Di Coronavirus, di epidemie, di pandemie, di peste, di Manzoni, di Boccaccio si è detto tutto e forse anche troppo (devastanti nel creare il panico sono state le Televisioni e alcune misure molto impressive del governo come la cancellazione delle partite dell’Inter, a Milano il calcio è più importante del Duomo, inoltre il Campionato fu sospeso, per due anni, solo durante la Seconda guerra mondiale).
Tratterò quindi un argomento che non c’entra col Coronavirus ma in un certo senso gli si affianca perché, come ha scritto Travaglio, non tutto il male vien per nuocere.
Un paio di settimane fa mille scienziati, fisici, matematici, sociologi, climatologi, hanno firmato su Le Monde un appello sulla crisi ecologica, anzi sulla catastrofe ecologica, che ritengono più vicina di quanto non si creda: “In queste condizioni la realtà supera le peggiori previsioni e un riscaldamento globale superiore ai cinque gradi non può più essere escluso, il che significherebbe la fine della Francia come territorio abitabile”. Son cose, più o meno, note. Più interessanti sono le ragioni in cui gli scienziati individuano le cause del riscaldamento della terra e più in generale dell’inquinamento globale: “Un consumismo sfrenato e un liberalismo economico ingiusto e predatorio”. E aggiungono di non aver nessuna fiducia in un progresso tecnologico che risolva la questione (infatti la Tecnologia come risolve un problema ne apre altri dieci più complessi, come mi disse una volta il filosofo della Scienza Paolo Rossi). La sola speranza, sostengono questi scienziati, è nell’avvento di un ‘uomo nuovo’ che “non si lasci più affascinare da balocchi inutili come l’auto autonoma o la nuova rete cellulare”. E’ la “decrescita felice” che gli scienziati francesi, sciovinisti come sempre, attribuiscono a un’intuizione di Serge Latouche all’inizio degli anni Duemila. Per la verità son le cose che io vado sostenendo nei miei libri e nei miei scritti da trentacinque anni dai tempi de La Ragione aveva Torto? che è del 1985. In Italia sulla linea della decrescita felice, in realtà più in armonia con le tesi degli scienziati francesi, perché io non credo affatto che la decrescita sarà ‘felice’, ma avverrà quasi di colpo con un conseguente bagno di sangue e lotte feroci fra città e campagna, c’è anche Maurizio Pallante. Negli Stati Uniti ci sono due correnti di pensiero, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, che parlano, detto in estrema sintesi, di una decrescita “limitata, graduale e ragionata che passa per il recupero della terra e il ridimensionamento inevitabile dell’apparato industriale e finanziario” (per dare a ciascuno il suo il primo a porre la questione, sia pur in termini non così chiari, fu agli inizi degli anni Sessanta André Gorz, cofondatore con Jean Daniel de Le Nouvel Observateur).
I firmatari di Le Monde affermano che non ci si può aspettare nulla dalla politica. E si capisce il perché, l’’uomo nuovo’ da loro preconizzato significherebbe un capovolgimento radicale dell’attuale modello di sviluppo. Infatti noi oggi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre, per sostenere l’apparato produttivo. Se l’appello degli scienziati francesi fosse accolto e tutti smettessimo di consumare il ‘superfluo’ l’intero sistema collasserebbe su se stesso (anche se poi ci sarebbe da intendersi su che cosa si ritiene realmente ‘necessario’, per me magari sono i libri, per il mio vicino è un’altra cosa, è il quesito che mi pose tanti anni fa il grande storico italiano Carlo Maria Cipolla).
Io temo che non se ne farà nulla. Ci siamo messi la corda al collo da soli avendo avuto, a partire dall’Illuminismo, troppa fiducia in uno Sviluppo materiale e tecnologico che ha poco a che fare col Progresso, come scrisse, inascoltato come siamo stati tutti inascoltati, anche Joseph Ratzinger quando era cardinale: “Lo sviluppo non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia ad essere una minaccia per il genere umano”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2020
Donald Trump ha sbandierato con toni trionfalistici l’accordo raggiunto con i Talebani a Doha. E, dal suo punto di vista, non ha tutti i torti: da buon imprenditore riteneva inutile spendere 40 miliardi l’anno per una guerra che tutti dallo stesso Pentagono ai suoi consiglieri militari agli opinionisti americani consideravano persa (“la guerra che non si può vincere”). Inoltre i morti Usa, nonostante l’uso pressoché esclusivo di aviazione e droni, cominciavano a essere troppi e un certo malcontento serpeggiava anche nella popolazione.
