Non c’è niente da fare, in Italia un giornalista può anche essere ottimo e averlo provato più volte, ma se conserva il gusto eretico all’indipendenza viene “decapitato” come mi ha detto al telefono Carlo Verdelli, l’ultima vittima di questa sinergia perversa, licenziato in tronco dalla direzione di Repubblica il 23 aprile scorso.
Non è la prima volta che Verdelli cade in simili disavventure. Nel 2003, vicedirettore del Corriere della Sera, era in predicato per diventarne direttore dopo che Ferruccio de Bortoli aveva lasciato. Era favoritissimo. Invece in via Solferino fu paracadutato Stefano Folli, PRI, una figura scialba, senza alcun passato giornalistico rilevante. E infatti Folli dirigerà solo per un anno. Si dovette ricorrere all’eterno ‘cavallo di ritorno’: Paolo Mieli.
Nel 2015 Verdelli fu nominato direttore editoriale della Rai. Ma resistette poco. Se infatti è difficile rimanere indipendente nei grandi giornali, in Rai è impossibile perché oltre al potere dei partiti c’è quello, come mi disse Lele Luttazzi, di infinite lobby e sottolobby.
Nel gennaio del 2006 Verdelli viene chiamato a dirigere la Gazzetta dello Sport, un giornale insieme facile e difficile. Facile perché l’unica cosa che unisce gli italiani è il calcio, difficile perché che cosa si può cambiare in un giornale del genere? Verdelli si inventò una sorta di rubrica, Altri Mondi, affidata a quel genio misconosciuto di Giorgio Dell’Arti, quattro pagine dedicate a notizie nazionali e internazionali che con lo sport non avevano nulla a che vedere. La Gazzetta dello Sport arrivò a vendere 2 milioni di copie, record assoluto per un quotidiano. Poiché stiam parlando di calcio mi permetto un intermezzo che sembra non c’entrare e invece c’entra. L’altra sera volevo vedere Chocolat con la Binoche, ma ho inserito una cassetta sbagliata (appartengo alla generazione delle cassette) ed è saltato fuori un Torino-Napoli dei primi anni Novanta. Mi ha colpito la sobrietà e l’asciuttezza dei commentatori, niente urla smodate ai gol, niente enfasi, niente volgarissimi “sotto la doccia! Sotto la doccia! Sotto la doccia!”. Sono passati solo trent’anni da allora e poiché il calcio è uno specchio della società quella smodatezza, quell’enfasi, quelle volgarità sono oggi del mondo politico.
Ho incrociato Verdelli grazie allo scrittore e psichiatra Mario Tobino. Verdelli, che dirigeva Sette, e che io non conoscevo, aveva letto una mia intervista a Tobino, gli era piaciuta e mi aveva proposto di tenere su Sette una rubrica, La sculacciata. Si trattava di togliere i panni di dosso a qualche personaggio famoso in quindici righe, una sorta di micro stroncatura. Faccenda tutt’altro che semplice, dovevo fare sei o sette prove per ridurre in quello spazio ristretto ciò che intendevo dire senza togliere nulla alla sua mordacità. Non è una cosa che possono fare tutti. Montanelli che curava quotidianamente un ‘billet’ sul Giornale, ma naturalmente non lo poteva fare sempre lui, mi raccontò che alcuni suoi giornalisti, anche bravissimi come Enzo Bettiza, non riuscivano proprio a star dentro quelle poche righe.
