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Nel regolare le ‘unioni civili’ il governo si è trovato di fronte a questioni strettamente legate e quasi inestricabili. 1. Adozioni. Ammetterle o no anche per le coppie omosessuali? 2. Matrimonio. Ammetterlo o no anche per gli omosessuali? 3. Regolamentazione dei diritti civili delle coppie di fatto omo ed etero.

Se si fosse adottato il principio della legittimità dell’adozione anche per le coppie omosessuali tutto sarebbe stato risolto. Perché questo avrebbe comportato la logica conseguenza del diritto di queste a sposarsi con rito civile con tutti i diritti e i doveri che ciò comporta ex Art.143 e seguenti (Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio) e quindi anche l’adozione. Non sarebbe stato nemmeno concepibile una sorta di matrimonio monco cioè senza il diritto della coppia di adottare. Il matrimonio è o non è.

Ma l’adozione da parte di coppie omosessuali, che è il nodo cruciale di tutta la faccenda, suscita parecchie perplessità, non solo da parte cattolica e confessionale ma anche laica. E’ fuori discussione che ognuno ha diritto di agire la propria sessualità come meglio crede o istinto e desiderio gli detta. Ma questo indiscutibile diritto nel caso di adozione si scontra col diritto di un terzo soggetto, l’adottando. In linea di principio, o se si preferisce per legge di natura, un bambino ha diritto di avere, almeno sulla linea di partenza, un padre e una madre. Il leader dell’Ncd, Angelino Alfano, si è espresso goffamente quando a proposito della bocciatura di parte della legge Cirinnà ha detto “Abbiamo impedito pratiche contro natura”. Avrebbe fatto meglio a dire “pratiche al di fuori della natura”. Ma Alfano non intendeva certamente dire che l’omosessualità è una pratica ‘contro natura’ o ‘al di fuori della natura’. L’omosessualità esiste anche nel mondo animale e in ogni caso anche l’uomo fa parte della natura. Intendeva dire che ‘al di fuori della natura’ sono i figli di una coppia omosessuale. Un leone può andare con un altro leone invece che con una leonessa ma da questo rapporto non può nascere un leoncino. E’ una cosa che in natura non si dà. E’ ‘fuori dalla natura’.

C’era poi la fondata preoccupazione che l’adozione da parte delle coppie omosessuali spalancasse le porte alla pratica, tanto omo che etero, del cosiddetto ‘utero in affitto’ che peraltro la legge Cirinnà espressamente esclude. Nel caso di ‘utero in affitto’ siamo di fronte a una doppia distorsione o se si vuole aberrazione. Non solo il bambino nasce senza un padre e una madre naturali perché quella naturale, la sua vera madre, è esclusa dalla coppia. Ma siamo di fronte alla mercificazione totale del corpo della donna usato solo come recipiente e alla negazione della sua affettività ed emotività perché lei quel bambino, che ha portato in grembo per nove mesi, non lo vedrà mai o se lo vedrà sarà solo per gentile concessione della coppia adottante, etero od omo che sia. Né sono d’accordo con chi giubila perché in questi casi è comunque “nato un bel bambino”. Un “bel bambino” può nascere anche da uno stupro ma ciò non sana la violenza che gli sta a monte.

Il governo aveva poi scelto una soluzione intelligente, la cosiddetta stepchild adoption nel caso che in una coppia omosessuale uno dei componenti abbia un figlio. Qui siamo fuori dall’adozione ‘tout court’, perché un figlio già c’è e vive in una famiglia. Ed è quindi ragionevole che anche l’altro partner della coppia assuma nei suoi confronti i diritti e i doveri del genitore. Purtroppo qui il governo si è scontrato con l’estremismo della parte più confessionale della politica e della popolazione ed è stato costretto a stralciare, almeno per il momento, la stepchild adoption. Tuttavia ha portato a casa alcuni buoni risultati. Ora, le coppie omosessuali hanno, adozione a parte, tutte le coperture del matrimonio: assistenza sanitaria, reversibilità della pensione, eredità del partner, assistenza ospedaliera e penitenziaria, diritto all’accesso ai mutui e agli sconti famiglia (per le coppie di fatto etero il problema non si pone perché se vogliono tutti i diritti e i doveri del matrimonio non hanno che da sposarsi, cosa che per gli omosessuali è attualmente impossibile). Se la politica è ‘l’arte del possibile’ sarebbe giusto riconoscere a Renzi di aver ottenuto il massimo passando per la difficilissima strettoia di due opposti estremismi, quello confessionale e quello laico.

