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Sabato scorso sono stato a vedere la mostra che si sta tenendo a Palazzo Morando, Milano e la mala. Dalla rapina di via Osoppo a Vallanzasca, che copre gli anni che vanno dal primo dopoguerra a metà degli ‘80. Era affollatissima, soprattutto da gente agée. Alla fine ho sfogliato il libro con i commenti dei visitatori. Uno diceva: “Che belli quegli anni”. Nostalgia per l’epopea della vecchia mala milanese, la mala della ‘ligera’ cantata dalla Vanoni, da Gaber (‘La ballata del Cerutti Gino’), da Jannacci (“Mi sont di quei che parlen no!”). Ma nostalgia anche di un’altra Milano, di un mondo diverso, perché la malavita è il riflesso, sia pur malato, di una società e ne segue l’evoluzione.

Si comincia con la mala dell’immediato dopoguerra. Gli strumenti del mestiere erano il seghetto, la lima, il piede di porco per scassinare le casseforti. Era una malavita povera alla Arsenio Lupin o alla Rocambole, innocua e sostanzialmente innocente, come povera e sostanzialmente innocente era la società milanese di allora dove onestà, dignità, solidarietà erano valori per tutti.

Con la rapina alla banca di via Osoppo (1958) fa la sua prima apparizione una malavita organizzata che sostituisce i ladruncoli, i borseggiatori, i piccoli truffatori non privi di una certa fantasia (“Turlupinati col Turlupindone” titolò il Corriere Lombardo a proposito di un tale che vendeva una medicina che avrebbe dovuto guarire tutti i mali, ma l’aveva chiamata, onestamente, Turlupindone B12). La rapina di via Osoppo fece un’enorme impressione a Milano, i quotidiani andarono avanti a parlarne per mesi e se si guardano le foto di allora si vede una folla enorme sparpagliata davanti alla banca, colpita dall’audacia di quell’azione. Ma in via Osoppo non ci fu né un morto né un ferito. Era una malavita professionale, che conosceva le leggi e non voleva correre rischi più del dovuto.

Con Epaminonda, ‘il Tebano’, re delle bische, Cavallero, Francis Turatello e Renato Vallanzasca c’è un altro salto di qualità: si spara sui nemici, gli odiati ‘sbirri’, in uno spericolato gioco a guardie e ladri.

Le bische, molte delle quali in strada, erano però anche luoghi di socializzazione a differenza del gioco on line di oggi. Si giocava di notte. La ‘pula’ chiudeva un occhio. Vi si trovava il mondo degli inquieti, degli insonni, dei borderline, degli ubriaconi (la droga non aveva ancora fatto la sua comparsa), si respirava un po’ l’atmosfera strampalata cantata da De André ne La città vecchia, anche se riferita a Genova: “Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli/in quell’aria spessa, carica di sale, gonfia di odori/lì troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano/quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano”. Il banco lo tenevano gli uomini di Turatello ricavandone la regolare ‘cagnotte’, non diversamente da quello che si fa nel vicino casinò di Campione.

Le trattorie frequentate dalla mala erano le più sicure. Perché lì, a scanso di retate, non doveva succedere nulla. Noi ci andavamo verso le tre o le quattro, dopo una notte di poker, di whisky e di fumo.

Con Renato Vallanzasca, ‘il bel René’, la mala raggiunge il suo culmine, ma trova anche la sua fine. In Vallanzasca c’è tutto l’humus popolano della Milano dei quartieri di periferia di una volta, di Affori, di Baggio, della Bovisa, della Comasina. Naturalmente declinato al delinquenziale. E’ ironico, spiritoso, spavaldo. In pochi anni inanellò una serie impressionante di sanguinose rapine e di evasioni rocambolesche. Ma, a modo suo, è un bandito onesto. Ha un’etica, sia pur malavitosa. Non ha mai negato le sue responsabilità anzi se le è sempre assunte. Il giorno della sua cattura, alla canea di giornalisti sociologizzanti e gravidi di demagogia dell’epoca –siamo nel ’77- che gli chiedeva se non si ritenesse una vittima della società, rispose dal famoso balconcino: “Non diciamo cazzate”. Quando Elio Lanzani, detto ‘El Ciarun’, fu arrestato per una rapina, disse: “Elio non è uno stinco di santo, ma quella rapina non l’ha fatta lui, l’ho fatta io”. Una volta gli chiesi: “Renato in carcere ci sono continui regolamenti di conti. Perché tu ne sei rimasto immune? ”. “Credo che sia perché non ho mai tradito nessuno”.

