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Nel serial documentaristico Gli anni spezzati (gli anni di piombo) Rai Uno si è anche occupata dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio del 1972. Quella mattina mentre il commissario usciva di casa, in via Cherubini 6, e stava per salire sulla sua 500, fu avvicinato alle spalle da un uomo che sparo' due colpi di pistola, uno alla nuca, l'altro alla schiena, poi risali' su una 125 blu guidata da un complice e spari' nel traffico.

E' curioso che in questo documentario, nel complesso abbastanza sgangherato non si facciano mai i nomi degli assassini (se non nei titoli di coda): Adriano Sofri, il leader carismatico di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani, il suo braccio destro, condannati a 22 anni di carcere come mandanti, di Ovidio Bompressi e Leonardo Marino esecutori materiali del delitto (il primo sparo', il secondo guidava la 125 blu). Come se si volesse rimuovere dalla memoria dell'opinione pubblica non solo i responsabili di quel delitto ma anche l'ambiente in cui maturo'. E' strabiliante che si tenti questa obliterazione mentre, pur essendo quei fatti assai lontani, molti testimoni del tempo sono ancora vivi.

Io sono fra questi. Nel 1972 facevo il cronista all'Avanti! e abitavo in via Verga a non più di duecento metri da via Cherubini. Fui uno dei primi ad arrivare sul luogo del delitto. Il corpo di Calabresi era già stato portato via, ma sull'asfalto c'erano ancora pozze di sangue mentre qualcuno stava spazzando via, mischiandoli a della segatura e buttandoli in una di quelle palette che servono per sbarazzarsi della spazzatura, brandelli di cervello.

Lotta Continua e il suo settimanale, di cui erano o erano stati o sarebbero stati direttori-prestanome intellettuali di più o meno chiara fama, da Piergiorgio Bellocchio a Pio Baldelli, Pasolini, Adele Cambria, Pannella, Giampiero Mughini, aveva condotto una feroce campagna contro il commissario Calabresi accusandolo di essere il responsabile della morte dell'anarchico Pino Pinelli 'caduto' nella notte fra il 15 e il 16 dicembre dal quarto piano della Questura di Milano dopo tre giorni di interrogatori in seguito alla strage di Piazza Fontana avvenuta pochi giorni prima (12 dicembre).

Conoscevo bene gli ambienti anarchici. Nel 1962 quando facevo la prima liceo al Berchet, un gruppo di giovanissimi anarchici aveva rapito a Milano il viceconsole spagnolo (a cui peraltro non verrà torto un capello) per cercare di impedire la condanna a morte di un antifranchista, Conill Valls. Alcuni di quel gruppo venivano dal Berchet, ne erano usciti da pochissimo. Altri giovani anarchici, Tito Pulsinelli, Joe Fallisi, Della Savia li avevo conosciuti in seguito in uno dei bar di Brera, frequentato anche da Calabresi, poliziotto moderno, abile e accattivante, che girava in maglione, avevo incontrato anche Pino Pinelli, più anziano degli altri, sulla quarantina, che faceva il ferroviere. Pinelli era il classico anarchico d'antan, lo era culturalmente e sentimentalmente, ma come uomo era mitissimo, uno che non avrebbe fatto del male a una mosca. Che si fosse gettato dal quarto piano gridando «E' la fine dell'anarchia!» andandosi a spiaccicare nel cortile della Questura, che era la versione della polizia, pareva a tutti inverosimile. Da qui la campagna contro Calabresi (che verrà poi assolto da ogni addebito perchè al momento del 'volo' di Pinelli non era nella stanza, c'erano altri poliziotti) condotta da Lc ma anche, sia pur con toni meno accesi, dall'Espresso e dall'Avanti!.

Le indagini invece di puntare su Lotta Continua, il cui giornale nel titolo e nell'editoriale di Sofri aveva sostanzialmente plaudito all'omicidio (c'era stata anche una riunione del Direttivo di Lc in cui si era discusso se attribuirsene anche materialmente la paternità) si diressero a destra. Perchè in quegli anni postsessantottini in cui quasi tutti i giornali e i giornalisti se la davano da 'rivoluzionari' era un delitto di lesa maestà indagare a sinistra, anche se la stella a cinque punte delle Br aveva già cominciato a brillare. Mi ricordo il tempo che si perse a seguire le piste di un giovane estremista di destra, Gianni Nardi, figlio di una facoltosa famiglia di San Benedetto del Tronto. Passarono cosi' inutilmente gli anni e alla fine l'omicidio Calabresi fu archiviato fra i tanti casi irrisolti della recente, e torbida, storia italiana.

