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Robert Habeck, leader dei Verdi tedeschi, ha deciso di non utilizzare più né Twitter né Facebook: “Twitter mi disorienta e mi rende poco concentrato. Mi fa scattare qualcosa, sono più aggressivo, polemico, stridulo ed estremo, il tutto con una velocità che non lascia spazio alla riflessione”. Come ogni cosa buona questa decisione ha subito suscitato polemiche. Il segretario della Spd, Kingbeil, ha affermato: “Il posto dei politici è dove c’è il dibattito”. Altri hanno aggiunto che un politico deve stare al passo con i tempi anche nell’uso degli strumenti di comunicazione altrimenti finisce fuoricorso. Non mi pare che le cose stiano così. E proprio la Germania ne è un esempio. Sfido chiunque a trovare un solo tweet di Angela Merkel che pur ha governato la Repubblica federale per tredici anni con un consenso amplissimo. Merkel si è sempre espressa per note ufficiali o sue o del governo o dei suoi ministri. Al più ha concesso qualche intervista (ci mancherà Angela, con la sua visione politica ampia, il suo stile, portando anche, a differenza di Albright e Condoleezza Rice, un tocco di garbata femminilità in ruoli tradizionalmente maschili).

Da noi invece l’uso di Twitter e in generale dei social da parte dei rappresentanti politici, anche con importanti incarichi di governo, impazza. L’apristrada è stato Renzi. Dice: è giovane. Sì, ma non è che se un uomo politico è giovane deve comportarsi esattamente come i suoi coetanei e magari ciucciare il biberon. L’esempio di Renzi è stato seguito da tutti i suoi successori, con maggior o minor pudicizia a seconda delle rispettive personalità. Attualmente il più assatanato fra gli uomini di governo è Salvini, seguito affannosamente da Di Maio, che sempre gli arranca dietro, e più moderatamente da Conte. Il che crea pasticci inenarrabili soprattutto con un governo che è uno e trino. Esemplare è stato il caso della Sea Watch e della Sea Eye, con i suoi 49 migranti a bordo, che veleggiavano al largo di Malta in attesa di un ‘porto sicuro’. Salvini fa sapere via Twitter che non ne accoglierà alcuno. Fa seguire questa twittata da una miriade di interviste. E anche questa ideolipsìa - poiché la Treccani afferma che siamo in epoca di neologismi ne creiamo uno, modesto, anche noi- per le interviste spalmate giorno e notte sulla trentina di talk show in circolazione non è un buon uso della democrazia. Tu non puoi venire a sapere di una importante decisione politica da Maria Latella o dall’Annunziata. Nel frattempo Di Maio, twittante e intervistato, si dichiarava disposto ad accogliere le donne e i bambini, Conte ad andarli a prendere personalmente con un aereo (I bambini li capisco, ma perché le donne? Se son pari siano pari anche nei rischi e la classica frase, durante un naufragio, “prima le donne e i bambini” non vale più). Insomma per giorni non si è saputo, né in Italia né all’estero, quale fosse la reale posizione del governo italiano. La situazione alla fine l'ha risolta Bruxelles, la disprezzatissima Bruxelles, impegnando otto Paesi, fra cui l’Italia, con un Conte rientrato nei suoi panni, ad accogliere, pro quota (per l’Italia 15 o 25, non si sa) non solo i 49 migranti delle due Ong ma anche altri sbarcati nei giorni precedenti a Malta.

Ma lasciando perdere per il momento il caso della Sea Watch e della Sea Eye, definito “vergognoso” dall’Avvenire, questo continuo e permanente twitteraggio, condito da una infinità di interviste, finisce per disorientare i cittadini. Un provvedimento è stato solo annunciato o è in corso di elaborazione o è stato approvato? Le cose in democrazia dovrebbero andare in tutt’altro modo. Dovrebbero andare come andavano anche da noi in un tempo poi non tanto lontano: il Consiglio dei ministri propone una legge, in casi urgenti emana un decreto, se il Parlamento approva, il testo viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e diventa legge dello Stato. Così ci eravamo abituati, noi pleistocenici. Male, evidentemente.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2019

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A me va bene tutto. Mi sarebbe piaciuto però che nelle recenti rievocazioni delle censure perpetrate in Rai durante il ventennio berlusconiano, innescate dalla speranza che i 5Stelle riescano a spazzar via il regime partitocratico e familista che regna nella Tv pubblica dalla fine dell’epoca Bernabei, un cenno, almeno di sfuggita, fosse stato dedicato a quella che ho subìto io. Va da sé che le emarginazioni di Luttazzi, di Freccero, di Biagi e di altri protagonisti dello star system televisivo, sono molto più importanti per la notorietà di quei personaggi, ma la mia, dal punto di vista qualitativo, è la più grave. Perché non è stata una censura a un programma, ai suoi contenuti, ma a una persona in quanto tale, a prescindere. Una censura ‘antropologica’. Tanto che nel loro Regime Gomez e Travaglio le dedicarono il primo capitolo intitolato, appunto, “Massimo Fini, censura antropologica”. Cercherò qui di raccontare quegli antichi fatti, che hanno anche dei risvolti esilaranti.

