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È tornato all’onor del mondo Antonio Di Pietro, il frontman di quello straordinario pool di Mani Pulite diretto con polso fermo da quel gran signore di Francesco Saverio Borrelli di cui tutti oggi si vorrebbero dimenticare come si vorrebbe dimenticare Di Pietro. Ma poiché esiste una commissione parlamentare  Antimafia è stato giocoforza convocare anche Di Pietro. Qual é la tesi sostanziale dell’ex pm? Che mafia e mondo imprenditoriale erano collusi. Di Pietro spiega anche carte alla mano che gli fu in vari modi impedito di indagare su questa collusione con la complicità anche di magistrati. Sono tutte cose note ma è bene richiamarle alla memoria.

Più interessante è il giudizio che ne dà il Giornale di venerdì 24. Scrive Felice Manti, riassumendo un po’ il pensiero di tutto il mondo berlusconiano e non solo: “Sono passati più di 30 anni da quel dannato 1992 che ha riscritto la storia d’Italia”. Quel 1992 non fu affatto dannato, fu la prima volta, da quando il Pci si era consociato al potere, in cui la Magistratura, grazie all’emergere di un movimento nuovo, la Lega di Umberto Bossi, che l’opposizione la faceva davvero, poté indagare liberamente sulla collusione fra mondo imprenditoriale e quello mafioso. Ho raccontato altre volte, ma anche questo va ricordato, come il pretore di Piacenza, Angelo Milana, fece, pochi anni prima delle inchieste di Di Pietro, con una Lega solo nascente, le stesse inchieste di Di Pietro mettendo in galera il sindaco comunista e quello socialista di Piacenza insieme all’importante imprenditore Vincenzo Romagnoli. Apriti cielo, tutto l’“arco costituzionale” e non, compreso quindi l’Msi, e persino il vescovo della città, ottenne che il Csm rimuovesse Milana dal suo posto per relegarlo a Trieste, che non è proprio a due passi da Piacenza. Milana era un vecchio giudice, disse: “Se le cose a voi van bene così, sapete qual è la novità? Io me ne vado in pensione”.

Poiché il vento era così cambiato e la Magistratura poteva fare il suo dovere, chiamando la classe dirigente politica e imprenditoriale al rispetto di quelle leggi a cui tutti noi, comuni mortali, siamo tenuti, all’inizio da parte dei grandi giornali ci fu un’esaltazione, a sua volta esagerata, dei magistrati di Mani Pulite, esagerata perché il codice Rocco voleva che fosse sottolineata la funzione della magistratura, non dei singoli magistrati, per evitare una personalizzazione pericolosa, perché il magistrato avrà una moglie, una fidanzata, degli amici, ed è quindi sempre attaccabile, la funzione no. Se leggete le cronache di allora potete vedere come sia Borrelli che Di Pietro limitarono al massimo le loro esternazioni. Per quel che mi riguarda io, che lavoravo allora all’Indipendente, non parlai mai dei singoli magistrati di Mani Pulite ma della “Procura della Repubblica di Milano”. Ma poi Di Pietro cedette al corteggiamento ossessivo, ricorderò ancora l’infame editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera intitolato “Dieci domande a Tonino”. Tonino come se ci avesse mangiato insieme a Montenero di Bisaccia. In seguito, cambiato di nuovo molto velocemente il vento, i magistrati divennero i veri colpevoli (“Sporcano l’immagine dell’Italia”, Berlusconi) colpevoli di aver applicato la legge e i ladri le vittime, spesso diventati giudici dei loro giudici.

Di Pietro, il più esposto, fu aggredito con sette inchieste giudiziarie da cui uscì regolarmente assolto (in una Berlusconi manovrò perché due personaggi testimoniassero contro l’ex pm, costoro furono condannati, ma Berlusconi, il mandante, si salvò come sempre).

Ho chiesto più volte a Di Pietro perché non si fosse presentato alle elezioni politiche, nel clima di quel momento, con tutta l’Italia a favore di Mani Pulite, avrebbe preso il 90 per cento dei voti. Rispose: “Non sarebbe stato corretto approfittare della mia notorietà di magistrato”. Gli replicai con una frase che utilizzai poi al Palavobis, il primo grande “girotondo” organizzato da Paolo Flores D’Arcais: “Non si può combattere con una mano dietro la schiena, quando gli altri le usano tutte e due accompagnate da un bastone”. Per quella frase il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, per soprammercato un leghista, interrogato dal sempiterno Vespa, propose il mio arresto. A parte che non spetta al ministro della Giustizia arrestare chicchessia, in effetti quella frase incitava alla violenza. Riprendendo Sandro Pertini avevo detto: “A  brigante, brigante e mezzo”. La violenza noi non abbiamo avuto la forza e il coraggio di farla, è uno dei tanti tabù della Democrazia (se ne parli a Marco Travaglio va in catalessi), eppure è Marx che dice che la violenza è “la levatrice della Storia”. Così ligi, così rispettosi, pecore da tosare, asini al basto, la storia ci è giustamente girata nel culo. Menomale che ogni tanto dalle campagne contadine di Montenero di Bisaccia riemerge Antonio Di Pietro a ricordarci come andarono veramente le cose ai tempi di Mani Pulite. Un crinale che avrebbe potuto cambiare realmente la storia d’Italia e che invece si è rivoltato, come un boomerang, contro i cittadini italiani. È dal dopo 1992 – 1994 che è cominciata una campagna contro la magistratura, condotta soprattutto dai media berlusconiani, come rivela ingenuamente il cronista del Giornale, berlusconiani ma non solo per arrivare alla realtà di oggi di un doppio diritto: uno per ‘lorsignori’, un altro per quelli che vengono chiamati sprezzantemente, senza nemmeno accorgersi di questa implicita violenza, i “cittadini comuni”.

Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2023

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Secondo la lettrice Lidia Tarenzi (Fatto, 18/11) io sarei di destra perché mi rifiuto di mangiare carne sintetica. La lettrice evoca una serie di vantaggi green ed economici: risparmio di acqua, risparmio di energia, risparmio di antibiotici, risparmio di ormoni di cui fanno largo uso gli allevamenti intensivi. Eh già. La responsabilità è sempre della mucca che ha la colpa di scoreggiare come mucca comanda. La lettrice non sembra rendersi conto che tutti ‘i vantaggi’ di cui si fa paladina, che servono a colmare degli ‘svantaggi’ perduti, non esisterebbero se non si fosse imposto il modello “paranoico” dell’Occidente che ha ormai permeato di sé il mondo intero, anche la Cina, dove un tempo, accontentandosi di una dieta di riso, i cinesi sono arrivati ad essere quasi un miliardo e mezzo.

Finché abbiamo vissuto un’esistenza normale, diciamo prima dell’era industriale, non c’era inquinamento per cui non ci si doveva preoccupare delle scoregge delle mucche anche perché gli allevamenti intensivi non esistevano. Li ha creati la modernità contribuendo con ciò a distruggere l’Africa nera (si legga in proposito La mia Africa di Karen Blixen). L’acqua c’era per tutti tranne che nei deserti, che hanno pur loro una ragion d’essere, e gli autoctoni, poniamo per esempio i Tuareg, nomadi, non sentivano il bisogno di cementificarli anche perché ingegnandosi sapevano trarre dal deserto quel tanto di acqua che era loro sufficiente, si vedano in proposito le opere del geografo e viaggiatore Eugenio Turri (ma leggete, perdio, leggete!).

Eppoi è molto manicheo credere che tutto ciò che fa la destra è ‘malo’ e tutto ciò che fa la sinistra è ‘bono’. Tra l’altro destra/sinistra sono due facce della stessa medaglia, sono entrambe illuministe, ottimiste, progressiste, economiciste, entrambe hanno messo al centro del sistema l’Economia e la sua sorella gemella la Tecnologia, da cui è nato quel nano abnorme e deforme che è la Pubblicità diventato nel frattempo un gigante di fronte al quale noi lillipuziani non possiamo niente.

Le destre e le sinistre attuali, almeno quelle omologate come tali, non sono in grado di intercettare le esigenze più profonde dell’uomo contemporaneo che per quanto ciò possa sembrar strano, non sono economiche ma esistenziali. La comunità? Sparita. La fratellanza? Scomparsa. Il pudore? Inesistente. La dignitas latina, che fra le tante altre cose significa onestà, lealtà, protezione dei deboli (i valori che incarnava Catilina) spazzata via. Sono i valori che ho definito “pre-politici, pre-ideologici, pre-religiosi”, cioè i valori tradizionali che resistono ancora in aree sempre più periferiche dell’Impero. È in nome di questi valori che io, ma non solo io, preferisco mangiare una bistecca non sintetica, arrostita lo ammetto (ma anche sulla scoperta del fuoco i Greci avevano qualche perplessità, si veda il mito di Prometeo cui un’aquila artiglia perennemente il fegato – ma si veda anche, per par condicio, il bellissimo libro di Roy Lewis, La scimmia più intelligente del Pleistocene, una sorta di anti-Fini) come facevano i nostri nonni, i loro nonni e i nonni dei nonni.  

Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2023

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“Caro amico ti scrivo” (Lucio Dalla).

