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“Non è stato il sonno, ma il Sogno della Ragione ad aver partorito mostri” (m.f)

Secondo il recente Rapporto Censis l’attuale generazione, quindi i giovani, è no stress, cioè “mette al primo posto il valore del tempo libero”. È una tendenza in atto da tempo e ne avevamo dato conto in un pezzo dedicato al Luddite Club, un gruppo di giovani americani che si rifiuta testardamente di lavorare. Ma a parte questi estremismi, segni di questa tendenza erano già venuti a galla: dimissioni volontarie, il rifiuto di fare anche un solo minuto in più di straordinario, quando sono a casa non rompermi. Il Censis definisce sonnambuli questi giovani, perché indifferenti a tutto. Polito, che da quando si è messo a fare l’editorialista non capisce più nulla, afferma che i giovani non hanno poi di che lamentarsi: “L’Italia di oggi non è mai stata più sana, mai così occupata, mai più libera” (Corriere della Sera, 3/12/23). Polito non capisce che le esigenze dei giovani di oggi, e non solo dei giovani, per quanto questo possa apparir strano, non sono economiche ma esistenziali. Manca il sogno, la possibilità di poter sognare qualcosa. Mancano ideali. La generazione del Sessantotto, per quanto cogliona perché cavalcava un’ideologia, il marxismo-leninismo, che sarebbe morta di lì a vent’anni con il collasso dell’Urss, questi ideali, almeno nei suoi esponenti migliori, quindi per fare un esempio Mario Capanna e non i Paolo Mieli che stavano in quell’accozzaglia in attesa di incistarsi nel sistema con un atteggiamento rapinatorio peggiore di quello dei “padroni delle ferriere”, ce li avevano. Pensavano seriamente di poter cambiare il mondo. E poiché il mondo non è cambiato affatto, ma anzi è peggiorato in tutti i settori, si possono capire i “giovani sonnambuli” di oggi.

In alcuni Paesi europei, Germania, Francia, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia e Svizzera, ci si è accorti di questa inversione di tendenza nel rapporto fra lavoro e “tempo liberato”, che non è il famigerato “tempo libero” che è ancora un tempo di consumo, ma un tempo da dedicare a se stessi, alla qualità della vita, alla riflessione. Del resto Papa Wojtyla aveva ammonito che almeno la domenica fosse dedicata al “riposo operoso” (per altro ci sarà pure una ragione se anche Domineddio “il settimo giorno si riposò”). Nei Paesi di cui abbiamo detto hanno capito l’antifona e si lavora solo quattro giorni alla settimana, dal lunedì al giovedì, non perché siano particolarmente filantropi ma hanno constatato che se si è riposati si produce meglio e di più (tutto in questo mondo gira intorno all’economia).

Se non c’è più nulla da sognare che cosa resta a un giovane? Può accontentarsi di ciò che ha senza distruggersi inseguendo, lavorando come una bestia, il sogno americano “dall’ago al milione” (“il lavoro nobilita l’uomo ma lo rende simile alla bestia”). Può rifugiarsi nei sentimenti, che sfuggono alle leggi dell’economia (amore quindi e non odio che può dirigersi solo verso qualcosa che si disprezza, e i “giovani sonnambuli” come non hanno nulla da apprezzare, non hanno nemmeno nulla da disprezzare).  Del resto è Camus ad affermare che “anche un giovane povero può crescere felice col sole e il mare”. E chi non ha nemmeno il mare, dove si consumano gli amori più intensi? È fottuto.

Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2023

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Il debito pubblico americano, al 4 marzo 2023, ammontava a 31 mila miliardi di dollari. Ad agosto era già salito a 32 mila miliardi. A marzo Biden ha approvato 6.8 mila miliardi di dollari per progetti di green economy. Ovviamente questa immissione di denaro nel sistema non avviene stampando moneta ma nella forma del credito. Così si crea l’apparente prosperità di un Paese, pronto ai più generosi impegni.

Sarebbe bene far notare che le grandi crisi finanziarie dell’ultimo secolo, quella di Wall Street del 1929 e quella della Lehman Brothers del 2008, sono nate negli Stati Uniti e si sono poi propagate nell’universo mondo e in particolare in Europa. La differenza tra le due crisi sta nel fatto che nel 1929 il mondo non era ancora completamente globalizzato e quindi l’Europa si poté in qualche modo difendere. In Italia Mussolini creò l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, che fu un’intelligente risposta alla crisi (solo con la Repubblica l’IRI diventerà un baraccone partitocratico) e prese altre misure efficaci per tamponare la falla aperta dagli Stati Uniti. In ogni caso le due crisi hanno un denominatore comune: l’immissione sul mercato di enormi crediti.

