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Un recente sondaggio inglese, ripreso dal Telegraph, rivela che quasi il 10 percento della popolazione giovanile nella fascia d’età tra i 18 e 24 anni dichiara di non aspettarsi di ricoprire mai un impiego in tutta la vita. Non che questi giovani pensino che non riusciranno mai a trovare un lavoro, più semplicemente credono che “non ne valga la pena”. Si sta quindi facendo strada l’intuizione di quel gruppo, per ora estremamente minoritario, di giovani americani che si sono significativamente dati il nome di Luddite Club che però con il fenomeno luddista comparso ai primi dell’Ottocento sempre in Inghilterra non ha molto a che vedere anche se ha qualcosa da spartire. Il luddismo classico distruggeva le macchine perché toglievano lavoro, questi vogliono semplicemente togliere di mezzo il lavoro. Un “diritto alla pigrizia” era già stato affermato da Paul Lafargue, genero di Karl Marx, in chiave anticapitalista. Lafargue parla della “strana follia” che si è impossessata dell’uomo moderno: l’amore per il lavoro. E in verità il Primo Maggio noi facciamo, senza rendercene conto, l’elogio della nostra schiavitù. E a dicembre, in una intervista molto discussa, la deputata francese Sandrine Rousseau aveva proclamato “il diritto all’ozio”, che però non va confuso con la pigrizia e si avvicina molto di più all’“otium” laborioso dei latini.

Però questi neo-diritti che nascono proprio in reazione al compulsivo modello industriale basato sull’invidia, considerata in senso positivo come molla dell’intero sistema da Ludwig Von Mises (La mentalità anticapitalista), uno dei più estremi ma anche più coerenti teorici del neocapitalismo, vanno presi “cum judicio” , diciamo con le molle. Non si tratta di non lavorare più addossando la fatica a padri o nonni, perché poi bisogna pur mangiare, ma di lavorare meno, di avere più tempo, che è il vero valore della vita, per noi stessi e per i nostri bisogni più autentici.

Come? Si tratta di abbandonare tutti i bisogni futili che ci vengono continuamente proposti dal mercato, bisogni di cui l’uomo, prima di quest’era superdinamica che è iniziata grossomodo con la Rivoluzione industriale, non aveva mai sentito il bisogno. Si tratta di abbandonare la pazzesca legge di Say (1803) seconda la quale “l’offerta crea la domanda”. Si tratta quindi di tornare ai bisogni veramente essenziali. Ma qui si incrocia il primo incrocchio. Come mi ha detto una volta lo storico Carlo Maria Cipolla: “per lei magari sono essenziali i libri ma per un altro essenziale è tutt’altro”. Eppoi ci sono cose che mai state essenziali lo diventano, per esempio lo smartphone. Quindi il principio del Luddite Club, se portato fino alle estreme conseguenze, condurrebbe a una vita da cenobiti.

Comunque si può dire, sia pure con una certa approssimazione, che ci sono in circolazione oggetti totalmente inutili. Quindi: comprare di meno. Ma comprare di meno significa produrre di meno e si tratterebbe perciò di ribaltare da cima a fondo l’attuale modello di sviluppo.

Il metodo che abbiamo chiamato per comodità Luddite Club darebbe poi un significato a quella transizione ecologica di cui tanto si parla ma per la quale non si fa nulla di concreto. Non è con i “bio” e i “green” che si risolve una questione epocale come questa. Lo sgretolamento dei ghiacci polari dovrebbe aver convinto anche i più feroci negazionisti (i Von Mises del momento) che stiamo andando a rotta di collo verso un collasso definitivo. L’Economia e la sua sorella gemella Tecnologia hanno una parte fondamentale in questo processo sempre più accelerato di dissoluzione. Bisogna che Economia e Tecnologia tornino al ruolo subalterno che hanno avuto fino a due secoli e mezzo fa prima del take off industriale e che l’uomo sia rimesso al centro del sistema. Da dove partire quindi? Dalla terra che è quella che ci dà il cibo, bisogno che, Cipolla o non Cipolla, è essenziale in modo indiscutibile. Quindi: economia di sussistenza, autoproduzione e autoconsumo. Un ritorno all’indietro, certo. Ma il futuro non è davanti, ma dietro di noi.