Sedici anni dopo, nel 1988, Leonardo Marino, un ex operaio della Fiat, ex militante di base di Lc, che vendeva frittelle in un baracchino ambulante di Bocca di Magra, mentre molti suoi compagni di origine borghese, Sofri compreso, si erano ben sistemati nei giornali, nell'editoria, nella politica e, più in generale, nell''intellighentia', si autodenuncio' per l'omicidio Calabresi: lui e Ovidio Bompressi erano stati gli esecutori materiali, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani i mandanti. Marino non era un 'pentito', diciamo cosi', classico, non era in prigione, non era indagato, nessuno lo cercava, viveva tranquillo a Bocca di Magra, non aveva nessun interesse a confessare un omicidio che gli sarebbe costato undici anni di galera (anche se poi, grazie proprio alla capacità degli altri imputati a portare il processo per le lunghe, la sua pena cadrà in prescrizione, ma al momento della sua confessione Marino questo non poteva saperlo).

Al processo, iniziato nel novembre del 1989, Sofri e gli altri si difesero malissimo. Negando anche l'evidenza. Negando che esistesse un 'secondo livello' di Lc dedito agli 'espropri proletari', cioè alle rapine. Una di quelle rapine fu compiuta con la mia macchina, una Simca coupè rossa che un mio amico, Ilio Frigerio, militante di Lc, mi aveva chiesto per uscirci, disse, con una ragazza, la sera. Me l'avrebbe riportata la mattina dopo. E in effetti la mattina la macchina, intatta, era nel mio garage. Qualche tempo dopo Ilio mi confesso' che aveva dato la mia macchina ad altri militanti di Lc che avevano bisogno di un'auto 'pulita' per fare una rapina. In quanto a Pietrostefani dalle sue dichiarazioni sembrava che in Lc fosse stato solo di passaggio. Mentre tutti sapevano che se Sofri era l'ideologo Pietrostefani era il capo dell'organizzazione. «Chiedilo a Pietro» dicevano i militanti di Lc quando c'era un problema di questo genere da risolvere.

Durante i vari processi che si conclusero nel 1997 con una condanna definitiva della Cassazione, e anche dopo, venne fuori tutto il ripugnante classismo dell'entourage degli ex Lotta Continua (Roberto Briglia, Gad Lerner, Luigi Manconi, Marco Boato, Paolo Zaccagnini, Enrico Deaglio, Guido Viale): la testimonianza di Leonardo Marino non valeva niente, perchè era un venditore di frittelle, un ex operaio, un plebeo, niente a che vedere con la raffinatissima intelligenza di Sofri. Una degna conclusione per chi era partito per buttare giù dal trespolo 'i padroni'.

Sofri ha avuto otto processi, due sentenze interlocutorie della Cassazione, una assolutoria (la cosiddetta 'sentenza suicida' perchè il dispositivo era volutamente in stridente contraddizione con la motivazione), quattro di condanna. Ha goduto anche di un processo di Revisione, a Venezia, cosa rarissima in Italia che probabilmente nemmeno Silvio Berlusconi riuscirà a ottenere. E anche il processo di Revisione ha confermato la sentenza definitiva della Cassazione del 1997. Nessun imputato in Italia ha mai avuto le garanzie di Adriano Sofri. Nonostante tutto cio' la potente lobby di Lotta Continua, divenuta trasversale e incistata in buona parte dei media, ha continuato a proclamare a gran voce la sua innocenza e a pretenderne la scarcerazione per grazia autoctona del Capo dello Stato. Nel frattempo Sofri è diventato editorialista principe del più venduto settimanale di destra, Panorama, e del più importante quotidiano della sinistra, La Repubblica. Per meriti penali, suppongo, perchè in tutta la sua vita Sofri ha scritto solo due pamphlet, mentre proprio la prigionia gli avrebbe dato la possibilità di scrivere, perchè il carcere è un posto atroce ma ha infiniti tempi morti (Caryl Chessman, 'Il bandito della luce rossa', condannato a morte per dei presunti stupri, scrisse in galera quattro libri, fra cui due capolavori: Cella 2455 braccio della morte e La legge mi vuole morto). Quando, a volte, un'università o qualche liceo mi invitano a tenere lezioni di soi-disant giornalismo e, alla fine, i ragazzi mi si affollano attorno e mi chiedono come si fa a diventare giornalista, rispondo: «Uccidete un commissario di polizia o, se non avete proprio questo stomaco, prendete tangenti come Cirino Pomicino».