Il debito della Cina, globalmente inteso, ammonta a quasi 52 mila miliardi di dollari. Insomma tutti sono indebitati con tutti. E non sarà il Brics col tentativo di creare una moneta alternativa al dollaro a cambiare la situazione, perché il problema non è il dollaro ma il credito. Ora se noi facciamo 100 il denaro circolante, nelle sue infinite forme, con l’un percento di questo 100 si possono comprare tutti i beni e i servizi del mondo. Cosa rappresenta allora l’altro 99 percento? Un enorme credito, anzi debito (se c’è un creditore deve esserci simmetricamente un debitore) verso il futuro, un futuro talmente dilatato nel tempo da renderlo di fatto inesistente. In ogni caso questo futuro immaginario, dilatato a dimensioni mostruose dalla nostra fantasia e dalla nostra follia, un giorno ci ricadrà addosso come drammatico presente. E alla velocità parossistica, sempre crescente cui stiamo andando, il momento, anzi l’attimo (perché tutto crollerà in un attimo) del Big Bang è sempre più vicino.

 

Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2023

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Il Telegraph, prestigioso quotidiano britannico, ha 750mila abbonati e 300mila copie vendute in edicola. Lo Spectator oltre 100mila abbonati. In Gran Bretagna, a quanto pare, si leggono ancora i giornali. Il Corriere vende 246mila copie, la Repubblica circa 150mila. Vent’anni fa il Corriere vendeva 723mila copie, la Repubblica 637mila. Dieci anni dopo, il Corriere era sceso a 500mila copie, la Repubblica a 450mila. Mediamente una perdita per i due principali quotidiani italiani del cinquanta percento. Non si conoscono i dati delle rispettive tirature, che sono ovviamente superiori alle vendite, ma sulle quali non si può fare alcun conto perché entrambi i quotidiani ti vengono sbattuti in faccia nei grandi alberghi e sui treni. Del resto, a parte questi dati statistici, sono le edicole a parlare. Nella mia zona, piazza Repubblica a Milano, media borghesia, c’erano cinque edicole. Oggi si sono ridotte a due, una storica e un’altra di un coraggioso bangla. Ma i loro introiti non si basano sulla vendita dei giornali, bensì su vari tipi di gadget e sugli abbonamenti tramviari e ferroviari. Il bangla poi non ha nemmeno tutti i giornali, segno di una distribuzione stolidamente lacunosa: alcuni non glieli mandano. Così un giorno apre e quello dopo è costretto a chiudere.

È ovvio che un giovane, se vuole avere qualche notizia, non legge i giornali, ma si abbevera al digitale, che sta distruggendo il giornalismo di carta stampata. Entro due anni il New York Times sarà solo in digitale. E siccome quel che succede negli States arriva rapidamente anche in Italia, noi saremo in breve nella stessa situazione.

Un fenomeno analogo, o quasi, molto curioso, si ha con i libri. Le case editrici pubblicano un’infinità di titoli l’anno, ma tutti i dati statistici dicono che i lettori sono sempre di meno. È scomparso, per ragioni anagrafiche, il “forte lettore”, quello che leggeva un centinaio di libri l’anno. In compenso ci sono più autori che lettori, non c’è quasi nessuno in Italia che non abbia scritto almeno un libro. Come fanno le case editrici a ripagarsi se i lettori non ci sono? Puntano, nella massa, su un best seller che compensi l’infinità dei libri rimasti invenduti. Inoltre anche grandi case editrici, come Mondadori, fanno pagare gli autori per pubblicarli. Fino a pochi anni fa questo sciacallaggio lo facevano case editrici di infimo ordine.

Per i libri la questione è però un po’ diversa che per i giornali. I libri sono un fatto tattile ed è piacevole fare sottolineature o note a margine, teoricamente è possibile farlo anche con un libro digitale, ma poi in pratica non lo si fa. Il libro digitale ha avuto per ora scarsa fortuna, se guardo alla mia produzione solo il cinque percento è in digitale. Il digitale sembra essere di grande aiuto perché, se voglio spostare un brano da una pagina, col computer posso farlo in un attimo. Ma se lavoro con la biro, nel tempo che ci metto a spostare un brano al posto di un altro, mi vengono in mente cose che avrei potuto aggiungere o togliere. Insomma il pensiero lavora.

In questa grande confusione di giornali non letti, di libri totalmente inutili, di Twitter, Facebook, Instagram, TikTok, Telegram, di un’informazione sempre più veloce, a lasciarci le penne è Dostoevskij. Chi mai oggi si prenderebbe la briga di leggere le cinquecento pagine dei Fratelli Karamazov? Oggi, se rinascesse un Dostoevskij, non se ne accorgerebbe nessuno. Speriamo che in qualche “sottosuolo” ci siano degli amanuensi che, come i monaci di un tempo che ci hanno restituito la cultura latina e greca, riescano a tramandarci Dostoevskij, Tolstoj, Gogol, Rimbaud, Baudelaire, Leopardi, Shakespeare, Coleridge, Goethe. In quanto a Nietzsche, era spacciato in partenza. Era nato “postumo” e se oggi circolano i suoi pensieri profondi, che sono di una straordinaria attualità, nessuno sa più che gli siamo tributari.

Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2023