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Nella tradizionale benedizione di Natale ‘Urbi et orbi’ Papa Francesco, oltre ad aver sciorinato la scontata quanto inutile lista dei bambini uccisi o martoriati dalla guerra e dalla fame, una cosa di sostanza però l’ha detta: “un modello di sviluppo ormai superato continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale”. Naturalmente i media, non certo a caso, hanno preferito concentrarsi sulla parte pietistica del discorso di Francesco evitandone il nocciolo duro, cioè l’attacco all’attuale modello di sviluppo.

Io non sono il Papa però queste cose le vado scrivendo da più di trent’anni, da quando pubblicai, ignorato o deriso, La Ragione aveva Torto?(1985). Per la verità anche Benedetto XVI, quando era ancora cardinale, aveva scritto: “il Progresso non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia ad essere una minaccia per il genere umano”. Ma anche questo monito, autorevolissimo, venne ignorato.

Adesso pure Papa Francesco scopre che “c’è del marcio nel Regno di Danimarca”. Però non è che questo modello sia “superato” come dice Papa Francesco facendo intendere che bisogna oltrepassarlo e quindi andare pur sempre in avanti. Invece di un ottimistico “superamento” si tratta, al contrario, di un ‘tornare indietro’ perché questo modello era sbagliato in origine da quando, con la Rivoluzione industriale, l’uomo abbandonò la quiete e l’equilibrio di una società sostanzialmente statica, in cui fino ad allora era vissuto, per imboccare la via di una società dinamica, la più dinamica che sia mai apparsa sulla scena del mondo, con l’occhio perennemente fissato sul futuro, e diventare ‘homo oeconomicus et technologicus’ e, nei tempi più recenti, come logica conseguenza, anche digitale e virtuale.

Non si tratta quindi di modificare il modello in questo o quel punto, con qualche ritocco migliorativo, ma di scardinarlo, di reciderlo alle radici. Perché in questo modello ‘tout se tient’ e ogni elemento è legato indissolubilmente a tutti gli altri. Prendiamo, per esempio, produzione e consumo che sono due dei fattori principali su cui si basa l’attuale modello. Noi non possiamo ridurre il consumo senza ridurre anche la produzione. Ma questo, in un sistema basato sulla crescita, è impossibile. Perché meno produzione significherebbe un’ulteriore contrazione dei consumi e quindi, ancora, meno produzione in una vertiginosa spirale che lascerebbe tutti col culo per terra. Prendiamo, per fare un altro esempio, le tecnologie digitali e la robotica che stanno espellendo milioni di persone dal mondo del lavoro. Certo, noi possiamo pensare che con l’”innovazione” (parola diventata oggi magica e taumaturgica) le tecnologie riescano a creare altre, e più moderne, occupazioni che assorbano, in tutto o in parte, la mano d’opera cacciata dalla porta facendola rientrare dalla finestra. Ma anche l’innovazione tecnologica troverà prima o poi, come ogni altra cosa, un limite, un tetto da cui precipiterà vorticosamente sul pavimento.

Ci siamo cacciati in un vicolo cieco. Possiamo venirne fuori? Sì, rinculando lentamente e gradualmente. E’ la linea di pensiero, oltre che mia (eh sì, ora che ‘sun dré a murì’, mi sono anche stufato dell’understatement e del fatto che altri prendano a piene mani da ciò che vado scrivendo da più di un quarto di secolo come se fosse farina del loro sacco, senza nemmeno avere la bontà, direi la decenza, di citare la fonte) di due correnti filosofiche americane, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, che, detto in estrema sintesi, propugnano “un ritorno graduale, limitato e ragionato a forme di autoproduzione e autoconsumo, che passano necessariamente per un recupero della terra, dell’agricoltura, e per una riduzione drastica dell’apparato industriale, tecnologico, digitale e finanziario”. Non si tratta di farsi infinocchiare come finora è sempre avvenuto: dalle biotecnologie o, quando qualcuno in Occidente, in una società totalmente materialistica ha avvertito l’esigenza di un recupero della spiritualità, di trasformare tale esigenza in ‘new age’ e cioè, ancora, in produzione e consumo della spiritualità, oppure di altre stronzate del genere di cui potremmo fare un lunghissimo elenco che risparmiamo al lettore.