Non mi è piaciuta nemmeno l’aggressione di cui è stato oggetto Alfano, ricordandogli le sue pecche passate o presenti. Un’argomentazione si confuta con un’altra argomentazione e non demonizzando l’interlocutore per quello che ha fatto in altri campi. Non è che se un criminale fa una affermazione giusta questa diventa meno giusta perché chi parla è un criminale.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2016

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Non si capiscono tutte queste ‘ammoine’, strusciamenti, invocazioni, implorazioni, concessioni di statuti speciali e deroghe alla Gran Bretagna perché resti nella Ue. Mentre invece sarebbe nostro interesse che ne uscisse. Perché la Gran Bretagna ha poco o nulla a che fare con l’Europa, ne è anzi una palla al piede. Ha detto bene Flavio Briatore, un uomo che viaggia per il mondo e lo conosce: “Londra ha una dimensione internazionale ma non europea. I londinesi non vivono l’Europa né a livello finanziario, né a livello culturale”. Da questo punto di vista l’Europa è molto più legata alla Russia. La grande aristocrazia russa parlava francese e dopo la Rivoluzione d’Ottobre gli emigrés si ritrovavano a Parigi non a Londra. Nonostante oggi un tunnel sotto la Manica la unisca alla terraferma la Gran Bretagna resta un’isola che dell’Europa non ha mai voluto veramente saperne. Neppure Hitler riuscì a coinvolgerla nel suo particolare progetto di unità dell’Europa sotto il suo tallone di ferro ma con la Gran Bretagna come partner a pari livello. Vi provò fino all’ultimo, persino due anni dopo la dichiarazione di guerra, col misterioso volo di Rudolf Hess, il numero due del regime nazista, sui cieli londinesi quando la Wermacht stava vincendo su tutti i campi.

L’Inghilterra è, insieme agli Stati Uniti e all’Urss, una delle tre Potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, ad essere sconfitta fu l’Europa. Che anche i francesi si siano seduti al tavolo della pace è solo un’astuta gherminella per mascherare questa verità, perché la Francia fu pienamente collaborazionista (il mito del ‘maquis’ vale poco più di quello della Resistenza italiana), collaborazionisti furono alcuni dei suoi maggiori intellettuali, da Robert Brasillach a Drieu La Rochelle e anche i giovani Jean Paul Sartre e Albert Camus conobbero le loro prime consacrazioni letterarie (Sartre con Le mosche, Camus con Lo straniero) proprio sotto l’occupazione tedesca, perché i tedeschi anche nazisti (si veda in proposito La Rive Gauche di Lottmann) sono sempre stati affascinati dalla cultura francese benché sia questa ad essere loro tributaria e non viceversa, da almeno due secoli (tutto l’esistenzialismo francese, per esempio, ha alle sue spalle Nietzsche e Heiddeger).

I vincitori del secondo conflitto mondiale, anglosassoni o russi che siano, hanno quindi tutto l’interesse a mantenere lo ‘status quo’, cioè un’Europa debole, eternamente vinta, nel ruolo di ancella dei loro obbiettivi. In più gli inglesi sono, storicamente, legati a filo doppio agli americani che, dopo il 1989, per l’Europa sono diventati da alleati obbligati degli avversari occulti. Tanto per cominciare sono dei competitor sleali sul piano economico. Mentre noi europei ci costringiamo a una politica di austerity per non creare altre bolle speculative, loro, gli americani, dopo il collasso della Lehman Brothers del 2008, hanno immesso nel sistema, in varie forme, tre trilioni di dollari che, prima o poi, ricadranno sulla testa di tutti. Sotto l’aspetto geopolitico le migrazioni che l’Europa è costretta a subire sono dovute in gran parte alla dissennata politica di aggressione degli Usa nei confronti dei popoli musulmani negli ultimi quindici anni. E gli inglesi, da alleati leali, gli han sempre tenuto bordone. Quindi altro che ‘statuti speciali’ perché ci facciano il piacere di rimanere in Europa.