Siamo agli inizi dell’autunno 2003. Un regista e produttore, Eduardo Fiorillo, direttore di una notevole struttura musicale, Match Music, propone al direttore di Rai Due, Antonio Marano, in quota Lega, un programma di costume che intende intitolare Cyrano, inspirato più a quello di Guccini che a Rostand. Conduttrice sarà Francesca Roveda, a me spetterà di cucire il filo fra i vari spezzoni del programma. Marano accetta: Cyrano andrà in onda in terza serata. Facciamo le prove negli studi Rai di corso Sempione a Milano. La prima puntata è pronta, ma deve essere ancora montata. Non è presente nessun dirigente o funzionario Rai. Insomma nessuno l’ha vista, tranne noi. In serata Fiorillo riceve una telefonata di Marano, da Roma. “Ci sono dei problemi” dice. “Sul programma?” chiede Fiorillo. “No, su un nome. Quello di Massimo Fini. Devi toglierlo di mezzo”. Fiorillo è basito. Conosce il mondo, anche nei suoi lati pericolosi e borderline, ma a violenze di questo tipo non è abituato. In fondo si è sempre occupato di musica. Comunque si rifiuta: “No, io una cosa del genere non mi sento di farla. Oltretutto il programma è centrato proprio su Fini”. Marano propone un incontro chiarificatore a tre (lui, Fiorillo ed io) per il lunedì pomeriggio, il giorno prima che il programma, ampiamente pubblicizzato dalla stessa Rai e anche dai giornali, incuriositi, vada in onda. In fondo la cosa dispiace anche a lui. In epoca di ‘reality show’ dar una patina un po’ più culturale alla sua Rete gli conviene. Nessuno dei due, né Fiorillo né Marano, si è reso conto di aver messo il piede su una merda. Io e Fiorillo decidiamo di portarci dietro un registratore, di nascosto. Non si sa mai. Marano, nella sua parte di Don Abbondio, è a suo modo onesto: “A questo punto la puntata l’ho vista. Potrei dirle che non funziona, che lei non ‘buca il video’. Ma non me la sento. Perché non è così. E’ che su di lei c’è un veto politico aziendale”. E mi propone di sparire dal video e di retrocedere ad autore. A parte che io non sono affatto autore del Cyrano, che è opera di Fiorillo, ritengo la proposta inammissibile e la rifiuto. “Non so se vi rendete conto della violenza che mi state usando. Perché mi avete avvicinato voi, mi avete contrattualizzato. Erano quindici puntate, ho dovuto modificare i miei programmi, per esempio lasciare quella poca roba che avevo su Odeon tv con Funari e cancellare un calendario di presentazioni di un mio libro Il vizio oscuro dell’Occidente. E adesso mi si dice: no, tu non puoi lavorare. Cioè, io non posso lavorare in questo Paese?”. Marano, quasi scandalizzato, farfuglia che non è così. “Diciamo allora che ci sono lavori che io non posso fare”. Marano: “Ecco, questo è più preciso”. “Va bene, dunque ci sono dei lavori che io non posso fare. Anche nel ’38 c’erano lavori che gli ebrei non potevano fare. Mi metterò una stella gialla sul petto”.  

Il programma andrà in onda con una settimana di ritardo e con un nuovo titolo, Borderline, senza di me. La vicenda suscita un po’ di scalpore, non tanto, il ‘minimo sindacale’.

La questione finisce davanti alla Commissione parlamentare di Vigilanza Rai presieduta dal diessino Claudio Petruccioli. E Petruccioli compie un autentico capolavoro: si fa inviare da me la cassetta con la registrazione, ne dà notizia in Commissione ma non la fa ascoltare. I consiglieri leghisti (Davide Caparini), gli ex missini ora An (Alessio Butti) e il forzista Giorgio Lainati, si scatenano subito contro di me: vogliono che sia denunciato alla Magistratura per violazione della privacy e radiato dall’Ordine. Da vittima divento il colpevole. Cornuto e mazziato (E pensare che ero stato uno dei pochissimi intellettuali italiani a difendere la prima Lega di Bossi quando era trattata peggio delle Br, un po’ come oggi i ‘populisti’ grillini, e l’unico, insieme a Mughini, a difendere il diritto di cittadinanza politica dei missini contro la truffa dell’ ‘arco costituzionale’). Un altro exploit lo fece Marcello Veneziani, uno dei leader di quella ‘nuova destra’ che pure, a suo tempo, avevo difeso, che scrisse sul Giornale: “Visto che Fini è tanto bravo e così necessario al video come mai la Rai dell’Ulivo non aveva pensato a offrirgli un programma?”. Insomma in Rai non potevo lavorare né se comandava la destra né se comandava la sinistra. Non potevo lavorare e basta. Ero (e sono rimasto) un meteco.

La mancata audizione della registrazione permise a Marano (che tuttora sverna in Rai) di cambiare completamente le carte in tavola, nonostante contro le sue menzogne ci fosse anche la testimonianza di Fiorillo: ero un incapace, uno che “non buca il video” e se non me lo aveva detto in faccia era solo per delicatezza.

