Mentre qui da noi si muore di paura da Covid, in Afghanistan si muore sul serio, di morte violenta. Il 12 aprile ci sono stati due gravi attentati in zone diverse del Paese: a Jalalabad durante un funerale un kamikaze si è fatto saltare in aria uccidendo 20 persone e ferendone 40, a Kabul un commando armato ha preso d’assalto l’ospedale di Medici senza Frontiere facendo 24 vittime. I Talebani hanno negato qualsiasi responsabilità in questi attentati che infatti poco dopo sono stati rivendicati dall’Isis. Non c’era nemmeno bisogno né della negazione talebana né della rivendicazione Isis, durante tutta la lunga storia della loro resistenza i Talebani hanno sempre avuto di mira solo obbiettivi militari e politici, e infatti due giorni dopo gli attacchi Isis i Talebani hanno preso d’assalto un’importante base militare a Gardez . E questa azione l’hanno rivendicata. I Talebani, come abbiamo già scritto più volte, non hanno alcun interesse a colpire la popolazione civile grazie al cui sostegno hanno potuto portare avanti vittoriosamente la loro guerra d’indipendenza. I guerriglieri dell’Isis non hanno di queste preoccupazioni. La loro è una guerra totale, religiosa, ideologica sia contro l’Occidente che contro gli odiati ‘cugini’ sciiti (Il Mullah Omar, quando era al governo, pur essendo pashtun e sunnita come la maggioranza dei suoi non perseguitò mai la consistente minoranza sciita in Afghanistan. Gli sciiti avevano gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri cittadini dell’Emirato Islamico d’Afghanistan). Lo scopo degli attacchi Isis in Afghanistan è di dimostrare che i Talebani non sono in grado di mantenere l’ordine nel momento delicato in cui, in virtù del patto talebano-statunitense concluso a Doha alla fine di febbraio, gli americani stanno lasciando il Paese. Di queste recenti vicende, vitali non solo per il futuro dell’Afghanistan ma anche per la sconfitta o meno del terrorismo internazionale, non trovo traccia sui giornali italiani.
Se l’Afghanistan è normalmente ignorato, quando però per un qualche caso se ne parla si raccontano un mucchio di frottole. In margine alla vicenda della cooperante Silvia Romano si è tirato in ballo l’Afghanistan, l’Afghanistan talebano, come fucina dei sequestri a fine di estorsione. Ebbene in tutta la storia del movimento talebano non c’è un solo sequestro di questo tipo. Quando fu catturato il giornalista di Repubblica Mastrogiacomo i Talebani chiesero uno scambio di prigionieri: cinque dei loro uomini in cambio del giornalista. E così fu fatto. Per i Talebani tutti gli stranieri presenti in Afghanistan, fossero militari o civili, che avevano la stessa nazionalità di uno dei 48 Paesi occupanti, erano considerati dei nemici e se catturati trattati come “prigionieri di guerra”. Quando nell’aprile del 2007 furono presi prigionieri tre cooperanti francesi della Ong Terre d’enfance, due uomini e una donna, Céline Cordelier, la richiesta talebana per liberarli fu la stessa: scambio di prigionieri. La Cordelier però fu liberata spontaneamente dopo 25 giorni di prigionia senza alcuna trattativa e la donna dirà: “Non dimenticherò mai che mi hanno nutrita e trattata con rispetto”. Questa del rispetto dei prigionieri stranieri è una costante del comportamento dei Talebani, costante che risponde alle regole dettate dal Mullah Omar ai suoi comandanti sul campo in quel famoso libretto azzurro tanto irriso in Occidente. Il libretto conteneva sette regole, di cui riassumo qui, in finiano non in dari in cui fu scritto, quelle che riguardano i sequestri: 3) Militari stranieri prigionieri. Vanno trattati come prigionieri di guerra. 4) Bando ai sequestri di persona e alla richiesta di riscatti. Quando un soldato americano, Bowe Bergdhal, fu catturato, venne trattato secondo le direttive: da “prigioniero di guerra”. Gli americani non restituirono mai queste cortesie, non rispettarono mai, a differenza dei Talebani, le leggi internazionali che tutelano i prigionieri di guerra, ma considerando i guerriglieri talebani dei “terroristi”, li deportarono a centinaia a Guantanamo dove furono torturati e umiliati in ogni maniera.