Indubbiamente Adriano Sofri, da giovane, aveva un indiscutibile carisma. Anche un uomo di forte personalità come Claudio Martelli ne subiva il fascino se ha chiamato Adriano uno dei suoi figli in omaggio all'amico. Io questo fascino non l'ho mai capito. Era piccolo, mingherlino, il mento sfuggente del prete, l'aspetto molliccio per nulla virile. Ma, si sa, le vie del carisma sono misteriose.

Il giornale di Lotta Continua pubblicava le foto, i nomi, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di fascisti o presunti tali, alcuni dei quali aggrediti sotto casa, specialità della ditta, sono finiti in sedia a rotelle. Almeno questo dovrebbe far riflettere i difensori d'ufficio di Adriano Sofri.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2014

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Furio Colombo ci ha raccontato, da par suo, gli esordi della TV che si valeva, oltre a lui, di intellettuali del calibro di Eco, Soldati, Levi, Vattimo. Ma erano proprio i primi passi e non poteva essere quella, oltretutto un po' troppo intellettualoide, la miglior TV. Venne dopo.

La Dc, dopo qualche tentativo, aveva rinunciato a imporre la propria egemonia sul cinema, il teatro, le arti figurative («culturame» secondo la sprezzante definizione di Scelba) che era stata quindi assunta dal Pci (quanti Guttuso ci siamo dovuti cuccare), ma aveva puntato tutto sulla TV avendone intuito, per prima, le enormi potenzialità e ne aveva affidato la guida a un uomo geniale, Ettore Bernabei, che dal 1961 al 1974 ne fu il Direttore generale. L'idea, dirigista, di Bernabei era di 'educare' il popolo italiano, di elevarne la cultura. Poteva farlo perchè agiva in regime di monopolio e non doveva tener conto dell' 'audience'. Era lui a imporla. Il primo tentativo, riuscito, fu di unificare l'Italia dei dialetti a un buon italiano (anzi ottimo, c'erano addirittura delle venature 'puriste' in quella TV, altro che il basic english/romanesco di oggi). Ma prendiamo lo spettacolo di intrattenimento popolare per definizione: il varietà (oggi sostituito dal 'contenitore'). Sotto la gestione di Bernabei il varietà si chiamava: Un, due, tre di Tognazzi e Vianello; Il mattatore di Gassman; Alta fedeltà (testi di Chiosso e Zucconi); Studio uno di Walter Chiari (1963), Lelio Luttazzi (1964), Ornella Vanoni (1966); Il signore di mezza età a cura di Camilla Cederna, Marcello Marchesi, Gianfranco Bettetini, presentato dallo stesso Marchesi con Lina Volonghi e Sandra Mondaini; L'amico del giaguaro con Bramieri, la Del Frate e Raffaele Pisu; Scarpette rosa con Carla Fracci, Chiari e Mina; Quelli della domenica con Paolo Villaggio (testi di Marchesi e Costanzo). Erano tutti spettacoli che si sostenevano, oltre che su grandi professionisti, su un'idea e la sviluppavano. C'è anche da dire che quella TV era costretta ad attingere i propri protagonisti dalle arti e dai mestieri, cinema, teatro, balletto e persino il circo, mentre in seguito i personaggi si sarebbero creati per partenogenesi televisiva, cioè gente, come ammise Alba Parietti in un momento di sincerità, «che non sa far nulla». Poi c'era, in prima serata, lo 'sceneggiato all'italiana': Il mulino del Po di Bacchelli; I Demoni di Dostoevskij con la straordinaria interpretazione di Luigi Vannucchi nella parte del principe Stavroghin, i grandi russi insomma; La fiera delle vanità di Thackeray, insomma i classici inglesi. Bernabei si permise anche il lusso di dare alle 20 e 30 Il settimo sigillo di Bergman (che ognuno interpreto' secondo il proprio livello culturale, la mia segretaria alla Pirelli, come 'horror' e non aveva nemmeno tutti i torti). Dal 1968 al 1972 furono trasmessi, spesso in prima serata, 400 concerti di musica classica, sinfonica, operistica.

