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Nella consueta «stanza» sull' Espresso, intitolata per l' occasione «Perché piace Berlusconi? Perché ha fatto tanti soldi», Giorgio Bocca lamentando il successo del Cavaliere lo attribuisce esclusivamente ai suoi quattrini. Mi sembra una tesi davvero semplicistica. Ci sono molti altri personaggi in Italia che in questi anni hanno fatto fortuna, che sono passati dall' ago al milione e che hanno quindi incarnato lo stesso mito di Berlusconi senza riscuotere lo stesso consenso popolare. Penso, fra gli altri, a Luigi Lucchini, il «re del tondino», ex presidente di Confindustria, uomo oltretutto, a differenza del Cavaliere, di rara simpatia. Non credo proprio che se Lucchini si fosse buttato in politica avrebbe ottenuto gli stessi risultati di Berlusconi, che è stato capace di raccogliere in pochi mesi, e poi mantenere, anzi incrementare, un consenso da Democrazia Cristiana dei bei dì. Nella sua apparente semplicità Silvio Berlusconi è in realtà una figura assai complessa. Certo, i quattrini contano nella sua irresistibile ascesa, ma non bastano a spiegare il fenomeno Berlusconi, anche perché i quattrini bisogna poi essere capaci a farli. In realtà Berlusconi è il prototipo della modernità, ma forse sarebbe meglio  della postmodernità. È un uomo senza storia, senza tradizione, senza cultura, senza ideologia, senza radicamento, che si esaurisce in un puro  fare. Alle sue spalle non c' è nulla. È veramente nuovo. La Fiat è una grande multinazionale presente in tutto il mondo, ma il suo stile, la sua tradizione, i suoi comportamenti, i suoi valori restano pur sempre quelli di un'azienda radicata in Piemonte. Berlusconi, pur operando, in pratica, solo in Italia, non sta in realtà in nessun luogo preciso. Sta nell'etere. Anche i suoi studi televisivi, a Cologno Monzese piuttosto che a Milano 2, sono collocati in posti che non hanno ne storia ne tradizione, stanno lì ma potrebbero stare da qualsiasi altra parte. Ciò è tanto vero che a Milano e in Lombardia la presenza di Berlusconi, nonostante l'importanza e la possa del personaggio, non si avverte in alcun modo, a differenza della vecchia borghesia meneghina dei Pirelli, dei Borletti, dei Falck, dei Crespi che dava un tono alla città, e che oggi rappresenta solo quel «piccolo mondo antico» di cui Gianni Agnelli, nei giorni scorsi, lamentava la perdita di ruolo. Berlusconi non ha alcun particolare legame con Milano, la milanesità, la Lombardia. Vive ad Arcore ma potrebbe vivere da qualunque altra parte e anche da nessuna parte. Il suo stesso aspetto fisico è anonimo, quello di un «piacione» come ce ne sono tanti e persino il suo cognome è impersonale. Berlusconi non ha valori che non siano quel liberismo che più che un' ideologia è un meccanismo, un attivismo, un fare. Quei pochi che professa, il cattolicesimo, la famiglia, sono blandi, edulcorati, all' acqua di rose, non lo impegnano e non lo implicano.Ciò dà a Berlusconi alcuni straordinari “vantaggi. Essendo un sacco vuoto {come egli stesso, in un certo senso, ha ammesso: «A seconda di chi mi sta davanti mi faccio concavo o convesso»} ognuno può mettervi ciò che più gli piace. Non per nulla in Forza Italia, come nella vecchia Dc, ma più che nella vecchia Dc, c' è tutto e il contrario di tutto. In secondo luogo Berlusconi ha le mani libere, non legate dai lacci e lacciuoli costituiti da una storia, una tradizione, un'ideologia, un radicamento, un retaggio di regole consolidate. Come ogni innovatore, Berlusconi è un distruttore. Ovunque sia passato, nell' edilizia, nelle comunicazioni, nel calcio e anche in politica, ha distrutto quello che c' era e ha costruito il suo nuovo. E' tutto fuorché un conservatore anche se molti, sbagliando, lo scambiano per tale. Giorgio Bocca e il mondo che rappresenta, la sinistra, sono invece espressione del vecchio, della conservazione, di una tradizione, di una storia, di una cultura, di un' ideologia, di un complesso di valori. E i leader che, a livello politico, guidano questo mondo valoriale, pur non essendo meno spregiudicati, intellettualmente e moralmente, di Berlusconi, ne devono tenere conto e ne hanno le mani in larga misura legate. Naturalmente si può discutere se il berlusconismo sia meglio di ciò che l'ha preceduto. Quel che è certo, e che deve essere chiaro anche a chi detesta il Cavaliere e lo vede come il fumo negli occhi, è che Silvio Berlusconi rappresenta la modernità, il «nuovo che avanza», mentre i Bocca, i D' Alema, i Lucchini e anche gli Agnelli sono il vecchio, quel «piccolo mondo antico» destinato, con tutta probabilità, a scomparire.

