0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il test sulla Bomba H, una sorta di potenziamento dell’Atomica diciamo così normale, effettuato dalla Corea del Nord, ha suscitato, come hanno enfatizzato ieri tutti i media, una condanna unanime, di Ban Ki-moon, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la consueta minaccia di ulteriori sanzioni economiche per “violazione del diritto internazionale”. Con tutta probabilità questo test è solo una burletta propagandistica come sembrano pensare anche gli Stati Uniti che hanno sollevato forti dubbi sulla sua validità.

Ma facciamo il caso che non sia una burletta. La Corea del Nord, con Israele, India, Pakistan, non ha firmato il ‘Trattato di non proliferazione nucleare’ (TNP). Di che “violazione del diritto internazionale” si sarebbe quindi resa responsabile? Se uno non firma un trattato non lo può nemmeno violare. In realtà i veri proliferatori del nucleare atomico sono gli Stati Uniti che hanno sì ridotto le loro testate (averne 10.000 invece che 15.000 non cambia niente visto che basta un centinaio di questi ordigni per distruggere l’intero pianeta) ma hanno fornito la tecnologia necessaria a circa 35 paesi fra cui Francia, Gran Bretagna, Canada, Israele, India, Australia, Algeria, Corea del Sud e persino all’arcinemico Iran (business ‘non olet’). In genere i firmatari del TNP lo hanno rispettato non facendo nuove Bombe se già le avevano o non costruendole ex novo, per loro precisa volontà o perché impossibilitati a innescare un processo tecnologicamente così sofisticato (fra i paesi a cui gli Usa hanno fornito la tecnologia c’è la Repubblica del Congo, figuriamoci). L’Iran è uno di quei paesi che non solo ha firmato il Trattato di non proliferazione ma lo ha anche rispettato accettando le ispezioni dell’AIEA che non hanno mai rilevato nelle centrali nucleari che Teheran ha costruito ad usi civili e medici un arricchimento dell’uranio superiore al 20% (per arrivare alla Bomba l’arricchimento deve essere del 90%) eppure per trent’anni ha subìto pesantissime sanzioni economiche dalla cosiddetta ‘Comunità internazionale’, cioè dagli Stati Uniti, e ne è uscito solo di recente perché i pasdaran iraniani servono all’Occidente, così come i peshmerga curdi, per combattere l’Isis senza rischiare la propria pelle.

Dice: ma Kim Jong-un è un dittatore, “pazzo e imprevedibile”. A parte il fatto che l’Atomica, come è noto, ha solo un valore di deterrenza e nessuno per quanto ‘imprevedibile’ sarebbe così pazzo da gettarla perché il suo paese e lui-meme sarebbe immediatamente spazzato via da una tempesta nucleare (e anche i dittatori, anzi soprattutto loro, ci tengono alla propria pelle) secondo Ian Bremmer, presidente del centro studi Eurasia Group, Kim Jong-un non è inserito nella lista dei ‘leader imprevedibili’. In questa lista c’è invece, oltre al leader ucraino Poroshenko e al re dell’Arabia Saudita, Vladimir Putin. Ma quando un mese fa l’autocrate russo invece di far test nucleari (non ne ha bisogno, anche lui di Bombe ne ha circa 10.000) minacciò, sia pur in modo ambiguo, di usare l’Atomica in Medio Oriente contro l’Isis, la cosa passò quasi sotto silenzio. Invece per la burletta di Kim Jong-un si è scatenato il finimondo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2016

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Sui media inglesi alcune madri di soldati uccisi in Afghanistan hanno protestato ponendo la semplice e lineare domanda: “Per che cosa sono morti i nostri figli?”. Gli inglesi, proporzionalmente al proprio contingente, sono quelli che hanno avuto le maggiori perdite, circa 500 uomini, anche se il dato è approssimativo perché il governo britannico come quello americano tende a nascondere le proprie perdite per non alienarsi l’opinione pubblica e seppellisce i suoi soldati in tutta fretta e senza tante cerimonie. Gli inglesi hanno avuto più morti (oltre che qualche migliaio di feriti) perché sono gli unici ad aver combattuto con un po’ di lealtà, soprattutto in Helmand dove i Talebani sono padroni (in quella provincia è nato il Mullah Omar) non utilizzando solo l’aviazione ma battendosi anche sul campo arginando così, almeno in parte, il fenomeno per cui moltissimi afgani, che talebani non erano affatto o addirittura gli erano stati acerrimi nemici, si sono uniti alla resistenza. Perché per gli afgani, talebani o meno, guerrieri da sempre, il nemico che non si presenta sul campo e non combatte a viso aperto è oggetto del più profondo disprezzo (lo stesso ex presidente Karzai, che pur era, come l’attuale, Ashraf Ghani, alle dirette dipendenze del Dipartimento di Stato, rendendosi conto di quanto stava succedendo, fu costretto a dire agli americani: “Ma combattete almeno un po’ all’afgana!”). Che è poi una delle ragioni, e non la minore, per cui gli americani pur così superiormente armati stanno perdendo la guerra in Afghanistan, anche se si rifiutano di ammetterlo per ‘salvare la faccia’ (“la guerra che non si può vincere”).