Poi vennero il 'pluralismo' dove non c'era usciere Rai che non avesse targa di partito e l'avvento delle 'commerciali'. E fu il tracollo. Anche in questo Ettore Bernabei era stato preveggente: «La televisione ha un potenziale esplosivo, superiore a quello della bomba atomica. Se non ce ne rendiamo conto rischiamo di ritrovarci in un mondo di scimmie ingovernabili». E cosi' è stato.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2014

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Tutti i giornali italiani, compresi quelli di destra da Il Giornale a Libero, si sono giustamente indignati per la caterva di volgarità, insulti, auguri di morte piovuta dal web su Pierluigi Bersani colpito l'altro giorno da una grave emorragia cerebrale. Ognuno, come ho già scritto, ha diritto di odiare chi gli pare, ma farlo quando uno è quasi «drèe a muri», come si dice a Milano, non mi pare particolarmente elegante.

I 'social network', dove chiunque, spesso anonimo o sotto falso nome, puo' esprimersi senza freni inibitori si stanno rivelando, com'era prevedibile, un boomerang inquietante perchè portando a galla l'ombra che è in ciascuno di noi (tutti siamo dei potenziali assassini) creano, per sinergia e imitazione, una reazione a catena incontrollabile che forse per il singolo puo' essere liberatoria (ma allora è inutile e grottesco punire i tifosi juventini che, nel luogo destinato per definizione allo sfogo, lo stadio, gridano «Non siamo napoletani») ma socialmente è devastante. E' l'eterna storia della Tecnologia di cui, in teoria, il singolo individuo puo' fare un uso euristico e intelligente, ma che a livello di massa è sempre stata utilizzata nel peggiore dei modi. Nel caso specifico, quello dei blog, per far esplodere dall'inconscio al conscio le proprie profonde frustrazioni.

Ma che dire invece, e allora, di Vittorio Feltri, che non è un blogger qualsiasi, ma è stato, almeno a mio parere, il miglior direttore di quotidiani e di settimanali della sua generazione ed è tuttora un giornalista di primaria importanza, che in un articolo («Cara Merkel, datti alla briscola», Il Giornale, 7/1) prende pesantemente in giro (uso volutamente questo eufemismo perchè ho la fortuna di collaborare a uno dei pochi giornali che hanno conservato senso della misura e buon gusto) la cancelliera tedesca che si è fratturata il bacino facendo sci di fondo sulle nevi svizzere? «La signora di ferro è in realtà di gomma. Nel senso che, cascando, è atterrata non con la testa, ma con il sedere, cioè la parte più tenera e voluminosa del suo corpo, un vero e proprio ammortizzatore naturale, definito volgarmente ma efficacemente culone...D'altronde è noto che nella vita un gran posteriore aiuta almeno quanto l'intelligenza». Risparmio al lettore del Gazzettino altri scampoli di questa prosa aulica. Ironia? Certo ma bisogna anche saperla fare e non c'è nulla di più triste del comico che non fa ridere.

Poichè sta parlando di tedeschi (ha tirato in ballo anche Schumacher colpevole di essersi spaccato la testa) Feltri coglie l'occasione per ironizzare sul vicecancelliere, l'Spd Sigmar Gabriel, che ha chiesto, e ottenuto, di usufruire di un giorno di permesso alla settimana per stare con la figlioletta di due anni, diritto che in Germania spetta a ogni cittadino, e la sua decisione è stata approvata dal 91% dei suoi connazionali. «Un fenomeno» scrive Feltri «che contrasta con la mitologia germanica: i tedeschi che non mollano mai, sgobbano, amano la patria sopra ogni cosa e ogni sentimento. Noi saremo mammoni, loro sono mammole. Non ci sono più i tedeschi di una volta». Forse li preferiva quando erano nazisti. A Feltri probabilmente sfugge, a meno naturalmente che non si tratti di Berlusconi, che gli uomini politici hanno più doveri ma anche pari diritti degli altri cittadini, e soprattutto che se la stragrande maggioranza è d'accordo col ministro Gabriel è perchè i tedeschi si fidano dei propri dirigenti, Spd o Cdu che siano, sapendo che, in linea di massima, «sgobbano» sul serio per l'interesse e il bene del loro Paese. Cosa che, viste anche le baruffe chiozzotte di queste ultime settimane per conquistarsi una microfettina di potere, per non parlare del resto, non si puo' dire dei nostri.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 10 gennaio 2014