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La sentenza con cui il Tribunale di Catania, nella persona del giudice Iolanda Apostolico, non ha convalidato il trattenimento di tre migranti tunisini, ha suscitato un putiferio. Contro la sentenza si sono scagliati i berluscones di tutte le risme e anche non strettamente berlusconiani, come la premier Giorgia Meloni, che dovrebbe conoscere i fondamentali della democrazia. Secondo la classica definizione di Montesquieu in democrazia esistono tre Poteri, distinti per funzioni e indipendenti l’uno dall’altro: il potere esecutivo che decide i provvedimenti concreti, il potere parlamentare che controlla politicamente le decisioni dell’esecutivo e il potere giudiziario che controlla che le leggi approvate dal Parlamento e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale non contrastino, dal punto di vista della giurisdizione, queste stesse leggi. Inoltre ha il compito di dare stabilità all’intero sistema, nel penale e nel civile, regolando i rapporti tra i cittadini, sancendo quali abbiano violato le leggi e quali no. In altri termini se io ho violato norme del codice penale o di quello civile devo essere punito nel più breve tempo possibile. Se sono stato accusato ingiustamente devo essere assolto nel più breve tempo possibile. Purtroppo in Italia i tempi del processo hanno una durata da plantigradi. Ed è questo il vero, grande, problema della Giustizia italiana, non la “terzietà” dei giudici o la composizione del Csm.

Sulla personalità della Apostolico i giornali berluscones, ma anche non berluscones, si sono accaniti andando a scovare sui social network le dichiarazioni della magistrata e le sue intuibili predilezioni ideologiche. E qui hanno ragione perché il magistrato, come la moglie di Cesare, non solo deve essere onesto ma deve anche apparire onesto. Purtroppo in quest’Italia, che è la madre del Diritto ma se lo è dimenticato, i magistrati non sono più quelli di un tempo che parlavano solo “per atti e documenti” e stavano molto attenti anche alle loro relazioni personali. Giustamente il Codice di Alfredo Rocco, che sarà stato pure fascista ma era un grande giurista, fa riferimento agli Uffici (la Procura della Repubblica di,  il Tribunale di, eccetera) e non al singolo magistrato. Perché il magistrato può essere anche ineccepibile, ma avrà pur sempre una moglie, dei figli, degli amici e quindi è attaccabile, la funzione no. Non per nulla, da ultimo, i giornali sono andati a ravanare sui comportamenti del marito della Apostolico.

Ma la questione, da più di un quarto di secolo, è tutta un’altra. E parte da quando i magistrati milanesi di Mani Pulite, nel periodo ‘92-’94, chiamarono la classe dirigente politica e imprenditoriale al rispetto di quelle leggi a cui tutti noi cittadini siamo obbligati (prima le inchieste più scottanti per i politici e i “colletti bianchi” finivano alla Procura generale di Roma, detta anche “il porto delle nebbie” e nella nebbia sparivano). Dopo un primo periodo di euforia (editoriale di Paolo Mieli sul Corriere, “dieci domande a Tonino”, come se ci avesse mangiato insieme a Montenero di Bisaccia) nel giro di pochi anni i veri colpevoli divennero i magistrati e i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici. Antonio di Pietro, che era il più visibile perché aveva condotto gli interrogatori trasmessi anche dalla televisione in “Un giorno in pretura”, fu il più bersagliato. Subì sette processi da cui venne regolarmente assolto. In uno di questi processi Silvio Berlusconi, il più mascalzone di tutti i mascalzoni, intervenì su due personaggi perché testimoniassero contro Di Pietro. I personaggi furono condannati ma Berlusconi, del tutto incongruamente, assolto grazie ad una delle sue tante leggi “ad personam”. Che poi divennero “ad personas” perché bisognava salvare anche i “colletti bianchi”. Ed è più di un quarto di secolo che c’è una lotta all’arma bianca della classe dirigente contro la Magistratura. Basterà ricordare, fra tutti gli esempi che si possono fare, che Berlusconi premier affermò in terra di Spagna che Mani Pulite era una “guerra civile”. Si è creato così nel tempo, come dimostrano anche gli ultimi provvedimenti del governo Meloni, un doppio diritto, uno per lor signori e uno per il cittadino comune. Per sintetizzare e semplificare basta la dichiarazione di madama Santanché che per i delitti da strada, quelli commessi in genere dai poveracci, vuole “galera subito e buttare via le chiavi”. La spiegazione che si dà a questo “doppio diritto” è che i delitti da strada creano allarme sociale. E certamente il borseggio di una vecchietta è cosa grave, ma una bancarotta fraudolenta mette sul lastrico cento vecchiette che hanno affidato i loro soldi a quel covo di canaglie che sono le Banche. Insomma è la solita, sfacciata, infame, sporca giustizia di classe.

