All'indomani delle elezioni amministrative della primavera del 2012 in un articolo intitolato «Ecco perché il voto del 2013 potrebbe segnare la fine della democrazia» (Il Gazzettino, 11/5/2012) di fronte a un'astensione che stava montando di tornata in tornata, scrivevo: «Nel 2013...l'astensione potrebbe diventare valanga. I partiti non sembrano rendersi conto che stanno ballando sull'orlo di un vulcano in eruzione. La crisi ha aperto gli occhi ai cittadini che scoprono di essere presi in giro da almeno trent'anni, governasse la destra o la sinistra o tutte e due insieme». E concludevo: «Le elezioni del 2013, Grillo o non Grillo, potrebbero segnare, con un' 'astensione colossale', la fine della democrazia rappresentativa». Nel 2013 ci fu un'ulteriore erosione dell'elettorato, ma quell'«astensione colossale» che io prevedevo già per quell'anno è arrivata ora, nell'autunno del 2014. E solo adesso, tranne Renzi che fa il pesce in barile e definisce l'astensione 'secondaria' e Matteo Salvini che finge di aver vinto un'elezione che invece ha perso, come tutti, perché dai 116.394 voti delle europee è passato ai 49.736 di oggi, tutti gli esponenti di partito, i commentatori, i giornalisti scoprono l'esistenza del fenomeno. Naturalmente cercano di sminuirne la portata attribuendolo al tempo ridotto per votare, agli scontri in atto all'interno del Pd e a quelli con i sindacati, agli scandali emersi in Emilia Romagna, alle inchieste della magistratura e a qualsiasi altra causa cui possano appigliarsi. Ma tutte queste ragioni non possono aver avuto che un'incidenza molto parziale, direi minima, su un fenomeno così esteso.
La realtà è che la gente non crede più a questo sistema, non crede più al balletto delle elezioni, non crede più alla democrazia rappresentativa e, forse, alla democrazia 'tout court'.
I partiti che si scannano per dividersi quel poco di elettorato che gli è rimasto appiccicato fanno la stessa impressione di chi, in un castello che sta andando in fiamme, si preoccupi di assicurarsi comunque gli appartamenti migliori, mentre là fuori sono circondati da milioni di arcieri che non hanno ancora trovato il loro Robin Hood ma che prima o poi occuperanno quelle macerie fumanti.
Il fenomeno non è solo italiano. Negli Stati Uniti un deputato, in un momento di sincerità, ha affermato che «gli elettori contano poco o nulla e non sanno neanche perché e per chi votano». Tuttavia, come ho già avuto modo di osservare, l'Italia è, storicamente, un 'paese laboratorio' e la fine della democrazia da noi potrebbe preludere alla fine anche delle altre democrazie occidentali.
A differenza di quanto ha scritto Antonello Caporale sul Fatto, non ha vinto 'il partito della pantofola'. Chi è rimasto a casa è uno che ha esaurito ogni pazienza e, non essendo vincolato, a differenza di Grillo, a una rivoluzione pacifica che agisca all'interno delle regole democratiche, il giorno che, esasperato, deciderà di uscire allo scoperto lo farà, per usare un eufemismo, con le mazze da baseball, cioè con la violenza. E scorrerà del sangue. Perché, come dice la Bibbia, «terribile è l'ira del mansueto».
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2014
La settimana scorsa, in occasione del centenario della nascita di Giuseppe Berto, si è svolta a Mogliano Veneto una 'tre giorni' per commemorare l'opera e la figura dello scrittore che a Mogliano era nato. Cesare De Michelis, docente di Letteratura italiana all'Università di Padova, ha sviscerato in tutte le sue sfumature l'opera di quello che ha definito «uno dei più grandi scrittori italiani del secondo Novecento». A me è toccato il compito, più modesto e più giornalistico, maggiormente adatto alle mie corde, di parlare del Berto polemista. Per la verità Berto è stato polemista sia nelle sue opere che nella vita. In Guerra in camicia nera restituisce dignità e onore ai vinti, di cui peraltro, andato volontario in guerra, aveva fatto parte, nel suo capolavoro, Il male oscuro, disarticola le forme narrative in auge al tempo, nella sua ultima opera, La gloria, scritta pochi mesi prima di morire di cancro, rivaluta la figura di Giuda visto più come una vittima di superiori disegni del destino. Nella vita Berto, e questo me lo fa sentire particolarmente vicino, non si imbandò mai in partiti, congreghe, camarille di sorta. Era un 'chevalier seul'. Per questo ebbe l'ostilità della critica letteraria del tempo e in particolare della cricca raccolta attorno a Moravia, Eco, Siciliano (in cui si era dovuto intruppare, per sopravvivere, anche Pasolini che di sinistra non aveva nulla, era piuttosto un reazionario) che lo bollava come 'qualunquista' se non addirittura 'fascista'. Le solite cose. Da destra lo si considerava un comunista. I fascisti lo ritenevano un traditore. «La critica mi è sempre stata contro» mi disse una volta «mi sono salvato perché i miei libri, nonostante tutto, vendevano».