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E' cominciata la battaglia contro le  modernità. Questo è il senso profondo delle manifestazioni di Seattle, al di là della molteplicità e ella contraddittorietà dei gruppi scesi in campo che vanno dagli ecologisti vecchie-zie del Wwf a quelli po' più seri di Greenpeace, agli autotrasportatori americani che difendono i propri privilegi, ai gruppi più radicali che sono perfettamente consapevoli di qual è la vera materia del contendere. Che non è la globalizzazione ma l'industrializzazione, che ne è la necessaria premessa. È infatti l'industrializzazione che, producendo per il superfluo e non più per l' essenziale, ha posto fin dai suoi inizi le basi della globalizzazione dato che ha il bisogno inderogabile, vitale, di conquistare sempre nuovi mercati se non vuole collassare su se stessa. Era ora. È da quando la Rivoluzione industriale si è messa in marcia che liberali, marxisti e progressisti di tutte le risme ci cantano la melassa delle «sorti meravigliose e progressive» e ci spiegano che quello basato sull' industria e sulla tecnica, nonostante tutte le sue contraddizioni e brutture, è «il migliore dei mondi possibili». Non è vero niente. Il marcio sta proprio nell'industrializzazione e nei continui rilanci sul futuro che essa richiede, sia che venga cavalcata dal liberalismo che dal marxismo. Le varie popolazioni di quello che noi oggi chiamiamo il Terzo Mondo sono più povere rispetto a tre secoli fa. Due terzi della popolazione mondiale sono poveri come non lo sono mai stati e una parte cospicua di questi due terzi è alla fame. Il perché è presto detto. I Paesi del Terzo Mondo, entrando, con le buone o con le cattive, nella globalizzazione, hanno dovuto abbandonare l'economia di sussistenza alimentare su cui avevano vissuto per secoli e millenni. Adesso esportano, cosa che prima non facevano, ma le esportazioni non sono sufficienti a compensare il deficit alimentare che si è così venuto a creare. L' esempio più lineare e drammatico è quello dell' Africa nera. L' Africa era alimentarmente autosufficiente ai primi del secolo e lo era ancora, nella sostanza, nel 1960 (98 per cento). Ma nel 1971 l'indice era sceso all'89 per cento e nel 1978 al 78. Per sapere quel che è successo negli ultimi vent' anni non servono le statistiche, bastano le traumatiche immagini che ci vengono ogni giorno dal Continente nero. E questo nonostante tutti gli «aiuti», economici e tecnici, di know how, che vengono colà inviati. Perché gli «aiuti», anche quando sono dati in buona fede (si pensi ai missionari), non fanno altro che stringere ulteriormente il cappio dell'integrazione. L' Africa stava molto meglio quando si aiutava da sola, cioè quando non era ancora contaminata dal modello industriale. E questo vale per quasi tutti i Paesi del Terzo Mondo. Tanto che qualche anno fa durante un summit del G7, i Paesi più ricchi del mondo, si svolse in contemporanea un controsummit dei sette Paesi più poveri i quali imploravano: «Per favore, non aiutateci più!». Se l'impoverimento delle popolazioni del Terzo Mondo è dovuto, con tutta evidenza, alla rapina sistematica consumata ai loro danni dai Paesi del primo, vorrà dire che almeno questi stanno bene. Non è così. Paradossalmente la povertà aumenta anche nei Paesi ricchi. Cioè la forbice fra ricchi e poveri non fa che allargarsi nei Paesi industrializzati: i ricchi diventano sempre più ricchi e numerosi, ma anche i poveri diventano sempre più poveri e numerosi. Negli Stati Uniti, dove nella sola New York ci sono 400 mila miliardari, i poveri sono 35 milioni, che non sono tali per gli standard americani, sono poveri e basta. E ciò vale per tutti i Paesi industrializzati. Questi sono dati quantitativi, i soli che gli economisti liberali accettano, e quindi indiscutibili perché basati sulle cifre e le statistiche. Poi ci sono gli effetti non economici della industrializzazione e della globalizzazione che sono ancora più importanti: l' omologazione, la perdita di identità, di punti di riferimento, di centinaia di culture, l'anomia, lo stress, l'angoscia, l'aumento esponenziale dei suicidi, delle malattie mentali, dell'uso di psicofarmaci, la droga. Sono perlomeno quindici anni che scrivo queste cose (La Ragione aveva Torto?  