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Sono favorevole alla stepchild adoption, non alla adozione ‘tout court’ da parte delle coppie omosessuali. Perché si tratta di due situazioni diverse. Nella prima esistono già un genitore naturale e un figlio naturale ed è quindi ragionevole che anche l’altro esponente della coppia omosessuale assuma i diritti e i doveri del genitore. Nella seconda la coppia non ha figli e il solo modo per procurarsene uno è l’adozione (a meno che non si tratti di lesbiche, una delle quali ricorra alla fecondazione eterologa, cioè all’inseminazione artificiale da parte di un terzo soggetto, maschio, ipotesi che però è espressamente esclusa dalla legge Cirinnà in questi giorni in discussione). Premesso che ognuno di noi è libero di agire la propria sessualità come vuole, con partner di altro genere, dello stesso genere, con transgender, con ‘travesta’, perché si tratta di libere scelte fra individui adulti, nel caso di coppie omosessuali entrano in gioco i diritti di un terzo, il bambino adottando. Il quale ha diritto, non per legge divina come afferma Papa Bergoglio, ma per legge di natura, antropologica, ad avere, almeno sulla linea di partenza, un padre e una madre. So benissimo che in una coppia omosessuale uno dei due assume la figura paterna e l’altro quella materna (‘pistillo’ e ‘corolla’ nel gergo degli omosessuali maschi) ma un padre e una madre non figurativi, bensì in carne e ossa, sono un’altra cosa. E il matrimonio viene inibito agli omosessuali proprio perché se lo si dovesse istituire ne avrebbe tutte le automatiche conseguenze, compresa la possibilità di adottare dei figli.

La stessa adozione, etero od omo, è un istituto assai ambiguo. Perché parte dal presupposto che avere figli sia un diritto. Sono i diritti impossibili portati alla luce –è il caso di dirlo- dall’Illuminismo. Come il diritto alla felicità o alla salute. Nessuno, foss’anche Domineiddio, può garantirli. Esiste in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità, non un suo diritto. Esiste la salute, quando c’è, non un suo diritto. Se una coppia, etero od omo, non può avere figli qualche ragione ci sarà. La Natura difficilmente sbaglia (e tanti aborti naturali rispondono a questa legge, senza ricorrere, come facevano gli Spartani, alla Rupe Tarpea). Inoltre l’adozione, in cui spesso la coppia vive il figlio come ‘status symbol’, come possesso, è uno strumento dei ricchi sterili per strappare i figli alle famiglie povere soprattutto del Terzo Mondo. Recentemente il governo del Congo ha dovuto porre uno stop a questi ambigui benefattori che gli stavano portando via, a suon di dollari, i suoi bambini.

Per finire sono assolutamente contrario ad equiparare i diritti e i doveri delle ‘coppie di fatto’ eterosessuali a quelli del matrimonio. Innanzitutto, anche se in margine, dico che è molto difficile definire una ‘coppia di fatto’. E’ necessaria la convivenza? Ma io posso vivere a Milano e lei a Firenze, non conviviamo fisicamente ma sostanzialmente e sentimentalmente possiamo essere una ‘coppia di fatto’. O dovrà essere il Tribunale a stabilire quante volte al mese ci vediamo, a Milano o a Firenze o in qualche città intermedia come Modena (“Ci incontreremo a Modena…” recitava una canzone di molti anni fa)? Sono stato almeno due volte nella mia vita una ‘coppia di fatto’. Se non ci siamo sposati è proprio perché volevamo rimanere liberi, senza i vincoli del matrimonio. Se invece due eterosessuali vogliono avere tutti i diritti e i doveri del matrimonio, cosa impossibile per le coppie omosessuali, in Italia hanno a disposizione un istituto previsto dal Codice civile che si chiama, appunto, matrimonio. E quindi si sposino e la finiscano di rompere i coglioni.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2016

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Ho visto giocare La Quinta una sola volta. L’anno scorso, in una partita decisiva per entrare nei play off. Ma la squadra avversaria, non avendo più alcuna possibilità, era già arresa. Nei primi cinque minuti avete giocato contratti, poi dilagaste. Troppo. Sul 5 a 0 cominciai a tenere agli altri che oltretutto, a partita ormai persa, avevano subito due gol in fuorigioco (mi ricordo uno dell’altra squadra, alto e grosso come un armadio, che diceva, quasi piangendo, al guardalinee “Ma cosa stai facendo?”). Non bisogna mai umiliare gli avversari. In un Milan-Torino di parecchi anni fa, Lucarelli, vero ‘cuore Toro’, dopo il sesto gol dei rossoneri riportando la palla al centro gli disse: “Se osate fare ancora un gol a Torino vi spacchiamo le gambe”.

