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In seguito alle indagini dei Ros la Procura di Brescia ha emesso 24 ordini di cattura, 16 in Veneto, nei confronti di altrettanti indipendentisti, fra cui lo storico leader della Liga, Franco Rocchetta, e uno dei capipopolo dei 'forconi', Lucio Chiavegato, legati in un gruppo denominato 'L'Alleanza', ad altri indipendentismi, in particolare quello sardo. L'accusa è di “terrorismo ed eversione del sistema democratico”. Avevano commesso atti di violenza? No. Erano in possesso di 'armi di distruzione di massa'? Avevano un 'tanko', una specie di carro armato 'fai da te' non molto diverso da quello giocattolo utilizzato dai 'serenissimi' nel 1997 per una manifestazione chiaramente simbolica e dimostrativa, che peraltro costò loro anni di carcere molti di più di quelli che hanno fatto parecchi terroristi assassini, a cominciare dal beato Adriano Sofri, mandante dell'omicidio Calabresi, santificato sia dalla sinistra (La Repubblica) che dalla destra (Panorama) e da quel giornale, Il Foglio, che non si sa che cosa sia tranne che è mantenuto con i nostri soldi.

Nell'azione della Procura di Brescia sembra di rivedere, in piccolo naturalmente, la teoria di George W. Bush della 'guerra preventiva'. Non importa che tu sia potenzialmente pericoloso, basta che lo sia idealmente. Ed ha ragione Matteo Salvini quando dice che a Brescia “si sta facendo un processo alle idee”.

L'indipendentismo è in sé un reato? No. E' anzi vero il contrario visto che nel 1972 è stato solennemente statuito ad Helsinki il principio dell' 'autodeterminazione dei popoli'. Bisogna intendersi su cos'è un popolo. Certo non coincide con lo Stato, altrimenti la stessa dichiarazione di Helsinki non avrebbe senso. Popolo è una comunità, finita all'interno di un qualche Stato, coesa per storia, tradizioni, costumi, socialità, economia e persino clima. E non vi è dubbio che il Veneto abbia queste caratteristiche, come le ha la Sardegna o la Sicilia dove non a caso era nato un forte movimento indipendentista su cui aveva messo gli occhi Gheddafi. E avremmo fatto bene a lasciargliela, la Sicilia, perchè delle due l'una: o Gheddafi avrebbe distrutto la mafia o la mafia avrebbe distrutto Gheddafi. Poi hanno provveduto gli F-35 dei francesi sempre ammalati di 'grandeur' e dimentichi della lezione che gli diede Hitler nel 1940 aggirando la mitica Maginot e arrivando in due settimane a Parigi, proprio nel momento in cui il rais di Tripoli era diventato innocuo e, anzi, un interessante partner commerciale, e non solo, per noi.

Né si può dimenticare che l'Unità d'Italia fu l'opera di un'élite cui il popolo fu totalmente estraneo. Ai plebisciti partecipò 4% della popolazione. Probabilmente allora l'unità era necessaria perchè in tutta Europa si erano formati degli Stati e anche noi dovemmo uniformarci per non finirne stritolati e avevamo quindi bisogno di un bel po' di inconsapevole carne da macello come ci racconta Verga ne 'I Malavoglia' (ma c'è ancora qualcuno che nell'era di 'masterchef' legge Verga?).

Ma passano i decenni, la Storia va avanti, o indietro a seconda dei gusti, e non è detto che ciò che era valido nel 1961 lo sia anche nel 2014. Per me è molto più comprensibile un'Europa delle 'macroregioni' che degli Stati nazionali sempre più agonizzanti e, proprio per questo, sempre più aggressivi al loro interno. Del resto il buon Nietzsche che vedeva lontanissimo definiva lo Stato “il più freddo di tutti i mostri”. Una comunità, sia essa veneta o sarda o sicula, è una cosa, perlomeno, umana.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 4 aprile 2014

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Per nulla al mondo vorrei essere il presidente degli Stati Uniti. Non solo perchè non vorrei essere responsabile di alcune decine di migliaia di morti fatti dai miei bombardieri o di decine di assassinii organizzati, col mio consenso, dalla Cia in qualche extraordinary rendition.

Il poveraccio arriva a Roma, la città più affascinante del mondo, per la sua storia, i suoi monumenti, la varietà dei suoi stili architettonici, dal romano antico al rinascimentale al barocco all'umbertino, per il suo ocra, per i suoi grandi parchi, per la sua dolce mollezza e per la sua gente, cinica, scettica, indolente, caciarona, e non solo deve perdere buona parte del suo poco tempo con una testa cava come Napolitano, un volgare ragazzotto fiorentino che si crede indispensabile (monito ricorrente: «lascio la politica») e persino col Papa perchè dalle sue parti ha bisogno dei voti dei cattolici (ma in questo caso Obama ha fregato Bergoglio sulla 'retorica della modestia': gli ha regalato dei semi), ma dalla sua supercorazzata, con finestrini a cinque strati di vetro, seguita da 26 auto di scorta, di tutto questo, in una città blindata, non vede niente. Il poveraccio vuole andare a vedere il Colosseo che, influenzato forse da alcuni film hollywoodiani, immagina sia qualcosa di simile a uno stadio da baseball. Quello che vede è un Colosseo senza turisti, senza ciceroni, senza i finti gladiatori con le spade insanguinate di vernice rossa. Un Colosseo surreale, che non è mai esistito, nè nel presente nè, ovviamente, nel passato. Un plastico. Avrebbe fatto prima a guardarselo per cartolina o, meglio ancora, via Internet. Al poveraccio sarebbe piaciuto andare a cenare la sera in una trattoria romana, in qualche quartiere caratteristico, a Trastevere o a Campo de' Fiori, anche per avere un minimo di contatto con la gente di Roma. Ma vi rinuncia perchè capisce- non è cretino, è solo americano- che attorno avrebbe avuto solo agenti della sicurezza travestiti da comparse di Cinecittà.

