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Il Conformista di due settimane fa (6/12) era stato intitolato «Uomini ridotti a chip è questo il rischio della scienza estrema». Era un'ipotesi. Adesso è un fatto. O quasi. Domenica scorsa Rai2 ha mandato in onda un programma, 'A come Avventura', in cui si dava conto in termini entusiastici di studi, assai avanzati, degli scienziati del mitico MIT per inserire nel cervello un chip che ci permetterà di controllare le nostre emozioni, ira, gelosia, stress, ansia, e di ricondurle a livelli 'accettabili'. E' l'ossessione della Scienza di creare l'uomo perfetto, del Doctor Frankenstein. Un Superuomo che non soffra, nè fisicamente nè esistenzialmente. Solo che questo Superuomo si rivela, a conti fatti e del tutto contradditoriamente, un normotipo, omogeneo, omolagato: se tutti siamo perfetti non c'è più alcuna diversità fra di noi. Senza contare che di questi chip inseriti nei nostri cervelli potrebbe impadronirsi un Grande Fratello manovrandoci a suo piacimento.

Aldous Huxley ne 'Il mondo nuovo' aveva immaginato che il Potere, per acquietare gli individui e renderli disponibili e docili, gli avesse indotti a masticare quotidianamente il 'soma', una sorta di betel, una droga soft, cosi' soft da non essere avvertita come tale. Ci aveva azzeccato in pieno: basta sostituire il termine 'soma' con 'consumo'.

Comunque sia qui non siamo in un romanzo di fantascienza o nel laboratorio di uno 'scienziato pazzo' alla Frankenstein ma nel 'sancta santorum' della Scienza e della medicina tecnologica. Sono inoltre arrivati a conclusione altri studi per rimuovere dalla nostra memoria esperienze dolorose. E questo è anche più inquietante del Doctor Frankenstein. Perchè l'esperienza del dolore è formativa («Ogni malattia che non uccide il malato è feconda» scrive Nietzsche) ed è pedagogica e indispensabile per evitare guai peggiori. Se il bambino mettendo la mano sul fuoco non sentisse dolore se la brucerebbe.

A me sembra che questa scienza, autoreferenziale, innamorata di sè, stia diventando il nostro maggior pericolo. Perchè nella sua ansia di perfezione tende a togliere all'uomo tutto cio' che ha di umano. L'uomo, ogni uomo, è un impasto di Bene e di Male, di salute e di malattia, di inquietudine e di serenità, di dolore e di felicità, di ansia e di quiete, e tutti questi elementi sono inscindibili, l'uno non esisterebbe senza l'altro («ognuno di questi opposti mutandosi è l'altro e a sua volta l'altro mutandosi è l'uno», Eraclito).

Poichè c'è nell'aria, anche senza il bisogno di ricorrere a chip ficcati nel cervello, questa tendenza all'omologazione universale, a fare di ogni uomo un normotipo, al 'politically correct' esistenziale spinto fino al ridicolo (adesso sono stati istituiti pure 'corsi di addestramento per padroni di cani e gatti'), all'astrazione perfezionista di origine protestante e nordeuropea, insomma a cavarci il poco sangue che ci è ancora rimasto nelle vene, io provo un certo sollievo, lo confesso, quando sento di un delitto dovuto a qualche incomprimibile impulso. Vuol dire che, nonostante tutto, sotto questa gelida tecnorealtà, la vita, sia pur volta al negativo, scorre ancora.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 20 dicembre 2013

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Ho conosciuto Angelo Rizzoli al ginnasio liceo Berchet di Milano. Avevamo 14 anni. Era grasso, con gli occhiali, 'un quattrocchi' come si diceva allora, decisamente brutto. I compagni di classe, con l'incoscente crudeltà che è dell'adolescenza, lo avevano soprannominato 'coscia rovente' perchè camminando i pantaloni di vigogna, sfregandosi, sfrigolavano. A quell'epoca il padre, Andrea, figlio di Angelo Rizzoli senior, il mitico fondatore della dinastia, era presidente del Milan. I compagni si facevano dare da Angelo i campi, le magliette, le scarpe bullonate. Ma non lo facevano giocare. Gli avevano affibbiato il ruolo di Direttore tecnico, ma in realtà la formazione la decideva il capitano della squadra, un bel ragazzo biondo che si chiamava Guerrero.