In più di quarant’anni di carcere, molti in isolamento, quattro nei famigerati ‘braccetti’, non si è mai lamentato. Lo fece solo una volta dopo un pestaggio particolarmente duro. Ma a un giornalista che al di là delle sbarre gli chiedeva “Vallanzasca lei è stato torturato?” rispose “Beh, adesso non esageriamo”.

Dopo che ne chiesi un’improbabile grazia entrai in corrispondenza con lui. Ha uno stile fresco, quasi fanciullesco. C’è sempre stato un che di fanciullesco in Vallanzasca, fin da quando bambino di dieci anni, col fratello di otto, liberò da uno zoo tigri e leoni non sopportando di vederli in gabbia. Forse una premonizione per chi al gabbio doveva passare quasi tutta la vita.

Qualche anno fa, in uno dei suoi periodi di semilibertà, sono andato a cena a casa sua. Abitava in un quartiere tristissimo, a fianco del cimitero di Musocco, ma l’appartamento era arredato con gusto. Non è più ‘il bel René’, ha 67 anni, il viso sfregiato. Ma lo spirito è rimasto lo stesso, impavido. Gli ho tastato i muscoli del braccio, sono ancora poderosi. Ma non farebbe più male a una mosca. Mi raccontò, ridendo, che quando ebbe il suo primo permesso cercò di salire su una bicicletta ma cadde subito. “Non ci sapevo più andare”.

Adesso per quell’incomprensibile furto al supermercato, dal valore di cinquanta euro, trasformato in un modo un po’ artificioso in rapina impropria, si è beccato altri tre anni. ‘Il bel René’ è stato vittima del suo mito da lui stesso alimentato.

La mala della ‘ligera’ non esiste più. Da tempo è stata sostituita dalla ’ndrangheta che in giro non si vede perché abita i piani alti della finanza. Se questa malavita sia meglio non so. Certamente non sarà mai cantata da nessuna Vanoni, da nessun Gaber, da nessun Jannacci.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2017

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Caro Massimo Fini,

Nel suo pezzo di ieri accenna a una truffa di B.ai danni di una minore, Annamaria Casati Stampa orfana dei genitori deceduti in modo drammatico, senza fornire qualche informazione sul tipo di truffa fra le innumerevoli del Nostro.

Potrebbe precisare un po' o non si può per ragioni deontologiche?

Campanini M.

 

La truffa di Berlusconi e Previti ad Annamaria Casati Stampa è stata raccontata da Giovanni Ruggeri nel libro Berlusconi. Gli affari del Presidente (Kaos Edizioni, 1994) e da me in tre successivi articoli sull'Indipendente. Solo dopo le mie ripetute insistenze Previti (e non Berlusconi) si decise a querelare Ruggeri e me. Entrambi siamo stati assolti .

La truffa, o meglio le truffe, consistevano in questo. La Casati Stampa, minorenne, era rimasta orfana di entrambi i genitori morti per una tragedia a sfondo sessuale. Purtroppo per lei aveva come protutore Previti già in combutta con Berlusconi attraverso la società Idra. Previti vendette a Berlusconi la villa di Arcore con annesso parco per la cifra ridicola di 500 milioni (solo i luini della villa valevano tre volte tanto). Prima che fosse regolarizzata la permuta, e quindi che Berlusconi avesse pagato, l’allora Cavaliere si installò nella villa di Arcore con Dell’Utri e il noto mafioso Mangano. Salderà solo ad anni di distanza, mentre la Casati continuerà a pagarci le tasse.

Ma ancora più incredibile è la seconda truffa. I Casati Stampa a Cusago possedevano un vastissimo territorio pari a 246 ettari. Previti vendette queste proprietà a Berlusconi per la cifra ancora più ridicola di 1miliardo e 700milioni. Ma le pagò con azioni di società di Berlusconi non quotate in borsa e dal valore molto dubbio. Quando la Casati Stampa cercò di realizzare vendendo queste azioni non trovò nessuno disposto a comprarle. Allora arrivarono, soccorrevoli, il Gatto e la Volpe dicendole: le ricompriamo noi. Ma a metà prezzo: 800milioni.

m.f.

Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2017

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Il deputato regionale siciliano Cateno De Luca, uno dei tanti ‘impresentabili’, arrestato solo due giorni dopo la sua elezione per evasione fiscale e messo ai ‘domiciliari’, è stato, quasi negli stessi giorni, assolto o prescritto in un altro processo che lo vedeva imputato per quattordici reati. Ma resta pur sempre ai ‘domiciliari’ per il processo in corso. La misura cautelare dei ‘domiciliari’, in luogo del carcere, comporta non solo, com’è ovvio e come dice la parola stessa, che l’indagato non possa uscire dal proprio domicilio e che non possa avere contatti, nemmeno telefonici, con persone diverse da quelle autorizzate dal magistrato.