1985), irriso, snobbato dalla sinistra e dalla destra. Ora vedo che la compagnia si è fatta più folta. La gente che, povera o ricca che sia, vive male, depressa o nevrotica, alla fame o affogata nella grascia del cosiddetto benessere, comincia a non credere più ai pifferi dell'industrialismo e dello sviluppo che la ingannano da due secoli e mezzo e si pone l'indecente domanda: «Si stava meglio quando si stava peggio?». È la domanda, fondante, con cui inizia il Terzo Millennio.

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Credo di essere stato il solo giornalista italiano che su organi di stampa indipendenti e, per soprammercato, di destra, ha giudicato -fin dall'inizio- sbagliata la guerra della Nato e ancor più sbagliato il modo con cui viene condotta. Per questo mi sono beccato, come per un riflesso automatico, del «comunista». Vedo ora che su questa posizione si stanno portando non solo pezzi da novanta del giornalismo italiano, come La Repubblica e il Corriere della Sera, ma anche la stampa europea, compresa, con il Guardian e il Telegraph, quella inglese. Del resto non c' è bisogno di essere comunisti e pacifisti (e io non sono nè l'uno nè l'altro avendo scritto un libro che si intitola Elogio della guerra) per vedere che l'intervento della Nato ha mancato tutti i suoi obiettivi, almeno quelli dichiarati. La Nato è intervenuta in Jugoslavia per sbandierati motivi «umanitari» e ha provocato una carneficina umanitaria. Doveva difendere i kosovari albanesi e ne ha ammazzati più l' Alleanza in due mesi che l'esercito serbo in un anno e mezzo di repressione che tutti hanno definito «feroce». Non è un tanto per dire. Le milizie serbe erano accusate dagli osservatori dell'Osce di due massacri di civili (sempre che di civili si trattasse e non di guerriglieri dell'Uck), uno a Rcka, che aveva fatto 45 vittime, e un altro che ne aveva causato una trentina. Con le sole stragi di Korisa e di Diacovica i bombardamenti Nato hanno ucciso 165 kosovari albanesi sicuramente civili (e fra di loro ci sono molti bambini) cui vanno aggiunti i kosovari vittime di «incidenti collaterali» di minor portata. Questo non è comunismo, è matematica. Prima dell'intervento Nato c'era in Kosovo una guerriglia crudele fra partigiani albanesi ed esercito serbo, ma le due comunità riuscivano ancora a convivere. Oggi il Kosovo è un deserto e mai più albanesi e serbi potranno vivere fianco a fianco, se rientreranno gli albanesi saranno i 200 mila serbi a doversene andare. Che la prima consegna dell'intervento della Nato sarebbe stata un esodo biblico degli albanesi kosovari non era necessario esser degli strateghi del Pentagono per prevederlo, visto che l' ho fatto io dieci giorni prima che iniziassero i bombardamenti. . Prima dell'intervento Nato buona parte dei kosovari si accontentava di riacquistare l'autonomia che il land aveva sotto Tito, ora anche il mite Rugova chiede l'indipendenza. Quella che alla fine si concluderà sotto il pugno della Nato sarà quindi una pace umiliante per entrambi i contendenti: gli albanesi non avranno l'indipendenza che ora pretendono e per la quale hanno versato tanto sangue, la Serbia non avrà il controllo del Kosovo «autonomo» che sarà diventato un protettorato americano come già la Bosnia. La Nato è poi riuscita in una serie di miracoli degni di Padre Pio: ha ricompattato il nazionalismo