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Nei giorni scorsi si è tenuta a Roma all’Auditorium della Conciliazione la quarta edizione degli “Stati generali della natalità”. Ad Eugenia Roccella, ministro/a della Famiglia, è stato di fatto impedito di parlare da un gruppo di giovani che peraltro non si capiva bene che cosa mai contestassero. Polemiche. Intervento solidale di Sergio Mattarella e di quasi tutti i partiti, di maggioranza e d’opposizione. Così, il tema fondamentale della denatalità indissolubilmente legato a quello, altrettanto fondamentale, dell’invecchiamento della popolazione, è finito nel solito bordello.

L’Italia ha il più basso tasso di natalità, cioè 1.20, al mondo. Abbiamo superato in questa sinistra classifica anche il Giappone, che ci precede però in quella, altrettanto sinistra, dell’invecchiamento. In Italia l’aspettativa di vita è di 81.6 anni per gli uomini e 85.6 per le donne. Poiché in Italia le donne che lavorano sono più della metà della popolazione (il 55 per cento circa) il problema si pone soprattutto per loro. Divise tra carriera e maternità riluttano a fare figli e rimandano la scelta il più tardi possibile. In Italia le donne diventano madri intorno ai 32 anni e l’8.9 per cento dei neonati ha una madre oltre i quaranta. Le donne sono state prese dall’abbaglio, anche a causa di alcuni esempi malsani, fra cui quello di Gianna Nannini che, grazie all’inseminazione artificiale, ha avuto un figlio a 56 anni. Le donne hanno creduto che si possa fare figli praticamente a qualsiasi età. Non è così. I ventisette sono gli anni della massima fecondità della donna, che dopo va lentamente ma gradualmente a scendere. A quarant’anni si può avere normalmente il terzo figlio, non il primo. Conosco donne che, per motivi economici ma non solo (in realtà la povertà non è un ostacolo a fare figli, in Africa Nera il tasso di natalità è intorno al 5, nel Medio Oriente islamico è abbondantemente oltre il 2, che è la soglia minima per avere un equilibrio demografico), hanno ritardato al massimo il momento di figliare e, alla fine, non ci sono riuscite. Perché i figli non vengono quando ci fa più comodo.

Come si risolve, o meglio si tampona perché risolverlo non si può, un fenomeno di questo genere? Con una politica a favore della famiglia, come si sgola tra gli altri, con la sua voce quasi non più percettibile (87 anni), papa Francesco?  Con una politica a favore della famiglia, asili nido gratuiti, aiuti economici, detassazione (ricordo, per incidens, che nel diritto romano i maschi celibi pagavano più imposte del resto della popolazione)? Anche su questo punto siamo in ritardo su altri Paesi europei, come la Francia che è riuscita faticosamente a portare il suo tasso di natalità a 1.79, comunque non sufficiente per avere l’agognato pareggio demografico.

Poi c’è l’altro corno della questione: l’invecchiamento. Un invecchiamento che, secondo una propaganda non disinteressata, è spostato sempre più in là nel tempo. A sentir costoro non ci dovrebbero essere più vecchi. Un uomo che oggi ha settant’anni avrebbe la vitalità di un suo coetaneo di mezzo secolo fa. Si è inventata anche, per il vizio tutto moderno di non dire mai le cose col loro nome, la “quarta età”. Balle. Per me la quarta età inizia quando ti diventa difficile metterti le mutande. Oggi un uomo che ha superato l’età della pensione, 67 anni circa in Italia, ha già dovuto affrontare, oltre ai consueti fastidi e malattie dell’età, lo shock della pensione, un istituto che solo la crudeltà della modernità poteva inventare. Tu perdi, da un giorno all’altro, il ruolo, sia pur modesto, che avevi avuto nella società e adesso “vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”. Si cerca di compensare interessandosi a cose di cui non ci era mai fregato niente, come racconta il bellissimo libro di Flaubert Bouvard & Pecuchet. In epoca preindustriale il vecchio era il detentore del sapere, delegava ai figli, ai numerosi figli, le operazioni più faticose ma conservava un ruolo e la sua vita un senso. Nella nostra società, caratterizzata da continue e velocissime innovazioni tecnologiche, in testa quella digitale che è considerata la panacea di tutti i mali, il sapere è detenuto dai giovani, non dai vecchi. Come dice lo storico Carlo Maria Cipolla “nella società agricola il vecchio è il saggio, in quella moderna, industriale, è un relitto”.