Ma i veri vincitori di questo accordo sono i Talebani che hanno ottenuto tutto ciò che volevano. Il ritiro sia pur graduale (entro 14 mesi) di tutte le truppe occidentali, basi comprese. E questo lo volevano ormai non solo i Talebani, ma anche i non Talebani e gli anti Talebani, stufi degli occupanti e di una guerra che si trascinava inutilmente da 19 anni. Tanto più ingiusta e pretestuosa perché è stato chiarito al di là di ogni dubbio che “la dirigenza talebana dell’epoca (cioè il Mullah Omar e i suoi) era ignara degli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono”. Inoltre, mentre l’11 settembre tutte le folle arabe scendevano in piazza festanti, il governo talebano-afgano mandava agli Stati Uniti un telegramma di condoglianze che suonava così: «Nel nome di Allah, della giustizia e della compassione. Noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center, condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia». Invitava anche l’America a essere prudente nelle sue reazioni. Ma gli Stati Uniti furono tutt’altro che prudenti perché, come riveleranno poi il Washington Post e il New York Times, era da mesi che stavano preparando un attacco all’Afghanistan.
La condizione posta dagli americani agli eredi del Mullah Omar perché i Talebani si impegnino a sbarazzare l’Afghanistan dai terroristi internazionali, in particolare dell’Isis, per i Talebani non è una condizione è un fatto già in essere. E’ da quando Isis è penetrato in Afghanistan che lo combattono. Decisiva, per chi abbia orecchie per intendere, è ‘la lettera aperta’ del 16 giugno 2015 che il Mullah Omar, in quello che fu il suo ultimo atto, inviò ad Al Baghdadi (e che solo noi del Fatto, almeno in Italia, abbiamo pubblicato) intimandogli di non cercare di penetrare in Afghanistan perché la guerra di indipendenza afgana era un fatto interno e non aveva nulla a che vedere con i deliri geopolitici del Califfo. E aggiungeva: “Tu stai dividendo pericolosamente il mondo musulmano”. Del resto negli ultimi anni era molto facile distinguere gli attentati talebani da quelli attribuibili all’Isis. I Talebani colpivano esclusivamente obiettivi militari e politici anche se inevitabilmente c’erano degli “effetti collaterali” perché non avevano alcun interesse a colpire i civili inimicandosi la popolazione il cui sostegno rendeva possibile la loro resistenza. I kamikaze dell’Isis si facevano saltare in aria ovunque, in mezzo alla popolazione, preferibilmente nelle moschee sciite. Stretti fra gli occupanti occidentali e i guerriglieri di Al Baghdadi i Talebani, pur avendo l’egemonia nella vastissima area rurale del Paese, avevano dovuto cedere molte posizioni permettendo agli uomini del Califfo di arrivare fino a Kabul. Se non devono più combattere anche gli occidentali per i Talebani sarà ora molto più facile cacciare l’Isis, perché conoscono il territorio che è il loro territorio (Putin questo l’aveva capito prima di tutti riconoscendo ai Talebani lo status di “gruppo politico non terrorista”, temendo che Isis penetrasse nei Paesi centroasiatici e si avvicinasse pericolosamente a Mosca).
Adesso il vero problema è quello del governo di Ashfar Ghani, escluso dalle trattative perché i Talebani lo hanno sempre considerato un fantoccio Usa, e della corrottissima cerchia governativa (Amministrazione, polizia, e anche magistratura, tanto che da tempo gli afgani preferivano rivolgersi alla giustizia talebana, più spiccia ma meno corrotta). E’ il problema dei “collaborazionisti”, molto simile a quello che si pose in Italia con i fascisti dopo la vittoria americana nella Seconda guerra mondiale. Se ci fosse ancora il Mullah Omar, con la sua sagacia, sarei ottimista. Il giorno dopo aver preso Kabul concesse un’amnistia generale e la rispettò per tutti i sei anni del suo governo. Oggi, con i nuovi talebani, incarogniti da 19 anni di una guerra sanguinosa, non so.
Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2020
Nella mia ormai lunga esperienza, di cittadino e di giornalista, diciamo nell’arco, all’incirca, degli ultimi trent’anni, solo in un altro caso mi è capitato di assistere a un fuoco concentrico come quello a cui oggi è sottoposto il Movimento Cinque Stelle, per cui basta che al suo interno si scompigli anche un solo pelo per darlo per morto e finito.