L’appoggio della collettività a Mani Pulite fu sgretolato: Di Pietro fu infamato, Feltri comprato, Bossi innocuizzato sbandierandogli sul muso i reati di opinione che aveva commesso (“vilipendio alla bandiera”, eccetera), Gianfranco Funari che era stato protagonista di quella stagione irripetibile fu costretto alla ridotta di Odeon.

Ma il mio slogan è e resta: ”toglietemi tutto, tranne Antonio Di Pietro”, yeah!.  

Il Fatto Quotidiano, 6.10.2023

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James Hansen, ex diplomatico di lungo corso, profondo conoscitore delle realtà internazionali, passato poi al giornalismo (ha lavorato per l’Herald Tribune e il Daily Telegraph) ha scritto in una sua “nota diplomatica”: “In Afghanistan ci sono andati tutti. Una lista, incompleta, comprende l’Impero macedone di Alessandro il Grande, l’Impero mongolo di Gengis Khan, l’Impero timuride di Tamerlano, l’Impero Mughal, vari imperi persiani, l’Impero britannico, l’Unione Sovietica e, più di recente, gli Stati Uniti. Se ne sono andati via tutti, malamente e sempre con la necessità di spiegare a casa come quattro straccioni afghani siano stati capaci di cacciarli”.

Fin qui Hansen. Possibile che gli americani che hanno centri studi e di ricerca ovunque, soprattutto in materia di strategia militare, non sapessero quello che sa Hansen e cioè che andare in Afghanistan è come mettere il piede nelle sabbie mobili e affondarvi?. L’ultima invasione, quella degli Occidentali, è particolarmente significativa perché l’esercito più numeroso che sia stato schierato dopo la Seconda guerra mondiale, dotato di armi tecnicamente sofisticate, è stato messo sotto dai talebani che avevano a disposizione il Kalashnikov, con cui non potevano raggiungere i B52 e i caccia che volavano a 10 mila metri d’altezza, e gli Ied. Avevano però una motivazione fortissima: difendere la loro terra e la loro indipendenza, quella motivazione che li ha sostenuti quasi dall’alba del mondo (la campagna di Kabul di Alessandro Magno è del 327-325 avanti Cristo).

Ma questa è storia del passato e del trapassato. Attualmente i new taliban, come vengono chiamati, hanno soppresso la coltivazione del papavero, da cui si ricava l’oppio, seguendo la linea del Mullah Omar che nel 2000 aveva preso e attuato concretamente questo provvedimento e la produzione dell’oppio era crollata quasi a zero. Poiché i media occidentali, a parte un fuggevole accenno di Sergio Romano, hanno sempre ignorato questo coraggioso provvedimento preso dal Mullah è utile vedere in proposito, a pro dei perenni increduli in malafede, il prospetto pubblicato il 17 maggio 2006 dall’insospettabile, in questo caso, Corriere della Sera.

Intanto il governo afghano ha messo a terra grandi progetti di ingegneria civile per la ricostruzione del Paese. In questo, aiutato dalla Cina, con cui confina, l’unico paese che non li abbia mai aggrediti. Del resto questo rapporto di buon vicinato conviene sia all’Afghanistan che alla Cina. I cinesi stanno scoprendo in Afghanistan grandi depositi di litio, diventato indispensabile per la produzione delle batterie e quindi per tutto il mondo digitale. Di recente una delegazione afghana (e quindi talebana) ha incontrato gli omologhi cinesi. Dalla Cina gli afghani sperano anche di ottenere il riconoscimento di Stato rappresentato all’Onu che gli è stato finora negato. Un’esclusione incomprensibile dato che perché esista uno Stato deve avere tre requisiti: un governo, un territorio, una popolazione. E l’Afghanistan li ha tutti e tre.

Scrive ancora Hansen che i talebani sono stati “mostrificati” -Hansen dice dai media americani io aggiungerei da tutti i media internazionali legati all’Occidente- per il modo in cui trattano le donne. Forse bisognerebbe capire una volta per tutte che quella afghana, non solo talebana, perché coinvolge tutte le etnie del Paese a cominciare dai tagiki del fu Massud, è diversa dalla nostra. Quando il Mullah Omar fu scalzato dal potere e diede inizio ad una resistenza durata vent’anni, il governo fu preso dai tagiki ma tutti gli afghani, tagiki, pashtun, hazara che fossero, si infuriavano a vedere che “le vispe terese” delle varie Ong sculavano a Kabul in Hot pants. La direzione di Tolo tv, l’emittente statale dell'Afghanistan, fu presa da un tagiko il quale si rifiutava di parlare con le sue redattrici.