Noi italiani in Afghanistan abbiamo perso solo 54 uomini (uno dei quali morto per conto suo, di malore) pochi per una guerra che dura da 14 anni, la più lunga in era moderna. Degli americani siamo alleati fedeli, ma sleali, come spesso ci è capitato nella nostra storia. In Afghanistan, nelle regioni più pericolose, ci siamo accordati con i Talebani: loro ci lasciavano in pace, noi facevamo solo finta di controllare il territorio lasciandoli agire indisturbati. Questa, al di là delle scontate smentite ufficiali, è la pura verità. Lo dirà con brutale franchezza il colonnello dei marines Tim Grattan: “Ora tocca agli italiani fare la loro parte. Stringere patti con i comandanti talebani è perdente. I nemici si combattono e basta”. Inoltre il grosso delle nostre forze è schierato a Herat, feudo dell’antico ‘signore della guerra’ Ismail Khan, che è stato a lungo nel governo di Karzai, che i Talebani avevano cacciato dal Paese, insieme a Massud, Heckmatyar e Dostum, e godono quindi della sua protezione.

Ciò non toglie che la domanda posta dalle madri inglesi rimanga valida anche per noi, insieme, anche se in subordine, a quella che riguarda i costi che, in una congiuntura economica sfavorevole, affrontiamo per rimanere inutilmente in quel Paese. La missione Resolute Support è quella che ci costa di più fra tutte quelle in cui siamo impegnati e recentemente è stata rifinanziata per 78 milioni che coprono solo gli ultimi tre mesi di quest’anno. Poi ci sarà da fare i conti del 2016 anche se la missione doveva terminare nel 2015, ma gli americani ci hanno chiesto, o piuttosto ordinato, di rimanere per almeno altri due anni. Il governo italiano, quatto quatto, ha deciso a metà ottobre l’ulteriore finanziamento delle nostre missioni militari all’estero (fra cui ce ne sono di altrettanto assurde, anche se minori, come in Mali) compresa naturalmente quella in Afghanistan. Siccome quella in Afghanistan non può essere gabellata in alcun modo come un’operazione di ‘peacekeeping’ (come, per esempio, è quella in Libano dove i contingenti internazionali si interpongono fra due comunità che altrimenti si massacrerebbero) ma è una guerra nel senso letterale del termine ci sarebbe voluto almeno un voto del Parlamento visto che l’articolo 11 della Costituzione dichiara solennemente: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Invece tutto è passato come se nulla fosse. Alessandro Di Battista mi dice che i 5Stelle hanno fatto opposizione. Nessuno se n’è accorto. Eppure quella all’Afghanistan è una guerra di offesa, e non di difesa, poiché l’Afghanistan non costituisce un pericolo né per noi né per i nostri alleati. L’Afghanistan, talebano o no, non è mai uscito, storicamente, dai propri confini e nessun attentato terrorista, in Europa, negli Stati Uniti, in tutto l’Occidente può essere attribuito a soggetti afgani, talebani o no.

Già l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan nel 2001 nasce da un equivoco, più o meno voluto. Gli Stati Uniti colpiti dall’attentato dell’11 settembre, rimessisi in piedi come un cowboy stordito da tanta audacia, cercavano un capo espiatorio purchessia. E lo trovarono facilmente nell’Afghanistan governato dai Talebani perché vi stazionava Bin Laden. Ma i Talebani l’ambiguo Califfo saudita se lo erano trovati in casa. Ce lo aveva portato il nobile Massud, dal Sudan, dove Bin Laden aveva le sue basi, perché lo aiutasse a combattere un altro ‘signore della guerra’, Heckmatyar. Di Bin Laden, che chiamava “un piccolo uomo”, il Mullah Omar si sarebbe volentieri sbarazzato, tant’è che quando Bill Clinton nel novembre/dicembre del 1998 gli propose di toglierlo di mezzo Omar mandò a Washington il suo ministro degli Esteri, Wakil Muttawakil, perché desse il suo assenso, sia pur a certe condizioni. Ma Clinton, all’ultimo momento, si tirò indietro (Documenti del Dipartimento di Stato). E dopo l’11 settembre mentre le folle arabe scendevano in piazza per manifestare la loro gioia, l’Emirato islamico d’Afghanistan mandò un messaggio di cordoglio al governo degli Stati Uniti. Ma nel momento in cui il governo afgano-talebano era comunque sotto il mirino degli americani, Bin Laden non faceva che sculare in tutti i filmati possibili e immaginabili attribuendosi, sia pur sempre indirettamente, la paternità di quell’attentato. Bell’amico, davvero.