serbo intorno a Milosevic, il nazionalismo russo, il nazionalismo panslavo in Europa, l'antiamericanismo in tutto il mondo, ha riavvicinato la Russia alla Jugoslavia, la Cina alla Russia e ha risvegliato Pechino dal suo sonno. Ma ciò che più è inaccettabile è il modo con cui viene condotta questa guerra. Non è una guerra: è un tiro al bersaglio dove c' è uno solo che spara e l' altro che fa da sagoma. Del resto gli americani hanno ammonito seri: non portate la guerra fuori dai vostri confini. Questo è un modo di intendere la guerra come potrebbe intenderla Berlusconi: si fa, ma solo a casa vostra. È la cosa più vigliacca e schifosa che mi è capitato di vedere da quando ho l'età della ragione. La Nato tira sui serbi con la stessa cinica impunità con cui costoro erano da noi accusati di tirare sui civili albanesi. Siamo riusciti nell'impresa di trasformare i carnefici in vittime. Ma nonostante tutti questi disastri e boomerang e la perplessità crescente di molti Paesi europei {Italia, Germania, Francia) i raid continueranno a oltranza. Pare infatti che gli americani abbiano bisogno di bombardare ancora per un paio di mesi. Per molti motivi, uno dei quali trova la sua spiegazione nel mio ultimo libro, Il denaro, «Sterco del demonio». C'è in giro denaro per 70 mila miliardi di dollari, una parte consistente dei quali non può trovare impiego che nell'acquisto di altro denaro, creando una pericolosa ricchezza virtuale. Svuotare gli arsenali per poterli poi ricostituire è un modo per dare una destinazione concreta a una parte di questi dollari, E infatti dall'inizio della guerra Wall Street non fa che salire. Come al solito, come sempre, i diritti «umanitari» contano meno, molto meno, delle palanche.

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Quattro settimane di bombardamenti a tappeto, oltre , ad aver aggravato irrimediabilmente la situazione degli albanesi kosovari, non sono riuscite a piegare d'un pollice la resistenza dei serbi. Questa resistenza non ha radici solo nella tradizionale fierezza di questo popolo (che è l'altra faccia della sua ferocia in combattimento) ma anche nelle sue ragioni che sono state troppo spesso trascurate. Per capire è necessario fare, sia pur a volo d'uccello, la storia recente della Jugoslavia. Nell'estate del '91, a dieci anni dalla morte di Tito e a due dal crollo del muro di Berlino, Slovenia e Croazia proclamarono, l'una dopo l'altra, a breve intervallo, l'indipendenza dalla Jugoslavia. L'uscita della Slovenia protetta dal cuscinetto territoriale croato, e da sempre sostanzialmente estranea al mondo slavo e molto più vicina a quello tedesco, fu indolore. In Croazia ci furono alcuni scontri fra le milizie territoriali e l'esercito federale jugoslavo, ma in breve tempo la scissione fu un fatto compiuto. L'indipendenza dei due nuovi Stati fu immediatamente riconosciuta da Germania e Vaticano, nemici storici della Serbia, e poco dopo dalla comunità internazionale. Anche se rompeva, per la prima volta dal '45, l'intangibilità dei confini di uno Stato europeo, l'indipendenza di Slovenia e Croazia era sacrosanta in base al principio dell'autodeterminazione dei popoli solennemente sancito a Helsinki nel 1975. La comunità internazionale, Vaticano compreso, non poteva però non sapere che l'indipendenza di Slovenia e Croazia apriva immediatamente il problema Bosnia. Una Bosnia multietnica, a maggioranza serba ma a guida musulmana, aveva senso solo all'interno di una Jugoslavia unita e multietnica. In un certo senso la Bosnia era una Jugoslavia in miniatura. Disgregandosi questa, si sarebbe disgregata anche l'altra. E infatti i serbi di Bosnia chiesero di poter proclamare a loro volta l'indipendenza o di unirsi alla madrepatria. Ma quello che la comunità internazionale aveva concesso tanto facilmente e rapidamente a Slovenia