Ora invece De Luca, attraverso il suo profilo Facebook, lo smartphone, Internet, rilascia interviste, anche televisive, parla del processo in corso, minaccia gli avversari politici, intimidisce i magistrati postando immagini che lo ritraggono come un ‘bravo ragazzo’, molto pio. Secondo il procuratore della Repubblica di Messina Maurizio De Lucia una cosa del genere “non dovrebbe essere possibile”. E vorrei vedere. E infatti il gip si è affrettato ad aggravare per De Luca la misura degli arresti domiciliari che non possono trasformarsi in un’allegra scampagnata extramoenia sia pur telematica, se si vuole mantenere un senso a questa misura.

Gli ‘arresti domiciliari’ dovrebbero, per legge, essere concessi solo in casi particolari, quando l’indagato ha più di 70 anni o per ragioni di salute o per altri gravi motivi. Invece vengono regolarmente elargiti a ‘lorsignori’, quasi mai ai cittadini comuni. Lo stesso avviene per le pene sostitutive come i ‘servizi sociali’ spesso scontati in modo ridicolo come è stato nel caso di Berlusconi. Si giustifica questa disparità di trattamento col fatto che il carcere sarebbe più penoso per le persone ‘perbene’ rispetto a individui che col carcere hanno una certa confidenza per esserci già stati più volte (per costoro vale il brocardo “in galera subito e buttare via le chiavi”, copyright della ‘garantista’ Daniela Santanchè, ma che è proprio di quasi tutti i cosiddetti ‘garantisti’ di ceppo berlusconiano). Se c’è un’argomentazione razzista, socialmente razzista, è questa. Io credo invece che assaggiare il carcere, naturalmente quando ce ne siano i legittimi presupposti, faccia bene proprio a ‘lorsignori’. Ho conosciuto bene Sergio Cusani. Prima della condanna definitiva a quattro anni di carcere che ha scontato per intero veniva spesso a trovarmi per confessarsi e sfogarsi. Sull’Indipendente gli avevo fatto un ritratto in cui non gli scontavo nulla, ma raccontavo in modo benevolo la storia di questo ragazzo figlio della buona società napoletana che arrivato a Milano si era fatto travolgere prima dalla cretineria del Sessantotto (andate a vedere, se vi va, il film Il mio Godard che racconta quegli anni) e poi era finito a fare il brasseur d’affaires per il partito socialista. Cusani era stato abbandonato come una ‘mela marcia’ dai suoi compari maggiori e trovava, evidentemente, in me una delle pochissime persone con cui confidarsi. Ho rivisto Cusani più volte dopo aver scontato la condanna, un uomo nuovo completamente rigenerato che, pagato il suo debito con la giustizia, può girare a testa alta: la lezione del carcere l’ha imparata e gli ha fatto bene. Conosco anche Lele Mora (cosa volete, è un mio vizio frequentare più le persone borderline che quelle ‘perbene’). Mora, che ha fatto un periodo di carcerazione preventiva per il processo ‘Ruby bis’ che lo vede coinvolto insieme a Emilio Fede e Nicole Minetti, l’ho rivisto un paio di volte (ha il suo nuovo ufficio proprio accanto al mio barbiere) e mi è parso un uomo cambiato, molto lontano dal prosseneta arrogante di un tempo. Anche lui, se non ho capito male, deve avere imparato qualcosa dalla lezione del carcere.

Se gli ‘arresti domiciliari’ devono essere ridotti a una barzelletta, come la vicenda De Luca ha dimostrato, tanto vale abolirli. Ma allora sia rimesso in libertà anche Roberto Spada per il quale, per tenerlo dentro (non c’era flagranza di reato), è stata trovata un’aggravante inusitata: l’aver agito in un contesto mafioso e “con metodo mafioso”. Cioè se uno dà una capocciata a un giornalista a Milano è meno grave che se la dà a Ostia (Senza nulla togliere all’inviato della Rai che faceva semplicemente il suo mestiere e il suo dovere, sono anche convinto che se Spada la capocciata invece che a un giornalista- altra casta di privilegiati, spesso graziati, vedi Alessandro Sallusti e Lino Jannuzzi- ma a uno che passava di lì non ci sarebbero state le pletoriche manifestazioni di solidarietà in nome della “libertà di stampa”, figuriamoci).

In realtà, si tratti di fermi, di indagini, di ‘arresti domiciliari’, di condanne definitive, di pene sostitutive, di grazia, siamo di fronte alla solita, sporca, storia: in Italia esistono, di fatto, due diritti, uno per le persone di alto livello sociale (la gente ‘perbene’), uno, diverso, per tutti gli altri, cattivi o buoni che siano.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2017