Carlo Verdelli è un uomo dai modi semplici, modesti, uno che “non se la dà”, cosa che nella mia vita ho quasi sempre riscontrato nelle persone di valore. Io mi sento vicino a Verdelli non per il carattere ma per certe somiglianze nelle modalità delle nostre reciproche disavventure professionali. In un mattino di maggio, canicolare e patibolare, del 1997, fui convocato insieme ad altri colleghi all’Ufficio del Lavoro di via Lepetit a Milano. Un funzionario del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera ci lesse con voce atona un breve testo che certificava il nostro licenziamento e che dovemmo firmare. Così furono liquidati i miei vent’anni di lavoro alla Rizzoli, in cui avevo dato le mie migliori energie e lasciato anche qualche pezzo di salute. Covai l’umiliazione per un paio di mesi. In estate telefonai a Feltri, che dirigeva Il Giornale, e gli dissi: “Vuoi sapere cos’è veramente il gruppo Rizzoli-Corriere?”. Vittorio non se lo fece ripetere due volte. Pubblicò il pezzo, dandogli ampio rilievo in prima e due pagine all’interno. Ogni riga di quell’articolo, se non veritiera, era da querela. Ma nessuno dei dirigenti del commendevole Gruppo Rizzoli-Corriere osò alzare un’orecchia. Sarebbe bastato un po’ più di stile, un po’ più di garbo, un po’ più di gentilezza, un po’ più di umana comprensione e si sarebbero evitati quella figuraccia.
Anche Carlo Verdelli la mattina del 23 aprile è stato convocato da quelli di Repubblica e senza preamboli è stato informato che da quel momento non ne era più il Direttore. La stessa umiliazione, lo stesso avvilimento, lo stesso senso di una sconfitta immeritata, la stessa stanchezza ho sentito l’altro giorno, al telefono, nella voce affievolita di Carlo Verdelli. Questa è la sorte, direbbe Montanelli, dei “conformisti che non si conformano”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2020
“Muore mille volte chi ha paura della morte” (Epicuro). E’ quanto è successo a tutti noi, o quasi, da quando è iniziata questa epidemia che io chiamerei piuttosto ondata di panico. Tremiamo a ogni starnuto, a ogni colpo di tosse, insomma a tutti quelli che ci hanno segnalato essere i primi sintomi del Covid-19 e anche a quelli che sintomi di questo morbo non sono. Mi ha telefonato un’amica spaventata perché aveva la nausea e mi ha chiesto se sapevo se era un sintomo del Covid. Le ho consigliato di leggere meno i giornali che con la loro ventina di pagine dedicate ogni giorno all’epidemia, come se nel mondo non ci fossero situazioni un tantino più gravi, dalla Siria alla Libia all’Afghanistan all’Egitto alla guerra in Sudan, a quella in Yemen, hanno ampiamente contribuito a diffondere il panico. Un panico del tutto irragionevole poiché ad oggi 28 aprile sono morte per Covid 27 mila persone, vale a dire lo 0,045 % della popolazione italiana, cioè ciascuno di noi ha 0,045 probabilità di morire per il Covid. Certo gli anziani hanno una più alta percentuale di rischio, se prendiamo le decadi 70-79 e 80-89 anni questi anziani hanno rispettivamente il 29,9 % e il 40,6 % di probabilità in più di essere compresi in quello 0,045 che rappresenta la media generale. E in quasi tutti i casi è gente pregiudicata, come si dice, da “patologie pregresse”. Da 0 a 29 anni le probabilità di morte, cioè di essere ricompresi nella più generale media dello 0,045, è dello 0,01 %, da 30 a 39 anni dello 0,2 %, da 40 a 49 dello 0,9 %. Eppure anche questi giovanissimi o giovani non sono meno timorosi degli altri, anzi se si guarda in giro, lo sono forse più dei vecchi. Solo alla fine e anche un po’ dopo della fine potremo fare i conti di quanto questo stress sia stato più letale del Covid: tre suicidi in Lomellina in poco più di due settimane, otto ‘femminicidi’ da quando è iniziato il Covid, senza contare gli infarti e gli ictus che, oltre che in questi mesi, si conteranno soprattutto in quelli successivi alla fine dell’epidemia, quando ci sarà. Per cui l’osservazione psicologica di Epicuro rischia di trasformarsi in un dato reale. Ma quello che qui ci preme sottolineare è che, in termini generali, abbiamo affrontato questo virus con un abbietto terrore della morte, senza alcuna dignità. E’ toccato al presidente del Bundestag, il Parlamento tedesco, Wolfgang Schäuble, ricordare che la dignità, intesa nel senso della dignitas latina, è più importante della vita: “E’ assolutamente sbagliato subordinare tutto alla salvaguardia della vita umana…se c’è un valore assoluto ancorato nella nostra Costituzione è la dignità delle persone, che è intoccabile e questo non esclude che dobbiamo morire”. E’ toccato ancora a Schäuble ricordare che nessuno di noi è immortale: “Tutti lasciamo questo mondo, prima o poi” (“Chi ha troppa paura di morire crede di essere immortale”, Il Ribelle dalla A alla Z). Questo terrore della morte rientra nella concezione tutta moderna, come abbiamo più volte ricordato, per cui la morte biologica è inconcepibile pur essendo inevitabile.
