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A noi servirebbe una crisi molto più profonda di quella che stiamo attraversando. Una guerra, meglio ancora. Ma noi occidentali le guerre le facciamo agli altri, non le subiamo più. In Afghanistan ci sono più di tremila soldati italiani, ma la cosa non tocca la nostra vita quotidiana. Viviamo nelle retrovie. Piuttosto comodamente, tutto sommato. Eppure in giro è tutta una lagna. Le famiglie che non arrivano alla fine del mese. I giovani che non trovano lavoro. Ma nessuno è mai morto, in Italia, perchè non ha trovato lavoro. Caso mai è vero il contrario. I giornali sono zeppi di notizie economiche, di Ftsi, di spread, di Fed, di Eurostock, di imprese che chiudono. Ma l'economia non è tutto nella vita dell'uomo e di una comunità. “Non si vive di solo pane” ha detto qualcuno, che non è stato l'ultimo della pista, in un'epoca in cui il pane non abbondava. La verità è che il benessere ci ha fatto male. Abbiamo perso ogni capacità di soffrire, dimenticando che la privazione è pedagogica e che, come scive Nietzsche, “ogni malattia che non uccide il malato è feconda”. Perchè ci aiuta a riscoprire, o a scoprire, l'autentica gerarchia dei valori, a distinguere fra cio' che è essenziale e quello che non lo è. Durante una guerra un amore va fino in fondo a se stesso, fa piazza pulita delle stronzate, non ci si logora perchè uno schiaccia il tubetto del dentifricio dalla testa e l'altra dalla coda. Durante una guerra depressione e nevrosi, malattie della Modernità, crollano quasi a zero. Nel dopoguerra noi italiani, sconfitti, eravamo infinitamente più poveri di quanto lo si sia ora anche negli strati più bassi della popolazione. Ma eravamo anche infinitamente più sereni e più allegri. Dopo essere scampati ai bombardamenti angloamericani e ai rastrellamenti tedeschi ci bastava d'esser vivi, di gustare l'inestimabile piacere di sentirsi vivi. Tutti fumavano. I film erano pieni di attori con la sigaretta perennemente in bocca (Casablanca e Humphrey Bogart valgano per tutti). Non era ancora nato il terrorismo diagnostico, il terrorismo della medicina preventiva. Si viveva nel presente, non nel sempre imperscrutabile futuro. “I nostri ragazzi non hanno futuro”. Non si è mai sentita sciocchezza più grossa. Un ragazzo di vent'anni ha comunque più futuro di un uomo di settanta pieno di quattrini. Ci siamo inventati diritti inesistenti: al lavoro, alla salute e persino alla felicità com'è scritto nella Dichiarazione d'indipendenza di quegli eterni e pericolosi fanciulloni che sono gli americani (per la verità in quella Dichiarazione è affermato un meno irragionavole 'diritto alla ricerca della felicità' che pero' l'edonismo straccione contemporaneo ha introiettato come un vero e proprio diritto alla felicità). Diritti di tal genere non esistono perchè nessuno, foss'anche Domineddio, puo' garantirli. Esiste, quando c'è, la salute, non un suo diritto. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità, non il suo diritto. In quanto al lavoro: o c'è o non c'è. E sarebbe più saggio affermare se non il diritto almeno la legittimità a battere la fiacca e a oziare. Invece siamo qui tutti, Stati, popoli e individui a sbranarci per 'competere' economicamente, a cio' indotti da un modello demenziale, per poi renderci conto, alla fine dell'esistenza, che abbiamo vissuto per il niente. Ecco perchè credo che, in mancanza di una guerra, una crisi economica vera non potrebbe farci che bene.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2013

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Sono stato alla festa nazionale di CasaPound che si è tenuta nei giorni scorsi a Revine Lago, per presentare il mio libro 'La guerra democratica', un po' datato ma, vedi Siria, ancora drammaticamente attuale. Per la verità avevo voglia di declinare l'invito dei ragazzi di CasaPound, non per motivi ideologici ma perchè farsi da Milano, anda e rianda, 700 chilometri era un po' faticoso. Ma sono stato costretto a cambiare idea quando ho saputo che l'Anpi e il Pd locali si erano rivolti al prefetto e addirittura al ministro degli Interni perchè vietassero la manifestazione:”E' grave che a un movimento di chiara ispirazione neofascista, portatore di messaggi razzisti e xenofobi, sia consentito di poter diffondere l'ideologia fascista in violazione della Costituzione” aveva scritto Simonetta Rubinato nell'interrogazione ad Alfano. Ci sono andato quindi per difendere un principio.