Al convegno io ho scelto di parlare dell'opera più pamphlettistica di Berto, Modesta proposta per prevenire, che richiama il celeberrimo pamphlet di Jonathan Swift. Nel 1971, in piena orgia di sinistrismo, Berto sbertuccia ferocemente il '68 e i sessantottini. Denuncia l'origine borghese di quei ragazzi pseudorivoluzionari (e in questo ebbe sodale Pasolini che in una famosa poesia difese i poliziotti, i veri proletari), la vocazione, di matrice soreliana, all'azione per l'azione, alla violenza per la violenza e quindi l'affinità col fascismo, l'inquietante connubio catto-comunista. Poi Berto prende di petto la retorica, che già Alberto Savinio in un preveggente libretto del 1945, Sorte dell'Europa,aveva individuato come «una delle cause principali, se non addirittura la principale, delle nostre sciagure» e in particolare la più asfissiante di tutte le retoriche, che ci perseguita ancora adesso, la Retorica della Resistenza, per cui gli italiani fecero finta di aver vinto una guerra che invece avevano perso, evitando così di fare i conti con se stessi. Il che ebbe varie e gravi conseguenze fra cui la nascita del terrorismo rosso. Ma dove quel libro di più di quarant'anni fa diventa di un'attualità stringente è là dove Berto, bypassando la polemica sul Sessantotto, denuncia la responsabilità della classe dirigente dell'epoca, la Dc in testa, che alla contestazione non disse i no che andavano detti ma neppure quei sì che pur andavano detti. Di qui la mancata riforma della scuola, di una burocrazia pletorica e inefficente, del parlamentarismo paralizzante, dei partiti. Sono i temi di oggi. Anche se non si sa se attribuire tutto ciò alla prevegenza di Giuseppe Berto o all'immobilismo della politica italiana per cui i problemi del nostro Paese, come notava Ennio Flaiano in un divertente ma anche malinconico elenco epigrammatico inserito in La solitudine del satiro, rimangono sempre, eternamente, gli stessi.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 28 novembre 2014
Cosa sarebbe successo, in epoca preindustriale, se su un campo dove lavoravano e si mantenevano dieci persone si fossero accorti che otto erano sufficienti a coltivarlo tutto? Avrebbero cacciato i due 'in esubero' a pedate? Nient'affatto, si sarebbero diminuiti proporzionalmente i carichi di lavoro e il tempo così guadagnato se lo sarebbero andati a spendere in taverna, a giocare a birilli, a corteggiare la futura sposa o a cornificare, fra i cespugli, quella che avevano. Perché per quegli uomini il vero valore era il tempo, che noi abbiamo trasformato nel mostruoso 'tempo libero', un tempo non da vivere ma da consumare altrimenti le imprese vanno a rotoli. Anche l'artigiano lavora per quanto gli basta. Il resto è vita. Se leggiamo gli Statuti artigiani medioevali sbalordiamo: era proibita la concorrenza. Ognuno doveva avere il suo spazio vitale. Dice: ma allora cosa impediva all'artigiano di fornire prodotti scadenti? Gli Statuti che stabilivano minuziosamente gli standard e lo stesso artigiano cui l'orgoglio per proprio mestiere (che è un concetto diverso dal lavoro) gli imponeva di dare il meglio di sè, il capolavoro in senso tecnico. Quel mondo non era basato sulla competizione economica. Non che quella gente snobasse la ricchezza. Come nota sarcasticamente Max Weber «la sete di lucro...si trova presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti, si può dire presso all sorts and conditions of men». La sconvolgente novità che porta il borghese è che il guadagno si fa attraverso il lavoro (robb de matt). E' questa la folgore che cambierà tutti i rapporti economici, sociali, esistenziali e renderà centrale la figura ripugnante del mercante e dell'imprenditore perché è colui che dà lavoro. Sono patetiche le masse di uomini e di donne che oggi premono ai cancelli per poter diventare, o ridiventare, degli 'schiavi salariati'. La competizione chiude poi il cerchio. Per un imprenditore che vince magari usando la tecnologia al posto degli esseri umani ce n'è un altro che perde e deve liberarsi dei suoi dipendenti. A livello globale per un Paese che apparentemente si arricchisce ce n'è un altro che va in default. 'Apparentemente' perché la 'ricchezza delle Nazioni' di smithiana memoria non corrisponde affatto a quella delle loro popolazioni (la Nigeria è il Paese più ricco dell'Africa ma ha il più alto tasso di poveri).
La soluzione? Tutti, da Obama a Camerun, da Renzi a Camusso, la indicano nella crescita. Chiunque parli di crescita è un lestofante. Perché le crescite infinite, su cui è basato un modello di sviluppo ormai planetario, esistono in matematica ma non in natura. E noi abbiamo ormai superato abbondantemente il confine. Può crescere ancora qualche settore come l'informatica ma anche'essa troverà presto il suo limite (dopo aver ridotto l'iPod a 6 millimetri a tre a uno ed essersi inventati qualche ulteriore applicazione, che altro?). Adesso la parola magica è 'banda larga' che significa una maggiore velocizzazione delle comunicazioni, come se uno dei nostri problemi non fosse proprio la velocità cui stiamo andando, che permetterebbe, si dice, una maggior produttività. Ma produrre che cosa e soprattutto per chi, inducendo nuovi bisogni di cui l'uomo non aveva mai sentito il bisogno, caricando il pianeta, già al collasso, di un surplus di fardello?
Non si può più crescere, bisogna, sia pur gradualmente, decrescere. Una soluzione, per quanto circoscritta e limitata, io l'avrei. Si chiama Europa. Ma un'Europa molto diversa da quella attuale: unita, neutrale, armata, nucleare e autarchica. Una formula dove la parola chiave è 'autarchica'. Lo chiarirò meglio in un prossimo Battibecco. Se nel frattempo non avrò perso il lavoro.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2014