A casa non gli andava meglio. Aveva rapporti pessimi con la matrigna, la bellissima Ljuba Rosa, ex modella, seconda moglie di Andrea. «Se telefonavo a una ragazza lei, con l'apparecchio centralizzato col quale controllava tutto, interrompeva la comunicazione e io, che già avevo delle difficoltà per conto mio, rimanevo li' come un bamba». In quanto ad Andrea soffriva di un inguaribile 'inferiority complex' nei confronti di suo padre che gli dava apertamente del 'cretino' davanti ai dipendenti e scaricava le proprie frustrazioni sul figlio maggiore, Angelo appunto. Queste umiliazioni giovanili spiegano non solo molti lati del carattere di Angelo Rizzoli jr ma anche alcuni avvenimenti di cui in seguito sarà protagonista e, più spesso, vittima.

Nell'estate del 1960 incontrai Angelo a Ischia dove mio padre, direttore del Corriere Lombardo, era stato invitato, con altri giornalisti, dal vecchio Rizzoli che nell'isola possedeva un albergo, il Regina Isabella se non ricordo male. Aveva un comportamento strano, pur scontando le turbe di quell'età e le sue proprie. Si sussurava che fosse malato. La sclerosi multipla aveva cominciato ad aggredirlo, anche se questa malattia, che puo' avere conseguenze terribili, è stata abbastanza clemente consentendogli di vivere a lungo lasciandogli in eredità solo una leggera, anche se evidente, zoppia.

I ragazzi Rizzoli, Angelo e il fratello minore Alberto, vennero mandati a lavorare in azienda, partendo dai gradini più bassi come era allora buona usanza della borghesia milanese. E non era un lavorare per modo di dire. «Un venerdi' pomeriggio verso le quattro e mezza mi affaccio all'ufficio di mio nonno e gli dico: 'Cumenda, lo chiamavamo cosi' anche in famiglia, vado a Saint Moritz e vorrei partire ora perchè se lo faccio dopo trovo la coda'. 'Se tu credi di poter uscire dall'azienda un'ora prima degli altri, allora puoi anche non tornare lunedi' '».

Il vecchio Rizzoli morirà, pochi anni dopo, ultraottantenne, lasciando ai figli e ai nipoti, sul letto di morte, questa raccomandazione: «Non fate mai debiti con le banche». Il figlio, Andrea, nel 1974 commise il tragico errore di comprare il Corriere della Sera. E anche qui aleggia quell' 'inferiority complex' che percorre tutta la saga dei Rizzoli. Avere un grande quotidiano era stata un'ambizione coltivata a lungo da Angelo Rizzoli senior che aveva pubblicato solo riviste oltre che libri. Aveva anche fatto preparare un progetto, trovato un direttore, Gaetano Afeltra, un titolo e un sottotitolo, 'Oggi-il quotidiano di domani' (che campeggerà a lungo su quel bizzarro grattacielo orizzontale che è la sede Rizzoli «perchè cosi' ci vogliono meno fattorini» racconta la leggenda) anche quando il progetto fu abbandonato. Perchè alla fine il vecchio Rizzoli decise di non farne nulla, giudicandolo troppo costoso e rischioso. Con l'acquisto del Corriere Andrea, per la prima volta, superava suo padre. Ma i Rizzoli non erano attrezzati per un quotidiano politico di quella portata. Si erano sempre tenuti lontani dalla politica. In modo quasi grottesco. Mi ricordo che una volta ebbero bisogno di contattare Lama per arginare uno sciopero e finirono per affidarsi, non sapendo a chi altro rivolgersi, a un oscuro cronista della redazione romana dell'Europeo. Col Corriere si entrava in un altro girone.