Premettiamo che CasaPound si è presentata alle recenti elezioni politiche e quindi ha, evidentemente, le carte in regola anche rispetto alla legge Scelba che vieta la ricostituzione del Partito fascista, legge che comunque io considero liberticida e pericolosa cosi' come la considerava Togliatti, che ne fu un tenace oppositore perchè, avendo un po' più di acume politico dei Pd veneti, capiva benissimo che si comincia col vietare la costituzione del Partito fascista e si finisce col vietare quella del Partito comunista (come avviene oggi in alcuni Paesi ex comunisti dell'Est europeo). Premettiamo che alla festa di CasaPound aveva aderito Giulio Giorello che oltre ad essere uno dei più colti intellettuali italiani è un liberale a 24 carati e che per quel che mi riguarda ho accettato inviti di Rifondazione e di tanti comuni amministrati dalla sinistra. Premettiamo che ero già stato due volte a CasaPound, nella loro sede romana, e non vi avevo notato nulla di truce ma ragazzi piuttosto simpatici, impegnati nel sociale, con idee certamente diverse dalle mie ma che avevano il pieno diritto di esprimere e di cercare di diffondere. E qui sta il nocciolo della questione. In una democrazia che sia veramente tale tutte le idee, anche quelle che ci paiono più aberranti, hanno diritto di cittadinanza purchè, giuste o sbagliate che siano, rinuncino a farsi valere con la violenza. Questo è il prezzo che una democrazia paga a se stessa, altrimenti si trasforma in qualcosa di diverso, in una sorta di teocrazia laica. Al Parlamento di Teheran, all'epoca di Khomeini, ho assistito a dibattiti accesissimi fra le diverse fazioni, ma dovevano sempre rimanere all'interno dell'ideologia islamica. Lo stesso accadrebbe se in una democrazia si pretendesse che tutte le idee devono stare all'interno dell'ideologia democratica. Invece una democrazia deve accettare anche idee non democratiche o antidemocratiche.

A Revine un cronista, intervistandomi, mi ha fatto notare che alla festa di CasaPound erano presenti anche alcuni pregiudicati (condannati, presumo, per 'apologia del fascismo', un reato liberticida, degno di un codice fascista, che in democrazia non dovrebbe esistere). Ho risposto, ridendo, che se si seguisse questa linea non si dovrebbe partecipare ai comizi di Silvio Berlusconi.

Non c'è niente da fare, gli italiani, faziosi di natura, non hanno ancora capito che l'antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma il contrario del fascismo. E cosi' a quasi settant'anni dalla fine della guerra siamo ancora coinvolti in polemiche catacombali. E aveva proprio ragione Mino Maccari quando diceva: ”I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti”.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 20 settembre 2013

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Torino-Milan, sabato. Il Toro a una manciata di secondi dalla fine sta vincendo 2-1. Uno dei giocatori granata, Larrondo, è a terra da qualche minuto, infortunato. I tecnici del Torino hanno già chiesto l'interruzione del gioco per soccorrere il giocatore (che poi uscirà in barella) e sostituirlo, ma l'arbitro ha fatto continuare perchè col Milan tutto all'attacco l'azione è viva. Non lo è più quando la palla finisce in fallo laterale. A questo punto una delle regole morali del calcio vorrebbe che i giocatori rossoneri si fermassero per permettere soccorso e sostituzione. Invece rimettono rapidamente la palla in gioco e dall'azione nascerà il rigore che porterà il Milan al pareggio.

Atalanta-Milan, Coppa Italia 89-90. Il centravanti del Milan, Borgonovo, è a terra, infortunato, nell'area di rigore bergamasca. Stromberg, che è in possesso della palla, la mette fuori per permettere i soccorsi al giocatore milanista. La mette fuori all'altezza dell'area di rigore dell'Atalanta, non la calcia lontano. Stromberg è svedese, è un giocatore estremamente corretto ed è certo che, come vuole un'altra regola morale del calcio, i milanisti restituiranno il pallone agli avversari. Ma non andrà cosi'. Rijkaard invece che a un giocatore atalantino, la passa a Massaro che la butta al centro dell'area, se ne impadronisce Borgonovo, rialzatosi, che viene atterrato. Rigore. Sul dischetto va Baresi, capitano e bandiera del Milan. C'è tutto il tempo e il modo per rimediare alla grave scorrettezza dei rossoneri sbagliando apposta il rigore. Ma dalla panchina arriva l'ordine di Sacchi. Barresi segna fra gli ululati del pubblico atalantino. Grazie a quel gol il Milan passerà alle semifinali.

