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Si sta espandendo anche in Italia la pratica del ‘child free’: degli alberghi che non accettano bambini. Si sa i bambini fanno chiasso, corrono, sporcano e addirittura, se sono molto piccoli, frignano. E quindi disturbano la quiete dei clienti. Per la verità in giro più che bambini io vedo cani, di tutte le razze, che d’inverno vengono rivestiti di cappottini e anche, a volte, muniti di guanti, perché non prendano freddo, poveri cari. Secondo me i cani andrebbero trattati da cani, senza farne una sorta di scimmie umane, con opportuni calci nel culo quando occorre. Ma siamo un paese di animalisti e se ti azzardi a dare una pedata a un cane che ti ha morso il polpaccio rischi di finire non al Pronto soccorso ma in gattabuia per “maltrattamento di animali”. Ci inumidiamo fino alle lacrime per le fotografie di corpi di bambini stesi, esanimi, su qualche spiaggia della rotta dei migranti o morti assassinati dai bombardieri in Siria o in Iraq. Ma bambini vivi non vogliamo averli fra i piedi. Via, raus, foera di ball. I bambini, soprattutto nelle grandi città, non hanno luoghi in cui giocare. Per esempio nel centro di Milano ci sono degli splendidi palazzi che hanno al loro interno dei giardini altrettanto belli, ma la maggioranza dei condomini proibiscono ai bambini di andarci a giocare. Disturbano il riposo e possono danneggiare il famoso ‘verde’. Abbiamo il culto delle piante, tanto che impicchiamo gli alberi alle facciate di vetrocemento di certi grattacieli e li chiamiamo ‘boschi verticali’.

Comunque i condomini, come i club, sono luoghi privati e si danno le regole che più ritengono opportune. Ma gli alberghi, i ristoranti, i caffè, i bar sono luoghi pubblici, aperti al pubblico. C’è quindi da vedere, in prima istanza, se la pratica del child free è legale. All’apparenza sembrerebbe di no. Il Testo Unico di Pubblica Sicurezza recita: “Gli esercenti di locali pubblici non possono rifiutare di accogliere o servire un cliente a meno che non vi sia una legittima ragione”. Ma, come sempre, in Italia c’è una scappatoia costituita in questo caso dalla “legittima ragione” che ognuno può interpretare come gli pare.

Ad ogni modo se si accetta che la pratica del child free sia legale si aprono le porte a ogni sorta di apartheid. Gli ‘over 70’? A nessuno piace vedere un vecchio bavoso, con la patta dei pantaloni mezza aperta perché si è dimenticato di abbottonarsi, mentre a colazione biascica la sua brioche. Eppoi gli over 70 sono notoriamente ‘a rischio’, d’infarto, di ictus. Arrivo di ambulanze, sirene e addio alla quiete dei clienti. Via i vecchi dagli alberghi. ‘Old free’. E gli handicappati? A nessuno piace vedere una persona menomata che magari pretende anche di girare per la hall e nei corridoi in carrozzella. Via gli handicappati dagli alberghi. ‘Handy-handy free’. E i nani? I nani sono, oltre che disgustosi, pericolosi. Perché sono cattivi. “Hanno il cuore troppo vicino al buco del culo” come scrisse la formidabile giornalista del Borghese, Gianna Preda, a proposito di Amintore Fanfani, molti decenni prima che Fabrizio De André le scippasse il brand. Via i nani dagli alberghi. ‘Dwarf free’. E chi porta la barba? Potrebbe essere un pericoloso jihadista. O anche semplicemente un erede e seguace dei ‘barbudos’ di Castro e del Che e quindi di Chavez e persino del dittatore Maduro. La barba è un simbolo politico e come tale inaccettabile in un luogo pubblico. Se la rasino prima di entrare in un albergo. Via i barbuti dagli alberghi. ‘Beard free’. E le donne che portano il velo (non il burqa, ma lo hijab che copre solo i capelli)? Il velo è un simbolo religioso e come tale inammissibile in un luogo pubblico. Via le musulmane dagli alberghi. ‘Muslim free’. E le donne incinte? Potrebbero accusare le doglie in albergo. Trambusto, arrivo di medici e infermieri con buona pace dei clienti. Via le donne in stato interessante dagli alberghi. ‘Pregnant free’. E le donne in generale con quel loro fastidiosissimo ticchettio mentre marciano su tacco 12? Si accertino di avere non più di un tacco 8 se vogliono entrare in albergo. Altrimenti se ne vadano da un’altra parte, magari in campeggio che è più salutare. Via i tacchi a spillo dagli alberghi. ‘Heel free’.