Ora c’è da sperare che gli occidentali, tutti impegnati a sostenere il buffone di Kiev, non si rendano conto che i costumi afghani sono rimasti quello che sono sempre stati. Per ora sono distratti, occupati dalla guerra russo-ucraina, ma basta poco perché in nome della donna invadano di nuovo l’Afghanistan facendo la fine di tutti gli imperi possibili e immaginabili come ha segnalato Hansen. Se non ce l’ha fatta Gengis Khan, che non era uno che andava per il sottile, fece una trentina di milioni di vittime in Eurasia, figuriamoci se ci riusciamo noi con le nostre “volontarie” sculettanti. Da questo discorso va esclusa Emergency di Gino Strada che in Afghanistan tenne sempre una posizione equidistante, occupandosi di curare i feriti che erano soprattutto guerriglieri talib perché i militari occidentali erano curati negli ospedali sotto controllo degli occupanti, per cui si procurò la nomea di filo-talebano, così come oggi chi osa criticare Zelensky e il governo di Kiev viene immediatamente bollato come “filo-putiniano”.

Il Fatto Quotidiano, 3.10.2023

Sky

Clamoroso al Cibali: Chiara Martinoli è tornata sabato sera sugli schermi Sky. Per chi voglia saperne di più sulla grazia, femminile ma anche maschile, può leggere la voce sul mio Di(zion)ario erotico, uno dei miei migliori pezzi, forse il migliore in assoluto.

m.f

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Nei giorni scorsi una formazione di serbo-kosovari, definiti “criminali” dal Corriere, mentre sono degli indipendentisti come lo erano i russofoni del Donbass, ha teso un’imboscata ad agenti dell’esercito “regolare” del Kosovo. Risultato: un agente morto, sette assalitori uccisi nonostante si fossero rifugiati in una chiesa ortodossa e quindi non rispettando nemmeno il secolare “diritto d’asilo”.

La notizia è passata quasi inosservata sulle pagine degli esteri dei nostri giornali, tutti impegnati ad esaltare l’Ucraina del buffone Zelensky ai danni della Russia secondo diktat Usa. Non c’è articolo che non cominci, o non dia per presupposto, che “c’è un aggressore e un aggredito”, d’accordo ma c’era un aggressore anche nel 1999 proprio nei confronti della Serbia (Nato, cioè americani), c’era un aggressore, sempre Nato con i suoi satelliti, anche nel 2003 in Iraq, c’era un aggressore, anzi più aggressori, americani, francesi e italiani, nel 2011 quando fu invasa la Libia e ucciso Muhammar Gheddafi nel modo barbaro che conosciamo, ma in questi casi non si è mai fatta la distinzione fra “aggressore e aggredito” trovando per queste aggressioni motivazioni farsa e nomignoli grotteschi come “operazione di peacekeeping”, “operazione di polizia internazionale” (e per pietas nei confronti del lettore lascio perdere tutta la vicenda afgano-talebana).

La questione del Kosovo ha origine nelle guerre balcaniche fra croati, serbi e musulmani. Queste guerre avevano a loro volta alle spalle la disgregazione della Jugoslavia. Nel 1991 la Slovenia dichiarò la propria indipendenza dalla Jugoslavia di Tito senza colpo ferire, sempre nel 1991 la Croazia, cattolica, chiese ed ottenne dall’Onu l’indipendenza con l’appoggio della Germania e del Papa, il cosiddetto “santo padre”. Allora anche  i serbi di Bosnia chiesero quello che avevano ottenuto Slovenia e Croazia, l’indipendenza o la riunione con la madrepatria serba. Ma gli venne negata. E i serbi scesero in guerra. Quella guerra i serbi l’avevano vinta, perché a sentire gli addetti ai lavori, sono i migliori combattenti sul terreno. Ma intervennero gli americani che decisero di creare uno Stato inesistente, la Bosnia, che nella Jugoslavia era solo una regione, e trasformarono i vincitori in vinti. I serbi di Bosnia, oltre a quelle già accennate, avevano delle buone ragioni dalla loro parte: è ovvio che una Bosnia multietnica era concepibile solo all’interno di una Jugoslavia multietnica, una Bosnia multietnica a guida musulmana, integralista, era proprio una cosa che non si poteva vedé. L’accordo di Dayton del 1995, firmato da tutte le parti in causa ed in più dagli Stati Uniti e dalla Germania che non si capisce che cazzo c’entrassero, mise fine alle guerre balcaniche. Fu firmato anche, ovviamente, da Slobodan Milosevic che in seguito sarà mandato davanti al cosiddetto Tribunale Internazionale dell’Aja per “crimini di guerra”, il solito tribunale dei vincitori, e morirà in carcere per un infarto molto sospetto, diciamo un infarto alla Putin.