e Croazia non lo concessero ai serbi di Bosnia. Dopo aver accettato la violabilità dei confini di uno Stato che esisteva da settant'anni, la Jugoslavia, la comunità internazionale proclamò invece l'intangibilità di quelli di uno Stato fittizio, che non era mai esistito, la Bosnia. Non solo: la comunità internazionale, salvo qualche eccezione, non riconobbe nemmeno la Repubblica federale jugoslava (Serbia e Montenegro), cioè quello che rimaneva della Jugoslavia, cosicché il seggio di quest'ultima all'Onu rimase vacante. Così i serbi di Bosnia iniziarono la guerra appoggiati da Belgrado. Quella guerra la Serbia la stava vincendo sul campo, spargendo molto sangue proprio e altrui, ma la Nato decise che bisognava fermare i massacri, intervennero militarmente e, con gli accordi di Dayton, creò uno Stato fantasma, tenuto insieme con lo sputo, la Bosnia, e una fragile pace pronta a deflagrare in qualsiasi momento in un conflitto ancor più devastante del precedente. In Bosnia i serbi hanno fatto la cosiddetta «pulizia etnica» e compiuto massacri sui civili. Ma non sono stati i soli, i croati si sono comportati nello stesso modo, i musulmani bosniaci un po' meno ma solo perché erano i più deboli sul campo non avendo un retroterra. Però davanti al tribunale internazionale dell'Aja sono chiamati solo serbi, nessuno ha mai pensato di processare o ha mai definito «criminale» il presidente croato Tudjman, ex comunista e attuale fascista, autore della più grande «pulizia etnica» della guerra di Bosnia, quando, da un giorno all'altro, cacciò dalla Krajna settecentomila serbi. E per questi profughi non ci sono stati pianti ne comprensione ne aiuti. L'indebolimento contro natura della Serbia ha provocato e aizzato la guerriglia indipendentista kosovara. In Kosovo si fronteggiano due diritti altrettanto validi: il diritto degli albanesi, diventati nel tempo la stragrande maggioranza, all'indipendenza e il diritto della Serbia a difendere i propri confini secolari perché il Kosovo è considerato la culla di quella Nazione. Sotto Tito il Kosovo godeva di un'ampia autonomia che nel 1989 Milosevic limitò drasticamente con una decisione stolida e gravida di conseguenze ma non priva di qualche ragione: l'autonomia , del Kosovo era infatti superiore allo stesso potere della Serbia perché si inquadrava nel più ampio equilibrio dello Stato federale jugoslavo. Senza contare che Tito, da dittatore autentico, aveva un potere tale che di quelle autonomie faceva poi quel che voleva. In Kosovo l'esercito e la polizia serbe hanno compiuto, prima dell'intervento della Nato, alcuni eccidi di civili. Ma anche la guerriglia dell'Uck, che come tutte le lotte partigiane è costretta a far uso del terrorismo, non è andata per il sottile. Però i «verificatori» dell'Osce, guidati dall'americano Walker, hanno dato conto solo delle atrocità dei primi, ignorando quelle degli altri. A ogni buon conto la Serbia aveva accettato da tempo di negoziare sull'autonomia del Kosovo, si era opposta solo al fatto che a esserne garante fossero forze militari straniere, in particolare della Nato, che, secondo Rambouillet, avrebbero avuto competenza e diritto non solo sul Kosovo ma sull'intero territorio jugoslavo. Dopo che la Nato ha imposto, di fatto, il proprio protettorato sulla Bosnia mascherandolo dietro una parodia di democrazia (un paio di mesi fa il presidente della Repubblica serba di Bosnia, regolarmente eletto, è stato esautorato d'autorità perché ritenuto troppo poco «democratico», cioè antioccidentale), lo avrebbe esteso alla Jugoslavia. Quale Stato europeo avrebbe accettato una simile situazione, che ne cancella la sovranità non solo su una porzione di territorio conteso ma su se stesso? Nessuno. Ecco perché la Serbia non cede e per averne ragione, a queste condizioni, bisognerà distruggerla.