Ciò che, nell’attuale situazione, dovrebbe far paura non è la morte in sé per Covid, ma il modo sordido di questo morire: intubati, monitorizzati, oggetti. Cioè un modo che lede proprio la nostra dignità di esseri umani, quella dignità cui faceva riferimento Wolfgang Schäuble.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2020
Circa un mese fa un arzillo ottuagenario di Milano si era spostato insieme alla sua compagna parecchio più giovane nella sua seconda casa nella Riviera di Ponente, ad Albissola o a Varazze, non ricordo con precisione, luoghi che conosco molto bene perché da giovane, da buon milanese, per le vacanze andavo in Liguria (i ricchi preferivano la Versilia) e che se passa il provvedimento discriminatorio nei confronti degli anziani non vedrò più. I due furono denunciati dai vicini e rispediti a casa. E’ vero che avevano violato la legge, ma questa delazione è comunque un brutto segnale: l’Italia è diventata l’untore d’Europa, i lombardi e i piemontesi, tanto più se anziani, sono gli untori degli untori. Siamo alla colonna infame di manzoniana memoria. Comunque il male è già stato fatto anche se il provvedimento discriminatorio non venisse preso. Responsabilità grave del governo è di non aver respinto subito queste voci che circolavano da tempo, per cui ormai si è creata una tale suggestione nella popolazione per la quale lombardi e piemontesi, anziani o anche non, verranno respinti dai luoghi di vacanza, dai loro alberghi, dai Residence, dagli stabilimenti balneari, con un qualche pretesto (numero chiuso, per esempio).
Ho già cercato di chiarire sul Fatto (“Tutti fuori salvo noi più anziani”, 18.4) perché un provvedimento discriminatorio nei confronti degli anziani, oltre ad essere del tutto insensato perché noi anziani moriamo più facilmente dei giovani per il Corona ma, a parità di condizioni, non siamo più infettivi di qualsiasi altro cittadino, è razzista, anticostituzionale e lede quello che è il principio fondante di una Democrazia liberale, vale a dire l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (art.3 Cost.). Inoltre, e non è poco, tenere reclusi gli anziani per molto tempo equivale a un assassinio mascherato. Se c’è qualcuno che ha bisogno di fare moto è l’anziano. Se dopo il 4 maggio verrà dato un parziale “liberi tutti” tranne che agli anziani, i vecchi rimarranno soli in città, perché gli altri se ne saranno andati, e la solitudine, come ci dicono le ricerche mediche, uccide più del fumo. Il direttore generale della Sanità francese, Jérôme Salomon, ha ricordato che l’episodio del grande caldo del 2003 uccise, solo in Francia, 19.500 persone. Ed estati caldissime, a mia memoria, ci sono state in Italia nel 1982 e nel 1985. Provate a rimanere a Milano, anche in un’estate normale, e poi mi saprete dire. Quello che si sta per consumare sugli anziani, se il provvedimento discriminatorio passerà in un modo o nell’altro, è un autentico genocidio o, per usare le parole più flautate di Papa Francesco, “un’eutanasia nascosta”.