Come si risolve oggi il problema, anzi il dramma, dei vecchi non più considerati nemmeno vecchi? Facendoli falciare sui marciapiedi da ragazzini in monopattino, come avevo proposto io con grande scandalo di Marco Travaglio? Evidentemente non si può. Ma il problema resta, tale e quale. “Una società la cui popolazione sia formata in prevalenza da vecchi - diceva lo psicanalista Cesare Musatti, ultranovantenne e quindi al di là di ogni sospetto - mi farebbe orrore”. Inoltre i vecchi non sopportano la compagnia di altri vecchi perché in essi si rispecchiano. I vecchi stanno in questa fourchette: se son soli si deprimono, e la solitudine, come ci dicono le statistiche, è più omicida del fumo (nel recente lockdown molti vecchi sono morti per solitudine) ma se arriva della gente vogliono solo che se ne vada via al più presto. Senza usare le maniere forti, di tipo nazistoide, com’era raccontato nel bellissimo film I viaggiatori della sera con Ugo Tognazzi, regista, e Ornella Vanoni, si potrebbe eliminare o quantomeno tamponare “l’accanimento terapeutico” su vite, giunte agli estremi, che non hanno più alcuna ragion d’essere. Scrive Max Weber nell’Intellettuale come professione, 1918: “Prendete una tecnologia pratica così sviluppata scientificamente come la medicina moderna. Il ‘presupposto’ generale di questa attività è - in parole povere - che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vita e della riduzione al minimo del dolore. E ciò è problematico. Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita al moribondo, anche se questi implora di esser liberato dalla vita, anche se la sua morte è e dev’essere desiderata - più o meno consapevolmente - dai suoi congiunti, per i quali la sua vita non ha più valore mentre insopportabili sono gli oneri per conservarla, ed essi gli augurano la liberazione dai dolori. Ma i presupposti della medicina impediscono al medico di desistere. La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di esser vissuta. Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini”.

Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2024

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La credenza, o piuttosto la speranza, di trovare degli esseri “alieni”, diciamo dei marziani per semplificare, possibilmente più intelligenti e sapienti di noi, ci vuol poco, ha un forte impulso nell’immediato dopoguerra. Dopo “la morte di Dio”, certificata in particolare dall’esistenzialismo francese, allora egemone, assolutamente laico, scomparso il Grande Protettore (gli antichi, i Greci e i Latini in particolare, avevano pur sempre gli Dèi), si fa viva l’esigenza di condividere con qualcuno, sia pure un “cugino” alla lontana, l’angoscia di essere soli in questo inesplicabile universo. Arrivano quindi film o serie di fantascienza popolare (niente a che vedere con 2001: Odissea nello spazio o Blade Runner), da Star Trek del 1966 o la lunga fila di “Guerre Stellari” cominciata nel 1977 e in action ancora oggi. Sono film comici e grotteschi, soprattutto Star Trek, dove gli ‘alieni’ vengono immaginati con sembianze umane ma distorte, grandi orecchie, nasi proboscidali o da rincoti per dirla con Dino Buzzati, eccetera. Insomma edizioni diurne di film come “La notte dei morti viventi”. Negli anni Cinquanta c’erano poi, per solleticare la fantasia popolare, i film di Maciste che sollevava enormi e improbabili pesi che in realtà erano di pietra pomice (trucco di cui si servì anche Malaparte quando era a Lipari, che di pietra pomice è ricchissima, per tranquillizzare i familiari).

Adesso però la favola degli ‘alieni’ è arrivata, per così dire, a livello istituzionale. Negli Stati Uniti se ne stanno occupando il Pentagono e il Congresso e il parlamento messicano ha ascoltato alcuni esperti sugli extraterrestri provenienti, gli esperti, non gli extraterrestri, da vari Paesi come Stati Uniti, Giappone e Brasile. Persino un pallone-sonda cinese, dopo essere stato visto dagli americani con preoccupazione come una sonda informatica cinese (figuriamoci se i cinesi in epoca di intelligenza artificiale hanno bisogno di palloni-sonda che tutti possono vedere), ha dato la stura all’ipotesi che si trattasse di un’astronave aliena.

Ora è possibile che nell’universo cosmico siano esistite o esistano in futuro specie viventi simili alle nostre. Ciò che è impossibile è che nei tempi cosmici si trovino contemporaneamente. Le probabilità sono dello 0,0000000000001.

Queste speranze negli ‘alieni’ si manifestano soprattutto quando nel mondo, e qui parlo in particolare di quello occidentale, si è persa ogni illusione sul presente e si scarica tutto su un futuro orgiastico che, come a chi pretenda di raggiungere l’orizzonte, si allontana sempre più davanti a noi e si rivela di fatto irraggiungibile.

