alla Rivoluzione cinese, bensì al mito della Resistenza italiana che con la Rivoluzione cinese, con tutta evidenza, non aveva nulla a che vedere. Fra gli innumerevoli gruppuscoli che nacquero nel Sessantotto, Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Manifesto, Potere Operaio, Lotta comunista, Quarta internazionale, situazionisti, commontisti, Gruppo Gramsci, Partito comunista italiano (m.l.), che detto per esteso significa Partito Comunista italiano marxista leninista, solo quest’ultimo, che all’inizio si chiamava Unione, si ispirava direttamente alla Rivoluzione cinese del 1966. Gli altri gruppi tendevano piuttosto a guardare a quella sovietica e sotto le mura della Statale di Milano, occupata dagli studenti, si poteva sentir risuonare il rabbrividente slogan “viva Stalin, viva Beria, viva la Ghepeu” ed era la prima volta che un movimento che si diceva rivoluzionario inneggiava alla polizia e, più precisamente, alla polizia politica di cui il sanguinario Lavrentiy Beria era stato il capo.

Il Partito Comunista italiano (m.l) nacque a Milano nel ’68 dalla fusione dei gruppi Falce e martello e Bandiera Rossa. L’Unione dei marxisti e leninisti ebbe brevi momenti di splendore, seguiti da un rapidissimo declino. Fu l’unico dei gruppi a ricevere quattrini dalla Cina e il suo capo fu ospitato dal Presidente Mao (cosa che rendeva verdi di rabbia i leader degli altri gruppuscoli). Gli emmeelle vivevano nel culto di Mao. Il maoismo vi era inteso come dogma e ripetizione talmudica. La stessa struttura dell’Unione non era che la riproduzione esatta e pedante del partito comunista cinese. All’interno dell’Unione c’era, come in Cina, una lega delle donne, una lega dei giovani pionieri, una lega degli anziani. Il lavoro dei marxisti-leninisti era esclusivamente di propaganda. Il concetto era infatti che il Partito era la Verità e la Verità non ha bisogno d’altro che di essere diffusa. Cosa che a ben guardare non si discosta molto dalla cosmologia cui si ispirano Al Baghdadi e i suoi uomini, con la differenza che costoro si battono mentre i marxisti-leninisti erano violentissimi a parole ma pressoché innocui quando si trattava di passare all’azione. Vivevano su un altro pianeta. Il pianeta di Mao. Per diffondere il loro Verbo utilizzavano un giornale quotidiano murale e il settimanale Servire il popolo che aveva una discreta diffusione. Il Partito si finanziava attraverso una autotassazione dura ed esigente. Una compagna che aveva ricevuto una eredità di 50 milioni fu espulsa per averne devoluti solo 15 al Partito. A Milano i militanti erano circa 2.500 e il capo nazionale si chiamava Luca Meldolesi, un operaio che aveva scritto un libro su Forza lavoro e mercato. Dominata da un moralismo forsennato e infantile l’Unione era nota più che altro per aver toccato, ed abbondantemente superato, i limiti del grottesco con i suoi matrimoni marxisti-leninisti. Io assistetti a Firenze a una di queste cerimonie: era una triste parodia, senza un lampo di fantasia o di originalità o di intelligenza, dei matrimoni dei comuni e odiatissimi borghesi.

L’unico intellettuale di grido che si fece attrarre da questo maoismo di risulta fu il sempre molto generoso ma anche molto ingenuo Dario Fo. Mi ricordo che una volta alla Palazzina Liberty esaltò il fatto che i cinesi su un fiume (non ne rammento ora il nome) avevano organizzato, per deviarlo, una diga umana. Il buon Dario non si rendeva conto che stava facendo l’esaltazione della schiavitù.

In realtà il maoismo penetrò in Italia non direttamente dalla Cina ma attraverso la guerra del Vietnam dove i vietcong stavano dando filo da torcere agli americani e nel 1975 li cacciarono. Mi ricordo un editoriale del Corriere della Sera firmato da Giuliano Zincone, che seguiva estasiato le manifestazioni pro-vietcong, che prendeva il titolo da una frase del testo che diceva: “Il Vietnam vince perché spara”.

Conclusa la guerra del Vietnam e passati alcuni furori il nome di Mao Tse-tung divenne, più correttamente, Mao Zedong. E fu la fine dell’influenza del comunismo cinese in Italia. La Cina non era più vicina. O forse era diventata troppo vicina e simile a noi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2016