In ogni caso la questione del ‘child free’ si eliminerà da sola. Il tasso di fertilità delle donne italiane è 1,3. Fra poco non nasceranno più bambini. Problema risolto.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2017

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31/7. Attacco a Kabul a un compound della polizia afghana vicino all’ambasciata irachena (rivendicazione Isis). 25/8. Attacco alla moschea sciita di Imam Zaman. Venti morti e 35 feriti (attacco Isis). 29/8. Attacco alla filiale della Kabul Bank dove soldati e poliziotti stavano ritirando il salario. Cinque morti e nove feriti. Rivendicato dai Talebani.

Kabul brucia. Per i Talebani e gli jihadisti concentrare i propri sforzi sulla capitale afghana, oltre che un importante valore simbolico ne ha uno, ancor più importante, strategico. Infatti tutte le volte che i Talebani sono riusciti a riconquistare una città di piccole o medie dimensioni sono stati spazzati via dall’aviazione americana che bombarda a ‘chi cojo cojo’, come avvenne a Kunduz il 3 ottobre 2015 dove riuscirono a centrare, con precisione chirurgica, anche un ospedale di Medici senza frontiere, che da quelle parti, e non sul Mediterraneo, ha una funzione insostituibile. A Kabul gli americani e le forze Nato non possono comportarsi con la stessa criminale disinvoltura, non perché colpirebbero sicuramente dei civili (dei civili afghani non gli potrebbe fregar di meno, in sedici anni di guerra ne sono stati uccisi dai 200 ai 300 mila senza che nemmeno Amnesty International osasse emettere un solo lamento) ma sicuramente dei soldati ‘regolari’, poliziotti, spie, infiltrati, Ong, collaborazionisti di ogni genere, imprenditori ‘amici’. Devono quindi agire con più cautela, con uomini sul terreno.

Si è detto che sarebbe in corso un’alleanza fra Talebani e gli uomini di Al-Baghdadi. Un’alleanza in senso stretto non è possibile, allo stato. Perché diversi sono gli obbiettivi dei due movimenti. I Talebani vogliono ridare all’Afghanistan la sua indipendenza. La loro è una guerra ‘laica’. Quella jihadista è una guerra religiosa per piegare al verbo sunnita , in salsa wahabita, il mondo intero. Questo almeno in superficie, perché i motivi più profondi dello jihadismo sono sociali, come ho scritto più volte e come adesso è stato ammesso anche dal Procuratore della Repubblica di Trieste Carlo Mastelloni: “L’islamizzazione eversiva di ogni disagio, sia esso sociale, etnico che esistenziale sembra un dato ormai accertato idoneo a collocare in secondo piano persino la stessa conversione religiosa”. Ad obbiettivi diversi corrispondono metodi diversi. I Talebani hanno sempre mirato a colpire obbiettivi militari e politici, risparmiando il più possibile i civili, perché non hanno alcun interesse a inimicarsi la popolazione afghana sul cui appoggio si sostiene, da sedici anni, la loro resistenza. Gli jihadisti non hanno nessun a remora a colpire la popolazione, in particolare quella sciita (numerosi sono stati in Afghanistan gli attentati alle moschee sciite durante le funzioni, con centinaia di morti). Faccio notare che nei sei anni e mezzo di governo talebano la consistente minoranza sciita non è mai stata toccata. Nell’Afghanistan del Mullah Omar si poteva essere sunniti, sciiti, hazara e anche laici (Gino Strada era lì con i suoi uomini, e donne, di Emergency). L’importante era che tutti rispettassero la legge. Punto e basta.