Poiché siamo in tema di sequestri parliamo di quello di Silvia Romano. Dico subito che in linea di principio io sono contrario alle Ong, a meno che non si tratti di organizzazioni mediche e consolidate come Emergency e Medici senza Frontiere perché hanno l’arrogante pretesa di “aiutare” i Paesi in cui operano, l’Africa nel caso della Romano. L’Africa, come ci dimostra tutta la sua storia, stava molto meglio quando si aiutava da sola. Precisato questo la gravità della vicenda Romano non sta nell’entità del riscatto ma nel riscatto stesso, perché mette a rischio tutti gli altri italiani presenti nelle zone pericolose, non solo africane. Infatti se si sa che l’Italia paga, i suoi cittadini diventeranno degli obbiettivi privilegiati non solo di gruppi strutturati come al-Shabaab ma anche di bande di semplici predoni. Come “danno collaterale” forniamo ai terroristi, perché gli al-Shabaab oltre a condurre una guerra di indipendenza, come i Talebani, sono anche legati, a differenza dei Talebani che lo combattono, al Califfato che fu di Al Baghdadi. Insomma l’Italia diventa un bancomat buono per tutti gli usi. In un’intervista al Corriere rilasciata a Luigi Ferrarella, il pm milanese Alberto Nobili, uno specialista in tema di sequestri di persona, ha ricordato: “La regola del blocco dei beni (dei familiari, ndr) e cioè il messaggio dello Stato che il sequestro non avrebbe più fruttato una lira, ebbe efficacia”.
Il sequestro della Romano come quello di ogni altro cooperante o cittadino italiano che operi in zone pericolose ricorda, sia pur in termini molto diversi perché molto diversi sono i contesti, il dilemma che si pose all’epoca del sequestro Moro. La Democrazia Cristiana, che noi avevamo sempre accusato di non avere il senso dello Stato, in questo caso lo ebbe, aiutata dal Pci che il senso dello Stato ce l’ha incorporato perché i comunisti, quando sono al potere, si identificano con esso, si rifiutò di trattare con i terroristi. E fece bene. Perché se avesse accettato il giorno dopo quelli delle Brigate Rosse avrebbero sequestrato un cittadino qualsiasi e a questo punto si sarebbe dovuto trattare ancora, in una spirale vertiginosa che avrebbe portato alla dissoluzione dello Stato, oppure non si sarebbe trattato e sarebbe diventato palese che l’Italia è un Paese dove, come nella Fattoria degli animali di Orwell, “tutti gli animali sono uguali ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri”. Disse all’epoca il vice segretario del Partito liberale Alfredo Biondi: “Non c’è da dividersi e dividere in falchi e colombe: non c’è da mistificare come caldo umanitarismo lo spirito di rinuncia e di sottomissione e come gelida statolatria l’elementare esigenza di non transigere su diritti e doveri indisponibili come quello di rendere giustizia e di assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2020
Non ho niente da fare. Scartabello il mio archivio cartaceo, che ovviamente è datato al tempo in cui i giornali esistevano ancora, e trovo la cartellina “Ambiente”. Sono articoli fra la fine degli anni 80 e gli inizi dei 90. L’allarme ambientale, con tutte le sue implicazioni che non sono solo e semplicemente ecologiche ma anche sociali ed esistenziali, era stato lanciato una ventina d’anni prima dal Club di Roma diretto da Aurelio Peccei che aveva incaricato un gruppo di scienziati del mitico MIT (Massachusetts Institute of Tecnology) di elaborare uno studio che era stato poi raccolto in un libro col titolo: I limiti dello Sviluppo. C’erano stati dei precursori come Rachel Carson che aveva pubblicato Silent spring (1962) ma avevano avuto una scarsissima eco perché negli anni Sessanta la sensibilità ambientale era modesta. A cavallo fra gli Ottanta e i Novanta la questione era diventata invece calda. C’era però chi aveva già capito tutto. Leggo: “La prima certezza è che il mercato, l’industria, e tutto ciò che compone una economia