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Il Consiglio comunale di Aulla, guidato dal sindaco Lucio Barani, ha deliberato di conferire la citadinanza onoraria a Bettino Craxi «statista italiano esule e vittima di poteri politici persecutori che hanno organizzato un colpo di Stato detto Tangentopoli». La cittadinanza onoraria verrà' data anche ad Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti, «identiche vittime dei citati poteri persecutori». Inoltre il sindaco di Aulla, che non è un luogo immaginario della fantapolitica ma il paese che si trova, per chi viene da Milano, alla fine dell'autostrada della Cisa, ha deciso di intitolare a Craxi l' attuale piazza Gramsci. Si può anche accettare questa impostazione, che del resto in Italia va ormai per la maggiore, ma allora Lucio Barani non è il sindaco socialista ma il federale fascista di Aulla. Se infatti Bettino Craxi non è un  latitante che si è sottratto alla Giustizia Italiana e alle sue leggi, quelle stesse che egli, come parlamentare, contribuì a formare e, come presidente del Consiglio, impose di rispettare, ma un esule e un martire, come sotto il Fascismo lo furono i liberali Rosselli e Gobetti, il socialista Pertini, il comunista Gramsci, allora l'Italia non è più una Repubblica democratica ma uno Stato totalitario e fascista e chiunque vi ricopra cariche pubbliche è un fascista e un collaborazionista. E se quello italiano è uno Stato fascista, frutto di un colpo di Stato, allora disubbidire alle sue leggi e sottrarsi ai suoi Tribunali non può essere un privilegio del solo Bettino Craxi ma è un diritto di tutti i cittadini. Se Craxi è un esule, come lo fu Gobetti, e un martire, come lo fu Gramsci, tenuto per vent' anni in galera dal regime mussoliniano per reati di opinione, e quindi questo è uno Stato di polizia, totalitario e fascista, io che, a differenza di altri, conservo memoria del principio di non contraddizione di Aristotele, cioè della logica formale, ne traggo le conseguenze. Da questo momento non rispetterò più le leggi e i Tribunali dello Stato italiano e considererò ogni sentenza che mi penalizzi come un «complotto», l'atto di un regime di polizia contro ciò che resta della libertà di stampa. A meno che non si voglia sostenere che questo è un regime fascista quando condanna Craxi ma diventa improvvisamente democratico quando condanna me o qualsiasi altro cittadino. Se questo è uno stato totalitario e fascista esiste un diritto a «uccidere il tiranno», e quindi Massimo D' Alema e Carlo Azeglio Ciampi, ma anche Silvio Berlusconi e il sindaco di Aulla i quali, se questo Stato è realmente fascista, non possono essere che dei finti oppositori e dei veri collaborazionisti. Del resto non si è mai visto che in uno Stato fascista un oppositore possegga la metà del sistema televisivo, la più grande casa editrice, il più diffuso settimanale, il quarto o il quinto quotidiano. Se Craxi è un esule, e quindi questo è uno Stato fascista, ogni violenza contro le Istituzioni diventa legittima e se le Brigate rosse erano un'espressione di banditismo politico quando, con Craxi, Forlani e Andreotti, quello italiano era uno Stato democratico, oggi sono invece forze impegnate a liberarci da un regime e dai suoi sgherri come lo furono i partigiani durante la Repubblica Sociale. Se invece, com'io credo, questo non è uno Stato fascista, ma qualcosa di molto peggio, è la Fattoria degli Animali di George Orwell, «dove tutti gli animali sono uguali ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri», dove ci sono alcuni, anzi molti, che, si chiamino Craxi o Berlusconi, Baraldini o Sofri, hanno diritto a trattamenti privilegiati e a disattendere le leggi che invece gli altri cittadini debbono rispettare, allora si spalancano le porte al Far West perché, prima o poi, tutti pretenderanno che valga anche per loro ciò che oggi vale solo per alcuni. Un segnale in questo senso ci viene da Milano, dove gli abitanti del popolare quartiere di Baggio, esasperati dalla microcriminalità portata da spacciatori, drogati e immigrati, si sono organizzati in «squadre punitive» per ripulire, con la forza e la violenza, la zona. In uno Stato democratico e ordinato ciò è inammissibile. In uno Stato che non è fascista ma assente, in cui i prepotenti, i ricchi, i lobbisti e i loro amici pretendono di ritagliarsi un proprio diritto diverso da quello degli altri, anche il cittadino comune, vilipeso, umiliato, indifeso, acquista il diritto di farsi giustizia da sè.