Qualcosa però è cambiato nello scenario afghano. I Talebani, pur rimanendo militarmente, socialmente, culturalmente egemoni in tutta la vastissima area rurale del Paese (mentre la presenza dell’Isis, quasi esclusivamente militare, è assai più ridotta) si sono indeboliti. Non è stato facile per loro fronteggiare contemporaneamente gli occupanti occidentali e gli invasori dell’Isis. Inoltre la morte del Mullah Omar è stato un colpo durissimo per il movimento talebano. Omar con l’enorme prestigio che si era conquistato combattendo contro i sovietici, combattendo i ‘signori della guerra’ che avevano fatto dell’Afghanistan terra di assassinii, di stupri, di taglieggiamenti e di ogni sorta di abuso sulla povera gente, riportando la pace e l’ordine nel Paese, governandolo saggiamente, senza inutili ferocie che gli erano estranee e guidando poi per quattordici anni la resistenza agli occupanti occidentali, riusciva a tenere compatto il movimento e coerente con i suoi obbiettivi. I successori non sono alla stessa altezza. Inoltre gli americani, con grande intelligenza, sono riusciti a far fuori, col solito drone teleguidato, il suo ‘numero due’, Mansour, che se non aveva lo stesso prestigio di Omar, appartenendo alla ‘vecchia guardia’ ne condivideva le idee e le linee politiche e militari, che possiamo definire, con tranquilla coscienza, moderate. Quindi molti giovani talebani, che non hanno fatto la resistenza, vittoriosa, agli invasori sovietici, la guerra, altrettanto vittoriosa, contro i ‘signori della guerra’, che non conoscono la rigida etica talebana, così puntigliosamente precisata dal ‘libretto azzurro’ del 2009 del Mullah Omar, più che dalla moderazione della dirigenza talebana sono attratti dalla ferocia senza limiti, ma efficace, dell’Isis di cui vanno a ingrossare le fila. Inoltre molti foreign fighters che hanno perso la partita in Iraq stanno convergendo in Pakistan e in Afghanistan.

C’è quindi un interesse obbiettivo dei Talebani di venire a patti con l’Isis. Per il momento sembra che abbiano smesso di combattersi fra di loro, finendo di fare il gioco dei loro nemici comuni, anche se per motivi diversi: gli occidentali. Ma qualche alleanza ‘tattica’ è probabilmente già in atto. L’ultimo attentato alla Kabul Bank è stato rivendicato dai Talebani ma ha anche modalità Isis (il kamikaze, l’autobomba, il fatto che a ritirare i salari c’erano sì soldati, poliziotti, collaborazionisti, ma anche molti civili afghani).

Un’alleanza strategica è possibile, ma solo sulle basi poste dal nuovo leader talebano, che ha preso il posto di Mansour, Maulvi Haibatullah Akhundzada: “Voi ci aiutate a combattere gli occupanti occidentali, ma con i nostri metodi non con i vostri. Niente obbiettivi civili. Una volta cacciati gli occidentali, noi vi permettiamo di attraversare l’Afghanistan e di entrare in Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan che sono fra i vostri obbiettivi (Progetto Khorasan, con esclusione ovviamente dell’Afghanistan). Vedremo. Speriamo.

Massimo Fini

Il Fatto quotidiano, 1 settembre 2017

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Questi qui sono inesausti. Non dormono di notte. Pensano e, purtroppo, anche fanno. Nei più cupi romanzi di fantascienza qualche scrittore aveva immaginato che un giorno ci saremmo nutriti con delle pillole, mandandole giù come si fa con l’ecstasy. Oggi ci siamo, o quasi.