moderna, sono in sostanza invenzioni del Demonio…prevarranno frugalità e letizia e tutti saranno in armonia con se stessi, con gli altri e con la natura. Ciò che è più stupefacente nell’Italia di oggi è che una simile ideologia, reazionaria nel senso stretto e tecnico del termine, espressione cioè di una rivolta conservatrice contro la modernità, continui imperterrita a sopravvivere impregnando di sé il sentire comune di ampie fasce del Paese, ivi compresa buona parte degli intellettuali”. Chi può essere se non Angelo Panebianco in un commento sul Corriere del 1989 (Ambiente e populismo, 30.5)? Trombone era già a quarant’anni e trombone è restato. Oggi tesi del genere possono essere solo di un Panebianco o di un Trump, con la differenza che il secondo è perlomeno folcloristico mentre il primo è plumbeo.
Dopo la pubblicazione de I limiti dello Sviluppo conferenze internazionali sull’ambiente, con partecipazione spesso di capi di Stato, si sono fatte un po’ ovunque ma senza cavarne un ragno dal buco perché nessuno vuole rinunciare al mito della crescita, inoltre sono entrati in scena Paesi enormi come la Cina che stanno crescendo esponenzialmente. Ma quello che negli anni Ottanta poteva sembrare un dibattito fra intellettuali, oggi è diventata una questione di vita o di morte. Secondo una ricerca della rivista scientifica Geophysical Research Letters dal 1979 il volume del ghiaccio del Polo Nord si è ridotto del 70 per cento. Ma è solo uno dei tanti segnali sinistri dell’aumento sempre più galoppante dell’anidride carbonica (Co2) nell’atmosfera, dovuto, in massima parte, alla produzione industriale.
Purtroppo gli scienziati del MIT in una cosa si sbagliavano: pensavano che alcune fonti energetiche, come il petrolio, o altre necessarie all’attuale modello di sviluppo (stagno, tungsteno, zinco) si sarebbero esaurite entro il Duemila o poco oltre. Se ciò fosse avvenuto saremmo stati costretti dalla necessità ad autoridurci. Ma così non è stato.
Non mi sono mai occupato nei miei libri e nei miei scritti d’occasione di questioni strettamente ecologiche, perché ritengo che il problema ambientale, pur importante, sia solo un aspetto di secondo grado (in fondo l’uomo ha dimostrato di essere un animale molto adattabile) rispetto alle devastazioni che Tecnologia insieme alla sua sorella gemella Economia fanno sul nostro esistere, allontanandoci dal senso della comunità, dagli altri e alla fine anche da noi stessi. Ma questo alla fine era anche il pensiero di quelli del MIT, che non erano degli umanisti ammalati d’utopia ma degli scienziati con le carte in regola, che concludono così I limiti dello Sviluppo: “Un’ultima osservazione: è necessario che l’uomo analizzi dentro di sé gli scopi della propria attività e i valori che la ispirano, oltre che pensare al mondo che si accinge a modificare, incessantemente, giacché il problema non è solo stabilire se la specie umana potrà sopravvivere, ma anche, e soprattutto, se potrà farlo senza ridursi a un’esistenza indegna di essere vissuta”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2020
Ci stanno fottendo l’estate. Ci stanno fottendo il mare. Ci stanno fottendo le vacanze. Per me estate e mare hanno sempre coniugato il nome più proibito: felicità. “Col sole e col mare anche un ragazzo povero può crescere felice” scrive Camus e tutte le canzoni che parlano di estate si ispirano al mare (Una rotonda sul mare, Fred Bongusto; Sapore di sale, Gino Paoli; Luglio, Riccardo del Turco; Un’estate al mare, Giuni Russo; Voglio andare al mare, Vasco Rossi) mai alla montagna tantomeno al lago (roba da crucchi). E’ vero che i vecchi, categoria a cui arbitrariamente appartengo, d’estate preferiscono al mare la montagna o, ancor meglio, la collina, perché sono più riposanti. Ma è un riposo che somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. Ma io non sono ancora così conciato da non potermi cacciare a bagno.