Verona-Milan, ultima di campionato. Il Milan perde la partita e l'ultima speranza di aggiudicarsi lo scudetto. Allora si vedono i giocatori rossoneri, compreso l'algido Van Basten, che invece di accettare sportivamente la sconfitta, si tolgono le maglie, le buttano a terra, le calpestano, si abbandonano a scene isteriche e penose.

1991, quarti di finale di Coppa dei Campioni Olimpique Marsiglia-Milan. Il Milan aveva vinto la Coppa nei due anni precedenti, avrebbe potuto accettare con una certa serenità la sconfitta che si stava profilando (gol di Waddle). Non si puo' vincere sempre. A cinque minuti dalla fine si spegne uno dei quattro riflettori dello stadio. Il nobile Maldini, il nobile Baresi e altri giocatori circondano l'arbitro: con ampi gesti indicano il riflettore spento, c'è troppo buio, non si puo' giocare, la partita va ripetuta (si vedevano perfino le monetine che i tifosi del Marsiglia stavano gettando sul campo per irridere a quella vergognosa sceneggiata). L'arbitro, ovviamente, non gli dà retta. Allora Galliani, in collegamento con Berlusconi, ordina il ritiro della squadra. Una cosa inaudita, grottesca, che non si è mai vista nemmeno nei più scalcinati campetti dei campionati minori Figc. Il Milan si beccherà una squalifica di un anno.

Questa incapacità di accettare la sconfitta, di cercare di evitarla anche ricorrendo ai mezzi più sleali, è un riflesso del mondo morale di Berlusconi, di cui abbiamo poi avuto ampia testimonianza nella sua attività politica (“Bastava il Milan per capirlo” scrissi per l'Europeo nel gennaio 1995).

Il calcio, si sa, è una metafora della vita. Nel mondo morale di Berlusconi c'è anche che col denaro si puo' comprare tutto: guardie di Finanza, testimoni, giudici. E anche di questo la storia del 'suo' Milan è stata testimonianza. Quando aveva già i tre olandesi e sapeva di non poterlo far giocare acquisto' Savicevic, allora uno dei migliori giocatori del mondo, solo per toglierlo alle altre squadre. Con lo stesso scopo acquistava giocatori importanti senza farli giocare. Il nazionale De Napoli, in due anni, vide il campo, in tutto, per sette minuti. Ma il caso più emblematico è quello di Gigi Lentini. Nel 1992 Lentini, talentuoso ragazzo del vivaio granata, aveva portato il Torino al terzo posto in Campionato. Ma Berlusconi lo voleva a tutti i costi. Gli fece offerte sempre crescenti che Lentini rifiuto': nel Torino era entrato a otto anni, dal Torino aveva avuto la fama, alla gloriosa e sfortunata società granata era legato da fortissimi vincoli affettivi, il denaro non era tutto. Ma Berlusconi porto' l'offerta, fra ingaggio e acquisto del cartellino, alla sbalorditiva cifra di 64 miliardi e il ragazzo, figlio di una famiglia di operai delle Banchigliette, cedette. C'è chi dice che i miliardi siano stati 'solo' trenta ma ha poca importanza. Berlusconi non aveva comprato le gambe di Lentini, che non potevano valere nè 60 nè 30 miliardi, gli aveva comprato l'anima dimostrandogli (a lui e al vasto mondo giovanile che ruota intorno al calcio) che i suoi ingenui sentimenti di ragazzo non valevano nulla di fronte al potere del denaro. Naturalmente la cosa ando' a finir male. Lentini, frastornato nel nuovo ambiente, ebbe uno stupido incidente automobilistico, calcisticamente si rovino', non servi' al Milan né il Milan a lui. E questo mi ricorda una malinconica canzone di De Andrè, 'Il Re fa rullare i tamburi'. Luigi XIV, “in cerca di nuovi e freschi amori”, mette gli occhi sulla sposa di un suo generale. Lo corrompe promettendogli di farlo maresciallo di Francia. “Ma la Regina ha raccolto dei fiori, celando la sua offesa, e il profumo di quei fiori ha ucciso la marchesa”. E in questa favola gotica, in questa violenza e prepotenza puramente distruttrici, a perdere, si riassume l'influenza nefasta che Silvio Berlusconi ha avuto nella vita del nostro Paese.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2013