Bill Gates e Richard Branson (padrone di Virgin), noti benefattori dell’umanità, stanno investendo milioni di dollari in una società, la Memphis Meats, che vuole produrre in modo sintetico bistecche e altre carni animali. Scrive su Dday.it, quotidiano dell’hi-tech, Massimiliano Zocchi: “Carne venduta con il nome degli animali da cui deriva, ma per crearla non è stato ucciso nessun essere vivente perché generata in laboratorio ed ha lo stesso identico gusto e sapore. Questo è quello che promette Memphis Meats, startup di San Francisco”. Dice Richard Branson, entusiasta: “Credo che entro trent’anni non avremo più bisogno di uccidere animali e che tutta la carne sarà prodotta con processi puliti o basata sulle piante, con lo stesso sapore e anche più salutare per tutti”. Memphis Meats è già in grado di produrre carne di tre differenti tipologie, manzo, pollo e anatra, le tre più diffuse negli Stati Uniti. Secondo il CEO Uma Valeti questo processo “consente di controllare al massimo la crescita delle cellule, evitando le tossine e altri sottoprodotti che possono essere nocivi per l’uomo”. Questo processo in laboratorio utilizza cellule di animali, cellule che si autoriproducono, ma soprattutto cellule vegetali. Secondo Zocchi, ma non solo lui, con questo metodo si ottiene “la stessa massa ma con molto meno nutrimento, occupazione di suolo e risorse idriche e ovviamente si eliminano tutte le critiche per la detenzione e la violenza sugli animali”.

La proposta è stata accolta con ululati di gioia da tutto il mondo animalista (l’animalismo è ‘la malattia infantile dell’ambientalismo’). A parte il fatto che nessuno scienziato può garantire che questo tipo di cibo non porti con sé alterazioni pericolose per l’organismo umano, costoro non si rendono conto che ciò vorrebbe dire la scomparsa dalla faccia della terra dei bovini, del pollame e in seguito, poiché il programma della Memphis Meats ha grandi ambizioni, dei suini e degli ovini. Nessun agricoltore alleverebbe più animali da cui non può trarre alcun guadagno. Qualcuno terrebbe forse un paio di mucche o di galline nel cortile. Tutti gli altri sarebbero condannati a una più o meno lenta estinzione.

L’uomo è un animale onnivoro e, come tale, anche carnivoro, e quindi ha il diritto di cibarsi di altri animali come fan tutti i carnivori, senza per questo sentirsi in colpa. Il leone sarebbe molto sorpreso se qualcuno gli venisse a dire che è immorale che sbrani l’antilope.

Invece di architettare di queste scemenze i milioni di dollari che Gates e Branson hanno raccolto (l’investimento non lo fanno solo con i loro quattrini) dovrebbero servire per dare agli animali, prima di finire sulla nostra tavola, un’esistenza meno atroce . Oggi vivono stabulati, compressi in spazi limitatissimi sotto i riflettori 24 ore su 24 per farli crescere più velocemente. E gli vengono malattie che non hanno mai avuto, quelle tipiche dell’uomo: disturbi cardiovascolari, infarto, ictus, diabete, depressione. Certo liberando gli animali, come fanno in Svizzera dove esiste ancora l’alpeggio, ci sarebbe meno terreno per costruire. Il che dice che Gates and Soci, strizzando l’occhio agli animalisti, ai vegetariani, ai vegani, pensano in realtà a ciò cui hanno sempre pensato: il business. Tant’è che questi soggetti, o comunque dei loro compari, hanno accusato le mucche di essere loro, e non il Co2, la vera causa dell’inquinamento, perché scorreggiando emettono metano.

Non ci resta che sperare nell’Isis. Che tagli le gole. Ma quelle giuste.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2017