Il Fatto Quotidiano, 1.9.2023

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“L’estate sta finendo”, Righeira, 1985

L’estate sta finendo. Meno male. Mentre sto scrivendo (22 agosto ore 14.20) la temperatura a Milano è di trentanove gradi. Vivo da sempre a Milano e una temperatura del genere non l’ho mai vista. Abbiamo avuto un inverno, almeno qua a Milano, che non è stato un inverno. La sera io vado spesso a mangiare al ristorante, con amici o amiche, e anche a gennaio e febbraio che dovrebbero essere i mesi più freddi abbiamo sempre mangiato fuori. Poi c’è stata una stagione incerta. Anormalmente calda, non si capiva se era il residuo di un inverno anomalo o l’inizio di una primavera incerta. In qualche modo si è arrivati a luglio che normalmente a Milano è il forno di tutti i forni. E così è stato. Ma poi è arrivato agosto che normalmente, a parte i primissimi giorni, è più fresco di luglio. Invece adesso siamo a trentanove gradi. Non so se Milano, piazzata al centro di una pianura che sta, seppur lievemente, sotto il livello del mare, che a differenza di tutte le altre città italiane ed europee non ha un fiume degno di questo nome, possa essere un segno del cambiamento climatico globale. Certamente qualcosa dice.

La mia situazione e quella dei miei coinquilini è aggravata dal fatto che a causa dell’Ecobonus siamo impacchettati e quindi anche quando pur esistesse un refolo d’aria non ci arriva. In più i miei coinquilini, per un’afagia di denaro che caratterizza la classe media italiana, hanno voluto un telo pubblicitario. Quindi per un anno intero noi non abbiamo avuto né luce né sole né aria. Sono convinto, come ho già scritto in altra occasione, che se tu andassi da un bangla e gli dicessi: io ti do un po’ di denaro ma tu per un anno rinunci  alla luce, all’aria, al sole, quello ti sfanculerebbe. Il paradosso è che adesso quello stramaledetto telo ci verrebbe in soccorso per pararci dai feroci raggi del sole di questo agosto.

L’estate sta finendo. Ed è l’estate, non il primo dell’anno, che segna il passaggio da un anno all’altro. Diamola pure per finita l’estate, adesso che ci resta? “Basta che non ci debba mai mancare qualcosa da aspettare” canta il menestrello Jannacci. Ma adesso che cosa abbiamo da aspettare? Un'altra estate sperando che sia migliore di questa ma, come canta Giorgio Gaber in Porta Romana “un anno è lungo da passare”. E quindi dobbiamo aspettarci le solite polemiche politiche prive di senso, Salvini che tenta di fare le scarpe a Meloni, l’opposizione che abbaia a vuoto, Zelensky che fa la star, i russi che perdono anche se vincono, la Cina sempre più vicina, il festival di Sanremo, il concorso di Miss Italia con ragazze standard prive di qualsiasi appeal, aggiungiamoci pure la Festa del Fatto, le partite di un calcio sfinito che si è trasferito negli Emirati dove non hanno mai visto un pallone. Una prospettiva da far venire i brividi.

L’estate è stata sempre una promessa di amori, e, diciamo pure la parola proibita, di felicità, soprattutto se al mare. Sono infinite le canzoni che parlano di amori estivi e di conseguenti, e altrettanto elettrizzanti, tradimenti. Canta sempre Celentano in Storia d’amore: “Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai/ In spiaggia ho fatto il pagliaccio/ Per mettermi in mostra agli occhi di lei/ Che scherzava con tutti i ragazzi all'infuori di me/ Perché perché perché perché, io le piacevo/ Lei mi amava, mi odiava, mi amava/ Mi odiava, era contro di me/ Io non ero ancora il suo ragazzo e già soffriva per me/ E per farmi ingelosire/ Quella notte lungo il mare è venuta con te”. Ah quelle passeggiate notturne lungo il mare. Ma qui mi rendo conto di confondere l’estate con la vecchiaia, la mia. A noi vecchi è consigliata, perché molto più riposante, la collina. Ma li c’è un riposo che, almeno ai miei occhi, somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. E quindi insisto ad andare al mare anche se non cavo più un ragno dal buco.

In realtà molto più favorevole per i vecchi è l’inverno. Con la sua oscurità, con la sua penombra, ci nasconde e ci protegge. Mentre d’estate i vecchi sono costretti ad uscire come topi dalle tane. Li vediamo in carrozzella, con i bastoni, con le protesi all’anca. Eppure nonostante sia consapevole di tutto questo io, come il giovane Celentano, continuo ad aspettare l’estate tutto l’anno, anche se non mi può dare assolutamente più nulla. E non so nemmeno quanto possa dare anche ai giovani, perché scopare a quaranta gradi all’ombra è una fatica che è meglio evitare.