Il caso cui mi riferisco è quello della prima Lega di Umberto Bossi. L’Umberto, come allora familiarmente lo si chiamava, e che io considero l’unico, vero, uomo politico italiano dell’ultimo quarto di secolo, aveva in testa un’idea che allora parve dirompente e blasfema ma che se la guardiamo con gli occhi di oggi (“la Storia è il passato visto con gli occhi del presente” diceva Benedetto Croce) è diventata molto attuale. Secondo quella Lega l’Italia andava divisa, perlomeno da un punto di vista amministrativo, ma anche legislativo, in tre parti, Nord, Centro, Sud, perché rappresentavano tre diverse realtà, economiche, sociali, culturali e anche climatiche. L’idea di Bossi andava poi oltre i confini nazionali. Pensando a un’Europa politicamente unita il Senatùr riteneva che i punti di riferimento periferici di quest’Europa non sarebbero stati più gli Stati nazionali, ma aree coese dal punto di vista sociale, economico, culturale che avrebbero oltrepassato i confini tradizionali. L’unità politica europea non si è poi, almeno per ora, realizzata, ma l’idea bossiana rimane valida e spendibile per il futuro. Di questo vasto programma, che aveva alle sue spalle anche un giurista del peso di Gianfranco Miglio, l’Italia partitocratica di allora non capì il valore, o forse lo capì fin troppo bene (è ovvio che in un’Europa unita i partiti nazionali avrebbero perso, come alla fine finiranno per perdere, il loro peso). La Lega bossiana fu quindi attaccata da ogni parte (“le tre repubblichette”), da tutti i tradizionali partiti nazionali che avrebbero perso il loro potere e dai poteri sovranazionali, finanziari ed economici, che in un’Europa unita e confederata, alla maniera degli Stati Uniti d’America, vedevano un pericoloso concorrente. Umberto Bossi sovracaricato di reati di opinione (tipo “vilipendio alla bandiera” e simili) finì per impaurirsi e soccombere alleandosi con quello che in Italia era il suo nemico naturale, alias Silvio Berlusconi, globalizzatore, filoamericano e quindi assolutamente all’opposto di un ‘localismo’ intelligente. Io che allora avevo ottimi rapporti con l’Umberto, uomo del popolo e che del popolo capiva le esigenze, avevo un bel dirgli: “Guarda che i tuoi sono reati di opinione che nulla hanno a che vedere con quelli di Berlusconi. Fate una battaglia, sacrosanta, contro i reati di opinione, eredità del Codice fascista di Alfredo Rocco”. E per la verità Umberto Bossi questo lo aveva ben capito. Nel discorso del 21 dicembre 1994 in cui fece cadere il governo Berlusconi, un discorso perfetto anche nello stile, alla faccia di chi lo considerava, come Di Pietro, un personaggio rozzo, pose le premesse per un’Italia diversa e nuova. Ma non ci fu niente da fare. Le forze, nazionali e internazionali, che si opponevano a questo cambiamento ebbero la meglio. Complice anche una malattia, che solo chi è animato da una vera passione può essere colpito, il mio caro e vecchio amico Umberto perse la testa, si rialleò con Berlusconi e questa fu la fine sua e del suo Movimento.
Perché ho fatto questa lunga premessa che sembra non c’entrare niente con l’Italia di oggi? Perché i Cinque Stelle, che hanno un programma molto meno ambizioso di quello della Lega delle origini, ne subiscono la stessa sorte. Qual è il programma dei Cinque Stelle? Nella sostanza è un ripristino dell’onestà (come loro la chiamano ma io avrei preferito il termine “legalità”, perché l’onestà è qualcosa di più profondo che può appartenere anche a un malavitoso, è una coerenza etica) e un tentativo di ridare un ragionevole equilibrio sociale e anche meritocratico in un Paese dove, come in tutto l’Occidente, le disuguaglianze hanno assunto livelli insopportabili che umiliano quella che, senza rendersi conto dell’implicito disprezzo che c’è in questa denominazione, viene chiamata “gente comune”. Insomma il programma dei Cinque Stelle, senza assumere quella visionaria di Umberto Bossi, è assolutamente basico. Ma è sufficiente per scatenare contro “los grillinos”, come li chiamano in Spagna, tutte le forze pro sistema, non solo i partiti tradizionali che vedono messo in pericolo il loro strapotere, ma anche le lobby della finanza internazionale. Molti nemici molto onore, si dice. Ma don Chisciotte è destinato storicamente a perdere. Ma noi, pur consapevoli, preferiamo essere dalla sua parte che da quella dei vincitori di giornata. Anche perché la Storia cambia e, con la velocità a cui van le cose attualmente, i perdenti di oggi potrebbero anche essere i vincitori di domani.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2020