Andrea Rizzoli, dopo aver avuto un primo infarto quando era ancora vivo suo padre («Ma puo' capitare anche a me?» aveva chiesto, stupito, il vecchio al suo medico), si era gravemente ammalato di diabete e ritirato, con Ljuba Rosa, nella sua villa di Montecarlo. Adesso il capo era lui, Angelo Rizzoli junior a metà dei suoi trent'anni. Nel frattempo pero' era entrato in Rizzoli (ora Rizzoli-Corriere della Sera), come direttore finanziario, il 'lupo cattivo' Bruno Tassan Din, un oscuro manager che veniva dalla Fidenza Vetraria. In qualsiasi azienda fosse stato, Tassan Din aveva sempre utilizzato lo stesso metodo: farsi dare un ufficio il più possibile vicino a quello del Capo per carpirne i segreti e coglierne le debolezze. Ma in Fidenza c'era Cefis e il giochetto era durato poco, era stato cacciato a pedate nel sedere. Era entrato in Rizzoli grazie alla P2 ed era diventato la 'longa manus' di Gelli, Ortolani e Calvi, il presidente dell'Ambrosiano. Per lui fare un sol boccone del giovane Angelo Rizzoli che dietro l'apparente burbanza del padrone mascherava un carattere psicologicamente fragile e una sostanziale, quasi infantile, ingenuità, fu un gioco da ragazzi. Avendo capito uno dei punti deboli di Angelo gli faceva conoscere le ragazze. La cosa curiosa è che Tassan Din (che io avevo conosciuto anni addietro al Casino' di Campione vedendolo giocare con molta parsimonia i soldi suoi, sarebbe diventato molto disinvolto con quelli altrui) non aveva alcun giro di ragazze. Era uno 'sfigato' come direbbe Max Pezzali. Si accreditava come amico di Rizzoli.

L'ascesa di Tassan Din in Rizzoli fu fulminea. In breve tempo divenne Amministratore delegato e il vero padrone del Gruppo Rizzoli-Corriere anche se sempre come appendice della P2. E comincio' una politica dissennata di espansione. Col complice accordo dei sindacati comprava tutto: la Gazzetta dello Sport, l'Alto Adige, il Mattino di Napoli, il Piccolo di Trieste e persino TeleMalta. E la Rizzoli già in rosso si indebitava sempre più. Allora interveniva il Banco Ambrosiano di Calvi, fingendo di aiutare Angelo, gli portava via altre quote dell'azienda. In pratica gli mettevano la testa sott'acqua, poi gliela tiravano fuori e gli dicevano: «Vedi come siamo buoni, ti abbiamo salvato». Nell'azienda ormai rubavano tutti, dai manager ai grandi giornalisti che si facevano superpagare consulenze fasulle o del tutto inutili. E fini' per rubare anche Angelo. A se stesso. E questo gli costerà l'accusa e la condanna del Tribunale di Milano per «aver distratto, occultato e dissipato» beni dell'azienda per 85 miliardi.

La Rizzoli va in Amministrazione controllata. La rileverà Gemina (Fiat) per un pugno di mosche. Nel 1983 Angelo finisce in carcere e vi resterà per 13 mesi. E' uno choc. L'erede di una delle più prestigiose aziende milanesi che finisce in galera. Allora non si era ancora abituati. Nei primi mesi gli resterà vicina la moglie, l'attrice Eleonora Giorgi sposata nel 1979 e che gli ha dato un figlio, Andrea, che oggi ha 33 anni. Lei ricorda ancora la data esatta del loro primo incontro, a una festa a Roma: 12 febbraio 1978. Problemi di dipendenza lei, per lui, anche se allora era al massimo del suo potere, la consueta insicurezza. «Parlammo tutta la notte. Fu l'incontro di due sofferenze, di due dolori». A dispetto delle solite malelingue (l'attrice che sposa il produttore cinematografico) fu una storia d'amore, anche se difficile perchè le personalità dei due erano molto diverse e diversi sarebbero stati i loro destini.

