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Il negazionismo è un reato che -come ogni reato di opinione- non dovrebbe esistere in democrazia. Una democrazia è tale infatti quando accetta anche le visioni che le paiono più aberranti. Questo è il prezzo che paga a se stessa. Altrimenti -sindacando su cosa si può oppure non si può dire- si trasformerebbe in una teocrazia laica.

Con il reato di negazionismo, oltretutto, si impedisce anche la ricerca storica. Lo studioso David Irving -reo di aver scritto un libro negazionista, anzi secondo me parzialmente negazionista- è stato arrestato nel 2005 in Austria e condannato a 3 anni di carcere (che poi conta relativamente se siano stati ammazzati 6 milioni di ebrei oppure 4, la gravità è nel fatto di essere uccisi in quanto ebrei, o palestinesi, o malgasci).

Invece il diritto di ricerca storica è una delle grandi conquiste dell'Illuminismo, oppure vogliamo tornare ai tempi del cardinale Bellarmino, che tappava la bocca a Galileo?

Tra l'altro già oggi il nostro codice è pieno di reati liberticidi -per esempio il vilipendio della bandiera, delle Forze armate e del capo dello Stato- che potevano pure essere compresi in periodo fascista, ma che in democrazia la contraddicono.

Per non dire poi della legge Mancino sull'istigazione all'odio razziale. L'odio è un sentimento, come la gelosia, e non può essere impedito. I peggiori regimi totalitari puniscono le azioni, le opinioni, ma non mi risulta che abbiano mai messo le manette ai sentimenti. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, me è ovvio se gli torco anche solo un capello devo finire in gattabuia. L'unico vero limite che può porre una vera democrazia è quello della violenza.

Si sostiene che la legge sul negazionismo colpisca «atti lesivi della dignità umana». Io dico che o i principi vengono sostenuti integralmente oppure, anche con una sottilissima deroga e con le migliori intenzioni, si apre una breccia in cui sai dove cominci ma non dove vai a finire. Se quello è un «atto lesivo», allora non si potrà dire più nulla.

Tra l'altro il grande movimento di «opinione» a favore di una legge sul negazionismo e la tambureggiante campagna sulla Shoah, che dura da decenni, hanno finito sicuramente per rafforzare l'antisemitismo. E, al riguardo, lo storico americano ebreo Norman Gary Finkelstein ha scritto -con molto coraggio- L'industria dell'Olocausto.

Dobbiamo accettare anche la parola che ci fa orrore. La democrazia deve essere tollerante, e la tolleranza della democrazia non deve essere scambiata per debolezza. E' anzi la sua forza. Se una democrazia ritiene di avere valori così superiori tali da imporre veti alle opinioni, allora non è democrazia ma totalitarismo mascherato. Perché ha tanto indignato l'attacco a Charlie Hebdo? Perché è stato un attacco violento e intollerante contro un'opinione seppure per molti repellente. Vogliamo metterci sullo stesso piano?

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2015

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In Italia nel 2014 sono nati 509 mila bambini, cinquemila in meno dell’anno precedente, confermando una tendenza che è in atto da tempo, tant’è che si tratta del più basso tasso di natalità dall’Unità. Ciò pone ovviamente dei problemi economici. Come farà un nucleo esiguo di giovani a mantenere una pletora di anziani, per la maggioranza disabili o comunque rincoglioniti? E che futuro aspetta questi giovani una volta che saranno diventati a loro volta anziani? E che vitalità ci si può aspettare da un Paese composto per lo più da vecchi? In Tunisia dove l’età media è di 32,5 anni ci hanno messo due giorni di rivolta, violenta ma non armata, per rovesciare il dittatore Ben Alì. Da noi l’età media è di 42,5 e non riusciremmo a scalzare non dico il finto giovane Matteo Renzi, ma nemmeno la Serracchiani.

Il problema della denatalità è comune a quasi tutti i paesi occidentali ma il fatto è che noi siamo al penultimo posto, nel mondo, in questa particolare classifica. E, a mio avviso, il dato più sinistro è che anche gli immigrati, che nei paesi d’origine figliano come conigli, una volta arrivati in Italia si fermano. C’è qualcosa di ammalato e di ammalante nella nostra società. La Scienza tecnologicamente applicata (il più grave pericolo per il mondo occidentale, altro che Isis) ha convinto le nostre donne che si possono avere figli a qualsiasi età. Ma non è così. La Natura, imparziale, in queste cose è spietata. Conosco molte donne sulla quarantina, che si pensano ancora come ragazze, e che dopo aver sacrificato una parte importante della loro esistenza a una qualche carriera, adesso vorrebbero avere dei figli. Ma i figli non vengono quando ti pare e piace. A parte che ci vorrebbe un partner, cosa diventata, lo ammetto, trascurabile, la Natura, in questo campo, come in tutti gli altri, non fa molti sconti. Ed ecco allora gli affannosi ‘viaggi della speranza’ a Barcellona per procurarsi qualche fecondazione artificiale. E anche i ragazzi sono troppo timorosi. Prima di avere un figlio pretendono che gli sia assicurata la palestra, il tennis, corsi di qualsiasi tipo. Ci vorrebbe un po' più di spavalderia. I figli bisognerebbe averli da giovani, proprio per quella sacrosanta incoscienza che solo la gioventù può dare e che ci rende meno affannosi nei loro confronti e che, nel contempo, li libera dalle nostre eccessive attenzioni. Nel rapporto padre-figlio maschio l’educazione passa soprattutto per il gioco, il gioco sportivo, atletico. Tu devi essere in grado di giocare a calcio con lui, a tennis, a sfidarlo in lunghe gite in bici. Altrimenti diventi un nonno. E ci si mette pochissimo perché il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre vite, vola, come dice il proverbio. Proprio l’altro giorno parlavo con un giovane di 36 anni che mi è caro (detesto la compagnia dei miei coetanei, in questo sono infantilmente berlusconiano) che mi raccontava che una sua fidanzata gli aveva regalato un viaggio a Zanzibar. Poiché a me nessuna ragazza a mai regalato un viaggio nemmeno a Sesto San Giovanni, gli ho detto: “Beh, spero sia la volta buona”. “Sto valutando” ha risposto lui. “Valuta di meno, che il tempo corre molto più veloce di quanto noi crediamo”.