Si tratta di mettere in moto una rivoluzione copernicana. Alla rovescia. Ma questi smottamenti culturali, a meno di qualche imprevisto, sono storicamente lenti e questo modello di sviluppo, che ho definito ‘paranoico’, ci ricadrà addosso di colpo prima che qualcuno abbia potuto metterci mano. E a noi, dall’oltretomba, rimarrà la magra soddisfazione di dire via medium: ve l’avevo detto.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2017

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Ora c’è un profluvio di ‘mea culpa’ di molti dei protagonisti della cosiddetta ‘rivoluzione digitale’ per i danni sociali e psicologici che ha provocato sulla comunità umana, dall’ex presidente di Facebook, Sean Parker (“Facebook e gli altri hanno costruito il loro successo sullo sfruttamento della vulnerabilità della psicologia umana”) a Roger McNamee (“Ho investito e guadagnato molto con Google e Facebook nei primi anni, ma oggi mi rendo conto che, come nel caso del gioco d’azzardo, della nicotina, dell’alcol e dell’eroina, Facebook e Google producono felicità di breve periodo con pesanti conseguenze negative nel lungo periodo”) a moltissimi altri che hanno abbandonato il loro ruolo in questa rivoluzione o che ancora ci restano ma con fortissime perplessità.

Credo alla sincerità di questi ‘mea culpa’ perché le conseguenze devastanti della ‘rivoluzione digitale’ potevano essere previste solo da chi avesse avuto un occhio che guardava molto lontano. Quando l’uomo introduce nella sua vita innovazioni che lì per lì sembrano formidabili non è in grado di prevedere le variabili che mette in circolo. Una cosa però è certa: una volta avviati questi processi diventano inarrestabili e irreversibili. Se si inventa la pallottola non ci si può meravigliare se poi si arriva al missile e oltre. Adam Smith considerava l’invenzione della banconota a livello di quella della macchina a vapore. Ma portando il denaro alla sua vera essenza di astrazione concettuale si arriva, anche attraverso l’ulteriore smaterializzazione del digitale, a quella finanziarizzazione della società globale che oggi ci sta travolgendo.

Ma se ho sempre nutrito molti dubbi sulla Scienza tecnologicamente applicata, adesso inizio ad averne anche sulla conoscenza in sé. La conoscenza è consustanziale all’uomo, ciò che lo distingue dagli altri animali del Creato. E’ la sua gloria ma insieme anche la sua tragedia. E’ un dono bifido. Non per nulla nella leggenda biblica, quando Adamo ed Eva vivevano felicemente nel Paradiso Terrestre, Dio proibì loro, per tutelarli, di mangiare la mela della conoscenza. Ma mentre quel tontolone di Adamo si sarebbe accontentato di tutti gli altri frutti del Paradiso, Eva, la curiosa, infranse la proibizione (Ma è mai possibile, porca miseria, che con tutti i frutti che c’erano Eva andasse a mettere i suoi dentini proprio sulla mela dell’Albero della Conoscenza? Ma questo è un altro discorso). Nietzsche la dice in un altro modo: “In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo”.

Sono convinto che l’ignoranza sia preferibile alla conoscenza, perlomeno a quella ad alti livelli. Galileo dimostrò sulle orme di Copernico e peraltro già dei filosofi e matematici greci, Pitagora e Filolao su tutti, che era la Terra a girare intorno al Sole. Magellano, confortato da queste teorie, circumnavigò il mondo e provò in concreto la sfericità del pianeta, arrivando dalla Spagna alla mitica Isola delle Spezie. Per lui fu una meravigliosa avventura anche se conclusa nel più beffardo dei modi. Ma che cosa cambiava per il comune mortale sapere che era la Terra a girare attorno al Sole e non viceversa? Nulla. O meglio: cambiava in peggio e in due sensi. Da una parte l’uomo perdeva la convinzione di essere il centro dell’Universo e la stessa illusione di Dio, dall’altra, essendo il solo essere cosciente, veniva preso da un hybris prometeica. Per questo il cardinale Bellarmino, che sapeva benissimo, come del resto tutte le élites intellettuali dell’epoca, che Galileo diceva il vero, gli chiedeva di proseguire pure nei suoi studi ma di non divulgare le sue ricerche al di fuori di quelle élites. Per due motivi: perché questo capovolgimento copernicano avrebbe stressato le centinaia di milioni di uomini che avevano fin lì vissuto sulla concezione tolemaica-aristotelica dell’universo e perché, pensa Bellarmino, una conoscenza matematica basata sulle strutture oggettive del mondo eguaglia quella divina e un uomo che si sente uguale a Dio finisce fatalmente per sostituirlo e per perdere ogni senso del limite.