Nel 1983 muore anche il padre di Angelo, Andrea. Da anni era immobilizzato su un letto. E fu in quel periodo, con Andrea fuori gioco, che si consuma un altro dramma di questa saga familiare. Ljuba Rosa, fra una puntata e l'altra al Casino' di Montecarlo, si mette con Raffaello Gelli, il figlio dell'uomo che aveva portato alla rovina la Rizzoli e i Rizzoli. Si chiudeva cosi' perfettamente il cerchio di questa Dinasty italiana.

Ljuba era una donna di pochi scrupoli. Il caso volle che in una sera, anzi in una notte, del 1989 la incontrassi all'Hotel Principe di Savoia che è proprio di fianco a casa mia e dove andavo ogni tanto a bere il classico 'bicchiere della staffa'. Era ancora molto bella, ma era una donna disfatta. Dell'antica spavalderia non era rimasto nulla. Due anni prima la figlia che aveva avuto da Andrea, Isabella, 22 anni, si era suicidata buttandosi dal nono piano della casa dei Rizzoli a Montecarlo. Anche se la conoscevo solo di vista lei comincio' a parlare a fiotti. Si sentiva tremendamente in colpa. «Sa» mi disse piangendo «quasi ogni giorno vedo mia figlia, la vedo fisicamente, che mi passa accanto e correndo va a buttarsi dalla finestra». Seduti fianco a fianco sui tabouret del bar del Principe rimanemmo a parlare fino all'alba. La drammatica morte di Isabellina fu un duro colpo anche per Angelo, Alberto e Annina, i tre figli di Andrea, che amavano molto quella loro sorellastra.

Finchè stavo all'Europeo mi ero ben guardato dall'avere contatti con Angelo. Ero un dipendente, non più l'antico compagno di scuola e non volevo che si creassero confusioni. Quando fu scarcerato gli feci una lunga intervista, che impegno' tre copertine dell'Europeo, nella sua casa di via del Gesù al cui ingresso c'era un piccolo pappagallo che accoglieva gli ospiti a parolacce, cosa che sembrava divertirlo molto.

Lo rividi solo nell'estate del 1988. Ero in vacanza all'Argentario e lui aveva affittato una casa ad Ansedonia, a pochi chilometri. Andai a trovarlo. Mentre i nostri due figli, Andrea e Matteo, che sono quasi coetanei, giocavano in giardino ci mettemmo a chiacchierare. Angelo era furioso con la Fiat e gli Agnelli che gli avevano comprato l'azienda per un tozzo di pane. Si lamentava anche della solitudine in cui era stato lasciato («Io sono caduto e la carovana va avanti senza voltarsi indietro»). Aveva liquidato la casa di via del Gesù, ridotto il suo tenore di vita e si era trasferito a Roma. Ma nel complesso mi parve sereno. Anche fisicamente era cambiato. Era sempre grasso ma la maturità aveva reso il suo volto, incorniciato da una barba che cominciava a diventare bianca, più intenso scoprendo quella sensibilità che aveva sempre cercato di nascondere, almeno con gli estranei. E forse da questo mood che nasce nel 1989 il suo rapporto con Melania De Nichilo che, sposata nel 1991, gli darà un po' di serenità e due figli, Arrigo e Alberto, che alla cerimonia funebre tenuta sabato a Milano apparivano, fra la poca gente presente (nessun fotografo, pochissimi giornalisti), particolarmente smarriti. Nei primi anni '90 c'è anche il ritorno di Angelo sulla scena pubblica come produttore cinematografico con l'aiuto generoso e determinante di Silvio Berlusconi.

Poi il nuovo arresto per bancarotta fraudolenta, la ricaduta nei vecchi vizi, nei vecchi errori, nelle vecchie ingenuità. Il fatto è che Angelo Rizzoli junior non era attrezzato per fare l'imprenditore, per governare un colosso come il Corriere (avrebbe fatto meglio Alberto, più solido, che pero' preferi' defilarsi al momento giusto, prima della catastrofe definitiva). Che non fosse abile come imprenditore me lo ammise una volta lui stesso, con molta autoironia: «Il manager è quello che dovendo fare una galleria e potendo scegliere fra sette colline decide qual'è quella giusta. L'ho fatto anch'io. Solo che ho scelto quella sbagliata». Ha commesso molti errori e anche qualche malefatta. Ma non era uno squalo e non era stato educato a esserlo. Era il figlio di una borghesia decente scomparsa da tempo. Lo stesso ammonimento del nonno: «Mi raccomando non fate mai debiti con le banche» da una parte era preveggente ma dall'altra completamente fuori dal tempo. Il quotidiano La Repubblica l'ha trattato con disprezzo. Io mi limito a dire che per tutta la vita, dalla giovinezza alla fine, è stato un disadattato.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2013