Non creda il lettore che io disprezzi gli inglesi. Fanno, coerentemente, il loro gioco. E anzi li ammiro perché sono quello che noi italiani non siamo mai stati: un popolo. Quando Mussolini lanciava i suoi strali contro ‘la perfida Albione’ era perché ne era consapevole. E ha cercato, il buon Benito, di fare degli italiani un popolo e c’era quasi riuscito se non avesse commesso la tragica e imperdonabile imprudenza di entrare in guerra impreparato (“Sta bon Benito, lascia fare a lori”), convinto che l’alleata nazista avrebbe fatto un sol boccone degli avversari (“Ci basteranno poche centinaia di morti per sederci al tavolo della pace”). Invece furono proprio gli inglesi a fermare Hitler in prima battuta.

Si potrebbe dire che un’unità il popolo italiano l’ha acquisita negli ultimi trent’anni. Ma non sotto la bandiera del Tricolore, ma quella della corruzione che ci coinvolge tutti, finalmente compatti, dalla classe politica, in ogni sua forma e gradazione, a quella imprenditoriale, alla polizia, ai vigili urbani, giù giù fino al popolo minuto.

Non disprezzo quindi gli inglesi. Ma il fatto è che gli inglesi non sono in realtà che una propaggine dell’imperialismo americano. Quindi ‘foera di ball’. L’Europa, dopo i settant’anni che ci ha fatto perdere la follia di Hitler, deve tornare ad avere un suo posto nel mondo e, messi a cuccia i comprimari, ha da essere a guida tedesca. Heil Angela.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2016

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Adesso si scopre che in Kosovo (come in Bosnia e in Albania) c’è una forte presenza jihadista. Ma guarda, chi avrebbe mai potuto immaginarselo? Come sempre, come per l’Afghanistan, per la Somalia, per la Libia, per l’Egitto, si dimentica il pregresso, lo si sottace pudicamente o, nella migliore delle ipotesi, vi si sorvola.

Chi nel 1999, senza il consenso dell’Onu, anzi contro la sua volontà, aggredì la Serbia ortodossa guidata da Slobodan Milosevic? Gli americani. Che c’entravano gli americani? Niente. Si trattava di una questione interna allo Stato serbo, dove si trovavano a confronto due ragioni: quella dei kosovari albanesi che nel corso dei decenni precedenti erano diventati maggioranza e avevano creato un movimento indipendentista (peraltro foraggiato e armato dagli Usa e che, come ogni resistenza, non disdegnava l’uso del terrorismo) e quella della Serbia a mantenere l’integrità dei propri confini e un territorio che era storicamente suo da secoli. Oltretutto il Kosovo, dopo la battaglia di Kosovo Polje del 1389, era considerato ‘la culla della Patria serba’ (motivazione, questa, irrisa sulla Repubblica da Barbara Spinelli che nello stesso tempo sosteneva il diritto di Israele a stare dove sta non per la buona e sacrosanta ragione che i suoi abitanti hanno fatto il miracolo di creare dal deserto, in pochi decenni, uno Stato moderno, ma per diritti biblici di tremila anni fa). Inoltre una terra non appartiene solo a chi la abita in quel momento ma è anche frutto delle generazioni che l’hanno vissuta e lavorata in precedenza facendone ciò che è. Era quindi una questione che indipendentisti kosovari e Serbia avrebbero dovuto risolversi fra loro. Che c’entravano gli Stati Uniti che stanno a diecimila chilometri di distanza (il democratico Bill Clinton per spiegare agli americani dove mai fosse questo misterioso Kosovo dovette srotolare una carta geografica –le slide non usavano ancora- e, come una maestrina, indicarlo con una bacchetta)? Ma siccome gli Usa hanno interessi geopolitici dappertutto, anche sul più sperduto atollo, convocarono, sotto la loro guida, una Conferenza di Pace a Rambouillet. Ma le condizioni poste alla Serbia (molto invisa anche perché era rimasto l’ultimo Paese paracomunista in Europa) erano tali che Belgrado non avrebbe dovuto rinunciare solo alla sovranità sul Kosovo ma anche su se stessa. E i serbi, già defraudati della vittoria conquistata sul campo di battaglia in Bosnia (perché, sul terreno, sono i migliori combattenti del mondo e si deve alla loro resistenza alla Wermacht quel ritardo di tre mesi che fu fatale ad Hitler perché ritardò il suo attacco all’Unione Sovietica e così le truppe di Von Paulus si scontrarono col Generale Inverno che aveva già sconfitto Napoleone – questo merito storico bisognerebbe riconoscerglielo, qualche volta) dissero di no. Allora gli americani, con alcuni servi fedeli fra cui l’Italia (gli aerei partivano da Aviano), violando il principio di diritto internazionale, fino ad allora mai messo in discussione della non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano (e con questo precedente è ora difficile bacchettare la Russia perché si è intromessa in Ucraina a difesa degli indipendentisti russi di Crimea e di altre zone russofone) bombardarono per 72 giorni una grande e colta capitale europea come Belgrado facendo 5500 morti fra cui molti di quegli albanesi che pretendevano di difendere. E poiché da sempre bombardano a ‘chi cojo cojo’ colpirono anche l’ambasciata cinese. Princìpi a parte in tal modo abbiamo finito per favorire la componente islamica dei Balcani, quegli islamici che oggi provocano le isterie Fallaci-style.