“L’estate sta finendo e un anno se ne va”.

Il Fatto Quotidiano, 28.08.2023

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Finalmente. Finalmente una notizia. Io credo che l’omicidio di Prigožin e del suo secondo Dmitry Utkin sia stato organizzato, oltre che da Putin, dalla lobby degli inviati internazionali in Ucraina e dagli esperti al loro seguito o sparsi in varie parti del mondo. Perché stufi di dover parlare del nulla, di una conquista di quattro pollai come segno dell’inizio della strombazzatissima “controffensiva di primavera” (per la verità siamo già alla fine di agosto), come stufi dovevano essere gli stessi esperti o analisti o come voglia si chiamino, che pur sono allenatissimi a parlare del nulla, ma il nulla sia pur frullato in tutte le salse dà alla fine lo stesso risultato: nulla.

Adesso sull’assassinio di Prigožin questi analisti potranno finalmente esercitarsi offrendo le più varie e straordinarie ipotesi. Una cosa però a me sembra chiara. È la fine della leggenda che i mercenari della Wagner, certamente ancora molto forti in Russia e in Bielorussia, fossero la longa manus della Russia per mettere piede in Africa, in Niger, nella Repubblica del Congo, in Mali e altrove. I mercenari della Wagner, come consistenza e numero (parliamo sempre dell’Africa) sono poco più di un gruppo di guardie del corpo a difesa di questo o di quel dittatorello che in genere siamo stati noi occidentali a portare sulla scena.

Comunque che la Russia nella guerra all’Ucraina abbia avuto bisogno di mercenari non è un buon segno per l’Impero sognato da Putin. I mercenari emergono quando i soldati di un paese non hanno più nessuna voglia di rischiare la pelle. Non sono solo i russi a fare uso dei mercenari, lo fanno anche gli americani chiamandoli ‘contractors’. Ma gli americani sono stati abbastanza intelligenti a mettere delle barriere, cioè a non permettere a questi mercenari di avere una voce in capitolo sia negli States che in politica internazionale. Gli americani cercarono di usare i contractors anche nel 2001 quando invasero l’Afghanistan. C’è una famosa foto dove li si vede scendere da un aereo militare yankee, col cappello a tesa, la giacca e la cravatta. Mancava che avessero scritto in fronte ‘Cia’. I Talebani li sgamarono subito, non che ci volesse un intuito particolare, e la coalizione internazionale fu costretta a ricorrere ai soldati regolari.

Comunque non è un buon segno quando un popolo è costretto a rivolgersi a dei mercenari perché la sua gente non ha più alcuna voglia di combattere e rischiare la pelle. L’Impero romano, la più grande potenza del mondo di allora, almeno in occidente, collassò quando i suoi cittadini (allora non si chiamavano ancora così, citoyen è un termine entrato in uso con la Rivoluzione francese per distinguere i borghesi dal volgo, dai ‘villani’, cioè gli abitanti del villaggio) cominciarono a rifiutare il mestiere delle armi, affidando la loro difesa ai barbari, cioè ai mercenari di allora. Risultato: i barbari presero il potere, spostarono la capitale da Roma, ridotta a 13mila abitanti dai lanzichenecchi, a Pavia. Poi nel corso dei secoli, Roma e l’Italia, pur profondamente cambiate rispetto alle loro origini, ripresero il loro posto nel mondo. Quel posto che Mussolini cercò di ridargli, utilizzando tutta la mistica dell’antica Roma, i labari, il littorio eccetera, ma intanto altre potenze si erano affacciate all’onor del mondo: gli Stati Uniti, la Germania, il Giappone e naturalmente gli inglesi che non erano più quelli del vallo di Adriano.

Comunque, devo ammetterlo, ho avuto una certa simpatia per Prigožin. In questa guerra di droni, di sottodroni, i droni acquatici, i droni subacquei guidati a migliaia di chilometri di distanza, insomma in gran misura meccanizzata dove l’umano compare ma solo come vittima, Prigožin mi è sembrato almeno un uomo in carne ed ossa.

 Il Fatto Quotidiano, 25.08.2023