Mi piacque il numero 11 che si dannava dappertutto. Mi piace il colore orange della maglia che mi ricorda la ‘grande Olanda’ dei Neeskens e dei Cruijff dei miei tempi, l’Olanda del ‘calcio totale’. Che non era il monotono e prevedibile andare su e giù dei terzini di oggi. Era un’altra cosa, molto più disordinata e giocosa: tutti giocavano a tutto campo. Il portiere, Jongbloed, un pazzo, stazionava stabilmente nel cerchio di centrocampo. Potevano permetterselo perché erano undici fuoriclasse. Il difensore centrale, Rijsbergen, pareva uscito, dritto dritto, dal ‘Settimo sigillo’ di Bergman o da una Compagnia di ventura medioevale, completo di armatura. Era talmente aguzzo e puntuto che come lo toccavi ti facevi male.

Le partite de La Quinta le seguo, minuto per minuto, in radiocronaca differita. Me le fa mio figlio, Matteo, che è anche l’allenatore della squadra. Sono quindi in pieno conflitto di interessi. Gli piace un sacco essere chiamato mister e, come tutti i mister, crede che le vittorie siano dovute alle sue straordinarie strategie: aver messo Stiv là, aver lanciato un ‘canterano’ all’ala, aver arretrato il migliore del centrocampo a centrale di difesa (anche se, bisogna ammetterlo, quest’anno l’assenza di Chinca, che sulle prime, credevo si chiamasse Kinka e fosse un acquisto polacco, si fa sentire). Ma se non ci fosse il ‘bomber nano’, che ha una media gol alla Ruud Van Nistelrooy, non ci sarebbe strategia che tenga. Ma in una cosa credo che il mister sia bravo: motivare e, come si dice, tenere unito il gruppo. Che con giocatori poco più che ventenni e altri che sono uomini ormai maturi non deve essere facile.

E adesso l’allenatore lo faccio io, dall’alto della mia età pleistocenica. Ricordatevi, ragazzi, che nel calcio, nello sport e nella vita, la concentrazione è tutto o quasi. Mi ha detto una volta Rudi Nureyev, il più grande ballerino di tutti i tempi: “Il 10% è talento, il resto è costanza”.

Massimo Fini

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Quanto avvenuto a Roma alla stazione Termini è comico, esilarante e nello stesso tempo preoccupante. Ma non perché la polizia non ha intercettato l’uomo, qualsiasi pulotto con un po’ di esperienza sa distinguere un’arma giocattolo (che, benché a forma di mitra, era minuscola) da una vera ed è inoltre del tutto evidente che chi ha cattive intenzioni non gira con un mitra a tracolla visibile a tutti ma lo tiene nascosto nello zaino o sotto il giubbotto. Preoccupante è il panico collettivo che si è immediatamente creato fra i viaggiatori col rischio, questo sì reale, di farsi male magari calpestandosi l’un l’altro nel fuggi fuggi generale, panico che l’intervento massiccio delle forze dell’ordine, teste di cuoio comprese, ha contribuito ad alimentare.

In Europa le massime autorità non fanno che dichiarare “non abbiamo paura, non ci faremo intimidire, difenderemo i nostri valori” ma poiché valori non ne abbiamo più, a cominciare dal coraggio, e siamo totalmente svirilizzati basta un nulla, un niente per smascherare la nostra fifa blu. Mi chiedo cosa succederebbe in Italia il giorno che si presentasse un Isis in carne ed ossa. Con questa paura che ci portiamo addosso l’Isis non ha più nemmeno bisogno di fare attentati, gli basta annunciarli o anche contare semplicemente su qualche grottesco equivoco come quello cui abbiamo assistito alla stazione Termini. Tutto ciò mi ricorda una canzone di qualche anno fa de ‘I Giganti’ il cui refrain era “Non abbiamo paura della Bomba”. Ma bastò che un burlone gettasse un petardo sul palcoscenico perché i Giganti se la dessero a gambe e con loro tutto il pubblico fin lì plaudente.

Finirà per pagare il tipo che voleva regalare l’arma giocattolo a suo figlio e che ora è indagato per “procurato allarme”. Ma che colpa ne ha lui se siamo diventati un popolo di conigli?

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2016