Canta Don Backy: “Sì, io lo so, tutta la vita sempre solo non sarò e un giorno io saprò d’essere un piccolo pensiero nella più grande immensità” (L’immensità, Don Backy, 1967). Si illude il buon Don Backy, non c’è nessun pensiero sovrumano o diversamente umano che pensi a noi. In questa “grande immensità”, in questo immenso e inesplicabile Universo, siamo soli. Dobbiamo farcene una ragione.

Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2024

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L’altra sera ero a cena in una bella casa, ingentilita da raffinate boiserie, invitato da una signora di mezza età, moglie di grande Autorità. L’ospite era donna moderna, emancipata, acculturata, consapevole, radical chic, femminista, ecologista, superatlantista, pacifista e soprattutto animalista. Ce n’era abbastanza per darmi sui nervi. Sapendo probabilmente – diceva di essere una mia lettrice – che io, a differenza di Feltri, suo idolo, non ho una grande simpatia per gli animali da compagnia, preferendo rinoceronti, bisonti, elefanti, ippopotami e soprattutto il mitico varano dell’isola di Komodo, che è l’unico animale preistorico rimasto sulla faccia della Terra, ingaggiò una discussione sull’animalismo di cui era fautrice fanatica ed estremista. Gli animali, a dir suo, non dovevano essere uccisi e tantomeno torturati. Le feci notare che anche la bistecca che aveva nel piatto era pur sempre appartenuta a qualcuno, che era stato torturato vivendo sotto le luci dei riflettori ventiquattr’ore su ventiquattro e poi serenamente ucciso.

Recentemente in Belgio è stata istituita in Costituzione una norma che obbliga alla “tutela del benessere degli animali”. Norma giusta e saggia se presa con moderazione, non con l’estremismo animalista (io definisco l’animalismo “la malattia infantile dell’ecologismo”). Mi pare che con la tutela del “benessere degli animali” si stia andando troppo oltre. Scrivevo ne Il ribelle dalla A alla Z del 2006: “Quando si arriva a produrre e commercializzare shampoo e linee di beauty per cani, gli si fa indossare, oltre ai cappottini, t-shirt, cappellini, trench, bretelle, stivaletti di montone, occhiali da sole, gli si smaltano le unghie, li si irrora di eau de toilette alla vaniglia perché non odorino da cani, di ‘color highlight’ per fare le meches al pelo, striandolo di rosa, di arancione, di blu, di fucsia, di oro, li si vaporizza con spray antistress, li si porta dallo psicanalista da 300 euro l’ora e infine si stipulano polizze vita a loro favore del valore di 200 milioni di euro, vuol dire che una società è giunta al capolinea”. Si aggiunga che in America, capofila di quest’orgia animalista, si lasciano cospicue eredità soprattutto ai cani, preferiti ai congiunti. Per fortuna le guerre in corso, costringendo a stringere la cinghia, hanno tagliato un po’ le unghie a questo animalismo cretino. Non tutto il male vien per nuocere.

Io, devo ammetterlo, ce l’ho soprattutto con i cani che sarebbero anche delle brave bestie se non fosse per i loro padroni. Si sostiene che fra cane e padrone (per il gatto, più indipendente, la cosa è diversa) c’è “un affetto reciprocamente disinteressato”. Disinteressato un bel niente, perché il cane, come si dice in milanese, “la gà la sua convenienza” perché sgriffa il cibo a gratis. Io credo che gli animali vadano trattati da animali e non umanizzati. Non si potrebbe far loro peggiore ingiuria. Un bel calcio in culo a un cane, diventato fastidioso, ogni tanto va dato, “a cuccia!” infatti si dice. Dei cani poi non mi piace proprio la fedeltà detta appunto “canina”, peraltro sovrapagata. Purtroppo la “fedeltà canina” è anche degli uomini di fronte al Potere, a qualsiasi potere. Dell’uomo dev’essere la lealtà che è cosa ben diversa dalla fedeltà.

In molti Paesi è proibito mangiare carne di cavallo. Fortunatamente in Italia no, in Italia si preferisce fare stramazzare i cavalli al Palio di Siena. L’uomo è un animale onnivoro, e quindi anche carnivoro, e perciò ha il dritto di sfamarsi come meglio può. È antropocentrico, così come il gatto è gattocentrico e il leone leonecentrico. Il leone si stupirebbe molto se qualcuno andasse a dirgli che non è etico che si divori l’antilope.

Se l’ospite dell’altra sera leggerà queste righe mi sarò fatto un nuovo nemico. E la mia ex moglie mi dice che a furia di comportarmi così rimarrò solo come un cane. Ma, visto come stanno andando le cose,  non è detto che, a questo punto, sia uno svantaggio.

Il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2024