Naturalmente non fui denunciato alla Magistratura, tantomeno da Marano, né radiato dall’Ordine. Sarò io a far causa alla Rai per i danni materiali e quelli morali portati alla mia immagine. E la vincerò. Ma il Tribunale riconobbe solo i danni materiali, non quelli morali con la singolare motivazione che ero stato io stesso a danneggiare la mia immagine parlando dell’accaduto con i giornali. Sarebbe come se una ragazza stuprata non venisse risarcita perché ha denunciato la violenza.

Ma come a volte avviene da un male può nascere un bene. Fiorillo decise di portare il Cyrano a teatro, ma non quello che avevamo immaginato per la Rai bensì centrato sul ‘Fini pensiero’ antimodernista. “Non ce la puoi fare, Edo” gli dissi. “Ne verrà fuori un polpettone indigeribile”. Invece Fiorillo, usando gli strumenti dello spettacolo non per distrarre gli spettatori dal ‘polpettone’ ma per supportarlo, mise in piedi una pièce che ha ottenuto un grande successo in teatri importanti come il Ciak di Milano, il Celebrazioni di Bologna, lo splendido Storchi di Modena, una piccola Scala, con i palchi, riempita fino all’inverosimile. E io ho ottenuto la mia rivincita personale. Altro che “non bucare il video”. Perché, caro Marano, a teatro, con il pubblico davanti a te, a differenza della tv o dallo scranno di un ufficio, non si può mentire.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2018

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Per la prossima Pasqua verrà pubblicato dall’editore Cantagalli un libro dedicato a Joseph Ratzinger che contiene molte delle sue omelie fra le quali è particolarmente interessante quella che tenne nel 1978 a Unterwössen in Germania. Ratzinger, a parer mio, è stato il più spirituale degli ultimi tre Pontefici.  Wojtyla è stato un Papa soprattutto politico e troppo immerso nella mondanità e nella modernità, di cui usava con grande disinvoltura, e direi spregiudicatezza, i mezzi (TV, jet, viaggi spettacolari, creazione di ‘eventi’, concerti, gesti pubblicitari, ‘papamobile’, ‘papaboys’) fino a confondersi con essa. Noi non abbiamo bisogno di una mondanità che ci circonda da tutte le parti, che ci esce sin dalle orecchie, di questa mondanità ne abbiamo fin sopra i capelli, abbiamo bisogno di qualcosa che dia un senso alla nostra vita che poi sarebbe la ragione in ditta  della Chiesa, che sembra però aver smarrito anch’essa, nella enorme confusione portata dalla modernità, la via maestra. In quanto a Papa Bergoglio, non meno narcisista, esibizionista e superbo di Giovanni Paolo secondo (basta pensare al nome che si è scelto, Francesco, il più grande santo che Madre Chiesa abbia espresso, pauperista ad onta degli adoratori dell’unico dio rimasto all’Occidente, il Dio Quattrino) nella sua smania di voler piacere a tutti finisce per non convincere nessuno.

Ne parlo in partibus infidelium , da non credente. Ma non è da pensare che in chi non crede sia assente il sentimento che l’uomo non sia fatto soltanto di materia ma anche di spirito, sia pure uno spirito che non si immortala com’è invece il credo di tutte le religioni monoteiste.

Ratzinger afferma in sostanza, all’interno di una complessa cosmogonia che ha comunque al suo centro la divinità, che il dolore è necessario all’essere umano proprio per conservarsi tale. E’ un’aporia, che come molte altre aporie, era ben presente nel greco e laico Eraclito, che dice: “E’ la malattia che rende dolce la salute, la fame rende piacevole la sazietà, la fatica il riposo”. Prendiamone un’altra di queste aporie. La morte è necessaria alla vita, non ne è solo la conclusione inevitabile, ne è la precondizione. Senza la morte non ci sarebbe nemmeno la vita.

Sono concetti elementari questi. Che però l’Illuminismo, osando proclamare un diritto alla ricerca della felicità, che poi l’edonismo straccione contemporaneo ha declinato tout court in un diritto alla felicità, rendendo così, ipso facto, l’uomo infelice, è andato via via perdendo per strada. Non esiste alcun diritto alla felicità. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità. Non un suo diritto. E di questi diritti impossibili è piena la nostra società e la nostra testa.

Il dolore è quindi consustanziale all’uomo, per volere divino secondo Ratzinger. Ma non c’è bisogno di scomodar Dio. Il dolore fa parte della struttura psicologica profonda dell’uomo, questo essere tragico leopardianamente incapace di trovar quiete, il solo animale del Creato lucidamente consapevole della propria fine.  Ma il dolore ha anche un’altra connotazione. Per usar Nietzsche e le sue parole: “Ogni malattia che non uccide il malato è feconda”. Non si tratta però di andarsi masochisticamente a cercare il dolore, proprio o altrui, in una sorta di gioco di specchi e controspecchi, alla Madre Teresa di Calcutta. Non ce n’è alcun bisogno. Abita già in noi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2019