E’ quanto stiamo sperimentando ora sulla nostra pelle e la ‘rivoluzione digitale’ non ne è che un aspetto. Bellarmino, che guardava molto lontano, perse la partita. Ma quel lontano ora è qui, ci avvolge da tutte le parti e ci perderà. Questo era ed è il Destino dell’uomo e di tutte le cose. Perché, come scrive Eliot, “in ogni inizio è contenuta la sua fine”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2017

 

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Secondo un recente orientamento della psichiatria infantile il bambino discolo è un malato che va curato e normalizzato. Ci sarebbe invece da preoccuparsi del contrario. L’essere discoli è una manifestazione di vivacità, di vitalità, di energia, tipica dell’età infantile. Un vecchio non è ‘discolo’ non solo e non tanto perché ha imparato le regole ma perché gli mancano le energie per esserlo.

E’ tipico di questa società totalitaria e totalizzante la pretesa di voler omologare tutto a uno standard comune, che deve valere per tutti. Ogni comportamento che si stacchi da questi standard è considerato una ‘devianza’ da curare, mettendo in campo psichiatri, psicologi, ‘educatori’ di ogni genere e specie. Dobbiamo essere tutti bambini disciplinati, adulti disciplinati, come la produzione e il consumo comandano. Aveva visto giusto Aldous Huxley quando ne Il Mondo nuovo, che è del 1932, immaginava una società di amebe anestetizzate dal soma, una sorta di droga, tipo betel, che masticavano giorno e notte. Se a soma sostituite consumo la previsione di Huxley, di quasi un secolo fa, si rivela esatta.

Bisognerebbe fare una ricerca in proposito ma sono convinto che buona parte dei geni, da bambini, ma anche da adolescenti, sono stati discoli, ribelli o sbadati, e da adulti spesso stravaganti. Einstein, distratto dai suoi pensieri, al collo invece di allacciarvi la cravatta lo faceva con un calzino.

L’esperienza naturalmente non fa sondaggio, ma avendo frequentato tre licei classici di Milano, Parini, Berchet, Carducci, ed essendone stato espulso da un paio, ho potuto notare che dei ‘primi della classe’, disciplinati, obbedienti al prof, timorati di Dio, quasi nessuno ha poi combinato qualcosa nella vita, mentre i ribelli, non tutti naturalmente, sono riusciti meglio.

Questa è una società che tende a imporre, in modo diretto o indiretto e subdolo, tutta una serie di divieti. Non dobbiamo fumare perché ci fa male ma anche perché se poi ci ammaliamo le spese sono a carico del Servizio sanitario nazionale che peraltro i fumatori pagano, come tutti, ma con l’aggiunta di consistenti tasse indirette sui pacchetti di sigarette. Per gli stessi motivi non dovremmo nemmeno giocare d’azzardo, anche se una pubblicità ossessiva, martellante, ci spinge al gioco on line, il più solipsistico e masturbatorio di tutti i giochi, il modo più solitario di passare il tempo insieme a quello consumato al computer. Ma, anche qui, lo Stato ha, come dicono a Genova, “la sua convenienza” (‘business is business’ ed è veramente l’unica cosa intoccabile). Probabilmente, seguendo la stessa logica che fa del terrorismo anche sul fumo attivo, e che lede il fondamentale diritto per cui ognuno è libero di fare del proprio corpo e della propria salute ciò che più gli pare e piace, dovremmo anche scopare con moderazione, per non caricare il Servizio sanitario nazionale degli infarti e degli ictus che possono colpire chi si dà, in modo passionale o, per l’uomo, spinto dall’ansia di prestazione, a questa attività ludica. Sempre seguendo il terrorismo diagnostico dovremmo auscultarci, palpeggiarci ogni giorno, fare una mezza dozzina di esami clinici l’anno. Il malato è un criminale. Perché costa. Dobbiamo vivere da vecchi fin da giovani. Lasciamo che almeno i bambini possano fare i bambini.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2017