Saremmo in una tirannia fuor di controllo. E’ bene a questo punto ricordare che esiste un dibattito iniziato da Seneca (De beneficiis) proseguito da Plutarco (Vita di Publio Valerio Publicola) e continuato per tutto il Medioevo centrato sulla domanda: è lecito uccidere il Tiranno? La risposta è stata che è lecito. Luigi XVI fu ghigliottinato sul presupposto di questa liceità, il rumeno Ceaucescu, che pur non era stato implicato a livello di governo nella Seconda guerra mondiale, fu fucilato solo perché ritenuto un tiranno. Sono due esempi dei tantissimi che si potrebbero fare.
Non si allarmi il lettore del Fatto, non abbiamo alcuna intenzione di ricorrere alla violenza, anche se avremmo delle buone ragioni vista la violenza che si vuole usare contro di noi (“a brigante, brigante e mezzo” diceva Sandro Pertini). Si sta creando un forte movimento di opposizione, stimolato proprio, credo, almeno all’inizio, dal mio articolo. Lo dicono le decine di lettere arrivate alla mia mail personale, oltre a quelle ricevute dal Fatto. Anche la Cgil ha preso posizione in questo senso. E ora si sono svegliati pure, un po’ in ritardo a mio avviso, gli illustrissimi Giorgio Agamben, Carlo Ginzburg, Ginevra Bompiani che hanno intenzione di inviare un appello al capo dello Stato, al premier, ad alcuni ministri nel quale si poggia l’accento sul fatto che la limitazione potrebbe colpire “una fascia di persone ancora attive, in buona salute e in grado di dare ulteriori preziosi apporti alla nostra società”. Sia ben chiaro che non è proprio il caso di creare una nuova discriminazione dentro la discriminazione, di salvaguardare gli anziani purché “attivi o in buona salute”, di decidere se “vecchio è bello” o è invece una condizione penosa e in molti casi terribile (vedi il mio articolo sul Fatto del 24.4 “Ora noi anziani vogliamo vivere di più per dispetto”). La discriminazione è intollerabile, incivile, illegittima per tutti, in sé e per sé, qualsiasi siano le condizioni fisiche. Punto.
I pensionati in Italia sono 16 milioni. Se facciamo gruppo possiamo reagire. C’è fra coloro che mi hanno mandato mail di protesta chi propone una class action sulla cui efficacia avrei molti dubbi. C’è invece chi propone un’azione ai limiti della legalità, e anche oltre, sempre non violenta alla maniera dei Radicali di un tempo: se un gruppo cospicuo di questi pensionati si rifiutasse di pagare le tasse questa parodia di Democrazia collasserebbe. Verrebbero colpiti i primi, per i quali si potrebbe organizzare un fondo, ma certamente lo Stato non potrebbe perseguire qualche milione di persone.
Infine le generazioni di anziani che si vorrebbero ora far fuori con l’ipocrita pretesto che lo si fa per il loro bene, sono quelle che, con l’aiuto certo del Piano Marshall, pagato però col prezzo della sudditanza agli americani, hanno contribuito a ricostruire l’Italia: operai, impiegati, artigiani, ma anche medi e piccoli imprenditori, uomini politici e persino intellettuali. Poi, intorno al 1960, rimesso in sesto il Paese e permesso l’inizio del boom economico, l’abbiamo consegnato a una Democrazia che non era più tale ma si era trasformata in partitocrazia (ho ricordato più volte il coraggioso, ma inutile, discorso alle Camere del presidente del Senato, Cesare Merzagora, indipendente, contro questa deformazione) per cui i partiti sono andati via via impadronendosi dello Stato e anche di ampi settori del privato, con i risultati che, Corona o non Corona, oggi sono sotto gli occhi di tutti. E adesso che siamo, per forza di cose, nella maggioranza dei casi indeboliti e stanchi, ci danno il benservito.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2020