Gli americani però almeno un piano ce l’avevano: costituire una striscia di musulmanesimo moderato (Albania + Bosnia + Kosovo) in appoggio a quella che allora (oggi molto meno) era la loro grande alleata nella regione, la Turchia, che per conformazione fisica è una gigantesca portaerei naturale e per posizione geografica nodo strategicamente nevralgico a cavallo fra Medio Oriente ed Europa. Ma sbagliarono anche quella volta i loro calcoli perché oggi i musulmani dei Balcani sono assai meno moderati, molti stingono nello jihadismo quando non vi partecipano direttamente e la Turchia sta via via abbandonando l’assetto laico datogli da Ataturk a favore di un regime che se non è ancora apertamente confessionale poco ci manca.

Ma particolarmente stolida fu la partecipazione dell’Italia a quell’aggressione. Perché noi con i serbi non abbiamo mai avuto alcun contenzioso (lo abbiamo avuto semmai con i croati che fascisti erano e fascisti sono rimasti). Abbiamo anzi un legame storico che risale ai primi del Novecento. A quell’epoca si pubblicava a Belgrado un quotidiano che si chiamava Piemonte, perché i serbi vedevano nell’Unità d’Italia, conquistata da pochi decenni, un modello per raggiungere la loro, come infatti fecero in forma monarchica. Inoltre il ‘gendarme’ Milosevic, checché se ne sia detto e scritto, era, almeno dopo la pace di Dayton, un fattore di stabilizzazione nei Balcani. Ridotta ora la Serbia ai minimi termini, in Kosovo, in Bosnia, in Macedonia, in Montenegro, in Albania sono concresciute grandi organizzazioni criminali che vanno a concludere i loro primi affari sporchi nel Paese ricco più vicino, l’Italia. Quando a Ballarò, presente Massimo D’Alema, dissi che la guerra alla Serbia oltre che illegittima era stata cogliona, l’ex presidente del Consiglio, premier all’epoca di quell’intervento, non fiatò. Ma io a Ballarò non ci ho più rimesso piede.

Ma l’avventurismo yankee nei Balcani ci ha lasciato un altro regalo, il più gravido di conseguenze: ora, a causa dei contraccolpi dell’aggressione alla Serbia del 1999, noi gli uomini del Califfo li abbiamo sull’uscio di casa, mentre gli americani, almeno per il momento, se ne possono fregare perché c’è l’oceano di mezzo. Eppoi gli Usa almeno qualcosa hanno ottenuto: oggi in Kosovo c’è, in assoluto, la loro più grande base militare. Non è poco visto che, in giro per il mondo, ne hanno una settantina.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2016