Caro Antonio, prima a piccoli passi poi con una progressività sempre crescente stanno distruggendo il nostro grande giocattolo: il calcio che è diventato sempre più un fatto economico che ha prevalso su tutti gli elementi rituali, mitici, simbolici, sentimentali, emotivi che avevano fatto la fortuna di questo gioco per un secolo e mezzo. Il punto di partenza è stata la “legge Bosman” che ha mortificato i vivai. Dopo Superga il Toro dovette necessariamente ricorrere al vivaio perché nel dopoguerra non c’erano i soldi per comprare giocatori e sotto la guida sapiente di Vatta sfornò giovani che sarebbero diventati dei campioni, Rosato, Cella, Ferrini, Pulici, Graziani. Oggi chi rischierebbe di puntare su un giovane dal futuro inevitabilmente incerto, quando può acquistarne uno, già formato, prelevato dalle grandi squadre nazionali e internazionali? Oggi i giocatori cambiano squadra ogni anno e all’interno dello stesso campionato, con tanti saluti alla regolarità del torneo, e per esigenze pubblicitarie in trasferta cambiano le maglie tradizionali. Una ventina di anni fa assistevo ad una partita con il mio amico Giagi, interista. Mi disse: “solo quando ho visto i baffi dello ‘zio’, Bergomi, mi sono reso conto che in campo c’erano i nerazzurri”.

Fu la “grande Olanda” dei Neeskens, Cruijff, Rensenbrink, Krol a inventare il “calcio totale”. Si dice che anche quello di oggi è un calcio totale perché tutti i giocatori, compreso il portiere, sono di movimento. Ma sono due cose molto diverse. Cruijff e gli altri giocavano in ogni parte del campo dove l’estro e l’istinto li portavano, il portiere, Jongbloed, un pazzo, stava stabilmente sul cerchio del centrocampo. Il calcio di oggi invece è monotono. Tu sai che gli ‘esterni’ devono andare su e giù lungo la linea laterale per poi crossare, che anche un calciatore di centrocampo deve stare li e non là, altrimenti si becca un cazziatone dall’allenatore. Insomma è un calcio molto tattico dove il vero frontman è l’allenatore, aiutato in questo anche dal fatto che può fare cinque cambi (si pensava che il passaggio dai tre ai cinque cambi fosse temporaneo a causa del covid, invece è rimasto). Come può una squadra media affrontarne un’altra dove in panchina c’è una squadra equivalente alla prima? Inoltre l’allenatore deve cedere il campo ai procuratori, che guadagnano spesso più dei calciatori, perché dominano il calciomercato e sono quindi indispensabili per assicurarsi ‘i meglio fichi del bigoncio’.

In questo marasma senile del calcio non è più possibile immedesimarsi in un giocatore simbolo, il Bulgarelli o il Riva d’antan. Solo Totti, romano de Roma, ha avuto il coraggio di rimanere nella sua città, rinunciando a ingaggi favolosi.

Il calcio è diventato un gioco da educande, basta una spinta un po’ robusta che ti becchi non solo il fallo, ma il giallo e anche il rosso. Se poi il giocatore perde un po’ di sangue è la fine del mondo. In altri tempi io ho visto Butcher, centrale dell’Inghilterra, giocare un tempo con la maglia e i calzoncini insanguinati. Questo politically correct lo si vorrebbe applicare anche alle tifoserie, adesso oltre la ‘discriminazione razziale’ esiste la ‘discriminazione territoriale’. Se sei del Verona non puoi dire “forza Vesuvio” e i napoletani rispondere con “Giulietta era una troia”. Si è dimenticato che dare sfogo a questa aggressività sostanzialmente innocua evita “i delitti delle villette a schiera” come li ha chiamati Ceronetti.

Poi ci sono altre cose che avvengono fuori dal rettangolo di gioco. Il Var per cui tu prima di esultare dopo una rete devi aspettare cinque minuti la decisione del Var i cui componenti stanno in qualche catacomba dentro lo stadio e anche, a volte, lontani dallo stadio. Col Var, a differenza dell’arbitro, anch’esso esautorato, non puoi sentire la durezza dei colpi. Inoltre il Var, che pretende un’esattezza assoluta, non evita le polemiche del dopopartita, come le cronache ci raccontano. Insomma, per dirla in senso lato, la tecnologia e il denaro hanno finito per prevalere su tutto (tanto varrebbe giocare qualche titolo in Borsa). Infine c’è la musica assordante, prima dopo e a volte anche durante la partita. Lo stadio non è una discoteca.

Perché, caro Antonio, ci ostiniamo a seguire questo gioco che ha perso quasi tutti i suoi elementi fondanti? Perché tutti, naturalmente ognuno al suo livello, lo abbiamo giocato. All’epoca nostra, per noi ragazzi, c’era solo il calcio, il tennis era uno sport da ricchi, il basket e il baseball erano troppo americani (“tu vuo’ fa’ mericano…tu abball' o' rock'n'roll, tu gioch' a baseball” cantava con grande anticipo, che riguarda non solo il mondo del calcio, Renato Carosone, 1956).

Tutti quindi, nella nostra generazione, abbiamo giocato a calcio. Tranne Giampiero Mughini che faceva le parallele e in seguito è diventato cantore del nostro giocattolo. E questo dice tutto.

Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2023