Non contenti di aver umiliato la Serbia in tutti i modi gli americani l’aggredirono, contro la volontà dell’Onu,  nel 1999, col pretesto del Kosovo. In Kosovo, terra serba da sempre, anzi “la culla della nazione serba”, i musulmani erano diventati maggioranza e chiedevano l’indipendenza e come in tutte le guerre partigiane facevano largo uso, legittimamente a mio vedere, del terrorismo, la Serbia rispondeva con l’esercito e gruppi paramilitari, le famose “tigri di Arkan”. Era una questione interna allo Stato serbo. Ma intervennero gli americani che decisero che i serbi avevano torto. Nei primi mesi del 1999 a Rambouillet fu proposto alla Serbia un trattato di pace assolutamente inaccettabile: la Serbia avrebbe dovuto rinunciare non solo ad ogni diritto sul Kosovo ma alla sua stessa sovranità. E fu la guerra. Per 72 giorni gli americani bombardarono una grande e colta (Kusturica, Bregovic) capitale europea come Belgrado (poi non ci si può lamentare se in una situazione quasi speculare Putin bombarda Kiev). Risultato: 5500 morti civili (l’esercito serbo, privo di contraerea, non aveva potuto rispondere) fra cui 500 albanesi, proprio quelli che si pretendeva di proteggere. E sotto questi bombardamenti ci furono gli eccidi che furono addebitati all’esercito serbo. In realtà ce ne fu uno solo, a Račak (45 vittime civili), ma la Cnn, seguita caninamente dalle televisioni italiane, lo ripresentava ogni sera, ma visto da prospettive diverse, per cui sembrava che gli eccidi fossero multipli, per aumentarne l’impatto sull’opinione pubblica.  

L’indipendenza del Kosovo è ratificata da 101 Stati su 193. La questione è quindi ancora aperta. È bene ricordare che il diritto su un paese non appartiene all’etnia che in quel momento ha la maggioranza, appartiene a chi quel paese ha contribuito a formare, lavorandoci sopra, altrimenti il Piemonte, qualora vi si imponesse una maggioranza di immigrati musulmani, dovrebbe essere tolto all’Italia e dato a questi ultimi.

Nel frattempo dei 300 mila serbi che abitavano in Kosovo ne sono rimasti 100 mila. La più grande “pulizia etnica” dei Balcani, dopo quella dal premier croato Tudjman che in un sol giorno cacciò 800 mila serbi dalle krajine. E questa volta complice è la KFOR, cioè le forze Nato che presidiano il Kosovo e nella KFOR sono presenti anche gli italiani con 850 soldati.

L’Europa intera dimentica di avere un grande debito di riconoscenza con i serbi. Fu la resistenza serba, durata tre settimane, a ritardare l’aggressione nazista alla Russia, tre settimane che furono fatali ad Hitler perché la Wehrmacht si trovò impantanata, come le armate di Napoleone, nell’inverno russo.

Particolarmente stolida è l’ostilità dell’Italia verso la Serbia. Noi italiani non abbiamo mai avuto contenziosi con la Serbia, gli abbiamo avuti con i fascisti croati che verso la fine della seconda guerra mondiale “infoibarono” i nostri, militari e soprattutto civili. Nei primi anni del Novecento in Serbia si guardava alla monarchia italiana come ad un esempio e si pubblicava un quotidiano intitolato “Piemonte”.

Gli scontri di cui abbiamo parlato all’inizio sono solo l’antipasto di ciò che verrà. Il sentimento generale serbo è quello espresso dal tennista Nole Djokovic: “Il Kosovo è serbo e sarà sempre serbo”. In attesa che si sveglino anche i serbi di Bosnia.

Ps. Una cosa intollerabile fu la scomunica della squadra jugoslava dagli europei di Svezia del 1992. Quella squadra era formata, fra gli altri, da Stojkovic, serbo, Savicevic, montenegrino, Prosinecki, croato, Jugovic, serbo, Boban, croato, Mihajilovic, serbo e dal basilare Bazdarevic, bosniaco, regista che  calmava i bollori di una squadra dove tutti, anche i terzini, erano votati all’attacco. Quella squadra aveva vinto tutte le partite delle qualificazioni, tranne una pareggiata. I ragazzi erano già in Svezia e per imposizione della FIFA e della UEFA furono cacciati a pedate. Un’ignominia calcistica che fa quasi paro con quelle, non sportive, di cui abbiamo parlato.

Il Fatto Quotidiano, 28.09.2023