E' difficile la vita dei potenti, oggi. Per quanto democratici si teme sempre che ci sia qualcuno che voglia tirargli se non una fucilata, almeno un qualche simbolico, ma pesante, cimelio (in questo caso una riproduzione del Colosseo).

Anni Trenta. Su una delle strade consolari di Roma due macchine, due Appia, guidate entrambe da un uomo, senza altri passeggeri a bordo, cominciano a farsi dei sorpassi azzardati, spericolati, provocatori. I due guidatori fermano le macchine, decisi a fare a cazzotti. Dalla prima esce Fulvio Bernardini, il centromediano della Nazionale, dall'altra Benito Mussolini. Rinunciano a scazzotarsi. Al Duce piaceva andare al mare nella sua Romagna. Prendeva la macchina e guidando da solo per il lungo tragitto si fermava a dormire in una certa trattoria (che esiste ancora, con la sua stanza così com'era allora) subito dopo la splendida gola del Furlo. La mattina riprendeva la macchina e, arrivato a Riccione, indossato il costumone, si cacciava a bagno senza che nessuno gli rompesse i coglioni.

Facciamo retrocedere la moviola di duemila anni. A Nerone, giovanissimo imperatore, piaceva andare la notte, travestito da schiavo, al Ponte Milvio che era uno dei luoghi più turbolenti di Roma. Perchè voleva sentire di persona cosa diceva e pensava veramente la gente (attitudine che non farebbe male ai nostri politici). Qualche volta veniva coinvolto in una rissa e tornava a Palazzo con un occhio nero.

Se Barack Obama vuole conoscere veramente Roma gli consiglierei di tornarci travestito, non da schiavo (quelli stanno a Guantanamo), ma da portalettere.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2014

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L'avanzata di Marine Le Pen in Francia, coniugata col fenomeno forse ancora più interessante di un'astensione, il 38%, che mai era stata così alta nel Paese transalpino, dei cosiddetti 'populismi' (confesso che non ho mai capito bene cosa significhi il termine 'populismo' e perchè debba avere un significato spregiativo), lo stesso indipendentismo veneto, la cui consistenza è stata documentata dal recente referendum, viene unanimamente interpretata come una protesta contro l'Europa. Secondo me l'Europa è il bersaglio più facile, poichè è astratto, su cui scaricare un disagio molto più profondo che la crisi economica (peraltro ancora molto relativa in Occidente, verrà di peggio) acuisce ma non determina.

In discussione non è l'Europa ma il modello di sviluppo occidentale. Se ne è accorta perfino la Nasa. Uno studio finanziato dal Goddard Space Flight Center, filiale della Nasa, è arrivato alla conclusione che «la nostra civiltà presenta sintomi di degrado molto gravi ed è prossima a una fine che, senza interventi adeguati, arriverà molto presto, nel giro di qualche decade». Scrive ancora la Nasa: «Bisognerebbe cominciare a modificare in peggio il tenore di vita del mondo occidentale». Sono le cose che vado scrivendo da più di un quarto di secolo ('La Ragione aveva Torto?', 1985): un sistema basato sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, è destinato prima o poi al collasso. Potrebbe dire il lettore: che me ne importa di ciò che accadrà fra qualche decennio, io vivo ora. Oppure col sarcasmo di Oscar Wilde: «Che cosa hanno fatto i posteri per noi?». Il fatto è che noi viviamo male già ora, in preda a ritmi disumani che non sono solo quelli del lavoro ma dell'intera nostra vita. C'è un bel libro di una giornalista del Washington Post, Brigid Schulte (dal titolo impossibile, 'Overwhelmed') che affronta il concetto di 'Tempo' che assicuratasi la sussistenza, è il vero valore delle nostre vite oltre che il suo padrone, più di qualsiasi oggetto materiale. Nel senso che non abbiamo mai tempo per noi stessi. Il cosiddetto 'tempo libero' non è affatto tale, deve essere riempito, 'indaffarato' scrive la Schulte, insomma consumato (basta vedere come i genitori di oggi riempiono le giornate dei loro bambini, con lezioni di tennis, di nuoto, di piano, ma lasciateli andare a giocare, perdio). Lo stesso concetto di 'tempo libero' ha in sè qualcosa di mostruoso. Nella società contadina, preindustriale, non esisteva: il lavoro sfumava gradualmente nel riposo e il riposo nel lavoro. Non c'erano cartellini da timbrare.

Il principio del pendolo, su cui si basa l'orologio moderno, fu scoperto da Galileo nel 1583 e poi utilizzato, con alcuni accorgimenti, da Huygens che nel 1657 creò il primo orologio a bilanciere, da tasca, ad uso privato. Prima c'erano solo i grandi orologi pubblici che battevano le ore dalle torri delle cattedrali. Nel bel libro 'La Regina che faceva la colf', lei, la Regina, che fino ad allora era vissuta nel piccolo villaggio di Besoro nel sud del Ghana, quando arriva in Italia la prima cosa che la colpisce è che tutti portano un orologio al polso. Da lei quando l'ombra di un certo grande baobab cominciava a lambire le prime capanne del villaggio voleva dire che era venuta sera.

L'orologio è una metafora della Modernità. Le sue lancette scandiscono i ritmi del nostro tempo e ce ne espropriano invece di rendercene padroni. Se n'è accorta anche la Nasa.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 29 marzo 2014