Ma quest’anno raggiungere il mare per i lombardi sarà praticamente impossibile. Troppe combinazioni debbono incastrarsi. Poniamo che uno scelga il litorale più vicino e abbordabile, il ligure, luogo prescelto per decenni, nel dopoguerra, dalla piccola e media borghesia milanese e torinese (nel Novecento il Mar Ligure, in particolare a Levante, era meta del turismo d’élite, di aristocratici inglesi e soprattutto russi che erano molto diversi dai russi griffati e volgari che oggi occupano la Versilia insieme ai ricchi scemi italiani che non si sono ancora accorti che al Forte non solo non si vede il mare ma nemmeno lo si sente, tanto vi hanno costruito).
La prima condizione è che il commendator Fontana, Regione Lombardia, apra i confini territoriali (ma quanto è buona Lei signora Belva). Ma non basta. Bisogna che la Regione Liguria faccia altrettanto e non discrimini i lombardi, untori provenienti da pericolosissimi focolai. Forse ai loro confini i poliziotti liguri, sospettandoci in possesso di documenti falsi, ci faranno un test linguistico (però io il dialetto ligure, soprattutto di Ponente, lo conosco: Savona si pronuncia Saña, speggietti vuol dire occhiali, belin è il cazzo, “ti m’hae za menòu o belìn”, che le donne, per pudicizia, convertono in belan). Ma non basta ancora. Lombardia e Liguria non confinano, vi si interpongono Piemonte ed Emilia. Bisognerà che anche queste due Regioni aprano i propri confini. Ma un milanese potrebbe trovarsi in una bizzarra situazione: mentre vola felice verso la Riviera e gli agognati bagni, Liguria e Lombardia, per un’impennata del Corona, richiudono contemporaneamente i propri territori e lui si trova intrappolato a Novi Ligure, che a dispetto del nome è Piemonte, a visitare il Museo di Coppi.
E ben gli starebbe. Perché il milanese è pirla da sempre. A chi mai poteva saltare in mente di fondare una città su una pianura desolata, caldissima e afosa d’estate, fredda e nebbiosa d’inverno e soprattutto umidissima? E senza un fiume. Milano è l’unica grande città italiana ed europea a non avere un fiume, Torino ha il Po, Firenze l’Arno, Roma il Tevere, Londra il Tamigi, Parigi la Senna, il Danubio bagna Vienna e Belgrado. Ho chiesto a storici e geografi perché Milano sia venuta su in una posizione così poco allettante. L’unica risposta che ne ho ricavato parte dal nome che aveva nell’antichità, Mediolanum, la via di mezzo, la più diretta per raggiungere la Gallia. Ma a trenta chilometri, sulla stessa direttrice, c’è Pavia che sta sul Ticino, uno dei fiumi più belli d’Italia, se non forse il più bello. E infatti i Longobardi, che erano meno pirla dei milanesi, vi trasferirono la capitale.
E quindi noi milanesi, almeno quelli che la identificano col mare, dopo dieci, lunghissimi mesi di spasmodica attesa (“Come un giorno di sole fa dire a dicembre l’estate è già qui”, Patti Pravo) quest’anno non avremo l’estate. Rimarremo a Milano, a morire non di Covid-19 ma dal caldo e di solitudine (“Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua…neanche un prete per chiacchierar”, Azzurro, Adriano Celentano).
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2020