Qualche tempo fa parlavo con una bella donna di 47 anni. Le ho chiesto se aveva figli. Invece di fare la solita manfrina (“Non li ho voluti”, “Metterli al mondo in questa società è solo un atto di egoismo”, eccetera) mi ha risposto di no e che la cosa le dispiaceva moltissimo. “Ho avuto un fidanzato per quattro anni. Siccome sono molto accuditiva e gli facevo dei mangiarini squisiti, lui era contento. Però sono convinta che se avessimo mangiato di meno e scopato di più, sarebbe andata meglio”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2015

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Che l’insidiosissima situazione che si è creata in Libia sia il risultato dell’aggressione che alcuni paesi europei (gli Stati Uniti, in quel caso, mantennero una posizione più defilata) fecero al regime di Gheddafi, è oggi opinione comune (quando, nel 2011, scrivevo che quell’operazione era dissennata mi si bollava, al solito, come ‘antioccidentale’). Il principale responsabile è certamente Nicolas Sarkozy che agì per questioni elettorali interne e per interessi economici. Ma a quell’operazione sciagurata abbiamo partecipato anche noi all’epoca in cui presidente del Consiglio era Berlusconi. Vittorio Feltri scrive sul Giornale (16,2) che il Cavaliere nicchiava, che si sarebbe volentieri sottratto, ma fu costretto a parteciparvi da Napolitano oltre che dalle insistenze della Francia e della Gran Bretagna. E’ probabile. Con Gheddafi Berlusconi aveva un feeling particolare (“Sono fatti per intendersi” disse un manager tunisino amico di entrambi) come dimostrò la plateale e imbarazzante accoglienza che riservò al dittatore libico, quando venne a Roma (è per questo che Sergio Romano scrisse che “la diplomazia si fa con i modi di Andreotti e non con quelli di Berlusconi”). Però, Napolitano o meno, il premier era lui e avrebbe potuto, e dovuto, dissociarsi da quell’impresa che, fra le altre cose, ledeva gli interessi economici dell’Italia. Come fece la Grecia nel 1999 quando, pur membro dell’Alleanza Atlantica, si rifiutò di partecipare all’aggressione della Nato alla Serbia, altra operazione disastrosa perché oggi nei Balcani al posto di un’ipotetica ‘Grande Serbia’, cristiana, c’è una concretissima ‘Grande Albania’, musulmana, e in Kosovo, in Bosnia, e nella stessa Albania proliferano cellule jihadiste a due passi da noi.

Non è però tempo di recriminazioni. Ma di ricompattare un’unità nazionale che abbiamo perduto da tempo immiserendoci in beghe meschine. Il pericolo esiste. Non perché l’Isis possa piantare la sua bandiera nera in Roma. In questo caso c’è il mare, che ci dà tante preoccupazioni per le migrazioni, a difenderci. Anche se, dal punto di vista simbolico, non è rassicurante che una motovedetta italiana si sia calata le braghe di fronte a degli uomini armati che probabilmente non erano nemmeno Isis, ma predoni. In questi casi si spara e si uccide, accettando l’inevitabile rischio di essere uccisi (penso che se ci fosse una contiguità territoriale, infiacchiti e indeboliti, come siamo, dal benessere, basterebbero duemila guerriglieri di Al Baghdadi per conquistare il nostro ‘Palazzo d’Inverno’). La forza dell’Isis non sta nell’indubbia valentia dei suoi guerriglieri, sta nella sua ideologia che come un’epidemia sta attaccando anche luoghi estranei allo stretto Medio Oriente, dalla Nigeria (Boko Haram), agli Shebab somali, a enclave egiziane. Finché questo jihadismo resta nei propri territori dobbiamo lasciarlo essere, senza pretese moralistiche. Vinca il migliore, cioè chi ha un autentico appoggio della popolazione. Se ci attaccano la prospettiva cambia radicalmente. Non credo che il pericolo venga dai migranti. L’Isis non ha interesse a sacrificare i suoi uomini nei barconi periclitanti. Possono venire in Europa con regolari passaporti o essere già in loco. In questo caso, noi europei, noi italiani, che abbiamo attaccato sconsideratamente per più di un decennio Paesi musulmani che non costituivano alcun pericolo per i nostri territori (basti pensare all’Afghanistan del Mullah Omar, all’Iraq di Saddam, alla stessa Libia di Gheddafi) abbiamo il sacrosanto diritto non solo di difenderci ma, per una volta, anche di attaccarli legittimamente in casa loro. E noi italiani senza aspettare inutili coperture Onu. ‘A la guerre comme à la guerre’. Augurandoci che dopo i primi dieci soldati morti non ci si faccia fermare dai piagnistei delle mamme italiane.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 20 febbraio 2015