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«Fusse che fusse la vorta bbona» diceva in una Canzonissima del 1960 Nino Manfredi nella parte di un barista incazzato. E se fosse davvero venuto il momento della caduta di un regime delegittimato, di una democrazia espropriata dai partiti che, esorbitando completamente dal ruolo loro assegnato dalla Costituzione, hanno occupato ogni spazio costituendosi in lobbies clientelari, corrotte, corruttrici e sostanzialmente mafiose? Le manifestazioni, per ora pacifiche, che si stanno svolgendo in tutta Italia, da Ventimiglia a Palermo, hanno la peculiarità di non essere targate, di non aver il cappello di nessun partito nè del sindacato. Sono agricoltori, 'padroncini' di Tir, artigiani, commercianti, ambulanti, lavoratori autonomi. Uomini e donne qualunque ridotti a sudditi che non si sentono rappresentati da nessuno. Ma il segnale più inquietante per gli uomini del Potere e che ha messo loro addosso una paura birbona (si vedano le dichiarazioni 'ad alzo zero' di Alfano) è che a Torino e Genova alcuni agenti si siano tolti il casco antisommossa e abbiano fraternizzato con i manifestanti che gridavano «Siete dei bravi ragazzi, venite con noi». Tutti i regimi cadono quando polizia ed esercito smettono di difendere il Potere fino ad allora considerato legittimo. Nel 1918 lo Zar non faceva che mandar battaglioni contro il pugno di insorti guidati da Lenin e Trotskij ma lungo il tragitto i battaglioni si liquefacevano, i soldati disertavano o si univano ai rivoluzionari. Nel 1991 il golpista Janaev, dopo aver esautorato Gorbaciov, mando' i carri armati sulla Piazza Rossa, ma i carristi si rifiutarono di sparare sulla folla. Su uno di quei carri sali' Boris Eltsin e fu la fine dell'Unione Sovietica. Lo stesso meccanismo è scattato in alcune delle 'primavere arabe'.

Le Questure di Torino, di Genova, il ministro degli Interni hanno cercato di minimizzare il gesto degli agenti che si sono tolti il casco presentandosi a viso scoperto: «E' prassi quando cala la tensione». Ma non è cosi'. E quel gesto non deriva solo dal fatto che i poliziotti sono malpagati e sovracaricati di lavoro, come hanno cercato di ammorbidire alcuni giornali. Si tratta di qualcosa di molto più grave: quei poliziotti, che presumibilmente rappresentano i sentimenti di molti loro colleghi che hanno preferito restare al coperto, non si identificano più con lo Stato e le Istituzioni che dovrebbero difendere, come non ci si identificano i manifestanti.

Del resto che fossimo in una sorta di quiete che precede la tempesta ce lo aveva preannunciato, in un certo senso, solo pochi giorni fa, il rapporto del Censis descrivendo un'Italia «sciapa, infelice» aggiungendo che non è semplicemente una questione di soldi ma di «accidia, immoralismo, disinteresse generalizzato...tessuti valoriali persi, dissolti». Da questa situazione agonica prima o poi doveva nascere fatalmente qualcosa, come dalla brace che cova sotto la cenere. Se poi le cosiddette classi dirigenti riusciranno con i consueti metodi, con le astuzie, cercando di dividere la protesta, con le blandizie, con i compromessi, con le promesse mai mantenute, con i Renzi, a spegnere l'incendio appena divampato o se ci sarà, finalmente, anche una 'primavera italiana' è cosa tutta da vedere. Non ci conto, ma ci spero.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2013