In ogni caso se nel 2001 l’invasione dell’Afghanistan poteva avere una parvenza di senso, oggi dopo 14 anni di occupazione non l’ha più. E infatti gli olandesi se ne sono già andati nel 2011, ricevendo il ringraziamento ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan l’unico governo legittimo di un Paese dove la leadership si conquista non attraverso la farsa delle urne ma avendo l’appoggio della maggioranza della popolazione. Seguiti poi dai canadesi, dagli spagnoli e da altri. In Afghanistan sono rimasti gli americani, gli inglesi, i tedeschi, gli italiani e qualche frattaglia come l’Albania noto paese democratico. A fare che?

Ma c’è di più. L’ultimo atto ufficiale del Mullah Omar è stata una lettera aperta diretta ad Al Baghadi dove gli intimava di non intromettersi nelle vicende afgane perché, diceva, la nostra è una guerra di indipendenza nazionale che non ha nulla a che vedere con le tue mire espansionistiche. Il Mullah Omar si ergeva quindi con i suoi Talebani che pur sono in maggioranza sunniti (anche se nei sei anni del governo di Omar la consistente minoranza sciita non è stata mai discriminata) come bastione contro le mire dell’Isis che guarda, al di là dell’Afghanistan, al Turkmenistan, all’Uzbekistan e anche al Pakistan (Progetto Khorasan). Se l’Isis, come ora dicono tutti, ma come io anticipai quando si chiamava ancora ‘Stato islamico dell’Iraq e del Levante’, è il più grave pericolo per l’Occidente, i Talebani dovrebbero essere considerati oggettivamente, anche se indirettamente, dei preziosi alleati. Tanto è vero che i questi mesi, in questi giorni, in queste ore ci sono furiosi combattimenti sul lungo confine afgano-pachistano fra i Talebani e i guerriglieri di Al Baghdadi. Ma la morte del Mullah Omar, che col suo prestigio, conquistato in un quarto di secolo di lotta per l’indipendenza afgana, riusciva a tenere unito il variegato mondo talebano, ha indebolito il movimento indipendentista. Molti giovani afgani si sentono attratti dall’Isis che in un paio di anni con i suoi metodi feroci ha conquistato un territorio vasto, mentre Omar, utilizzando solo i mezzi della guerriglia classica (nessun rapimento a scopo di estorsione, nessun video con prigionieri umiliati e sgozzati ma al contrario trattati con rispetto) è riuscito in 14 anni solo a riconquistare la pur vasta area rurale dell’Afghanistan. E i guerriglieri di Al Baghdadi, meglio armati, meglio foraggiati, con disponibilità di denaro quasi illimitate (nessuno, dico nessuno, ha mai aiutato i Talebani) hanno già conquistato tre distretti dell’Afghanistan e rischiano di dilagare.

E allora la domanda personale delle madri inglesi diventa politica: che ci facciamo noi in Afghanistan, contro ogni legittimità contro ogni morale e contro i nostri stessi interessi?

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2016

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Nei giorni di Natale Matteo Renzi ha inaugurato la variante di valico dell’Appenino Tosco-Emiliano. Con una giusta euforia perché era un’opera in gestazione da decenni e che solo ora è arrivata a compimento. In quelli stessi giorni (e ancora oggi) non solo le grandi città ma anche, sia pur in diversa misura, quasi l’intero Paese era sotto una cappa di smog. I due fenomeni sono in correlazione e in contraddizione, sia pur indirette. Non si tratta qui di far propria la critica degli ambientalisti vegani che contestano che la variante di valico ha comportato lo sbancamento di tonnellate di terra, disboscamenti, l’alterazione del paesaggio. I paesaggi così come li abbiamo conosciuti finora, in Italia e nel mondo, siamo destinati a non vederli più, se non attraverso ricostruzioni virtuali rese possibili dalla tecnologia, così come in Cina viene riprodotto un Colosseo che nella realtà non esiste più da secoli e a Las Vegas fra rovine romane artefatte ogni giorno Bruto pugnala Cesare. Né il disboscamento è la causa principale delle famigerate polveri sottili che non sono che un aspetto, parziale, dell’inquinamento globale che sta sconvolgendo il clima in tutto il mondo sviluppato o in via di sviluppo e anche in quello che allo sviluppo non partecipa e nemmeno ne vorrebbe sapere ma ne rimane coinvolto perché l’inquinamento prodotto dai Paesi industrializzati non riconosce, come la Bomba Atomica, i confini.

E allora vediamo come si lega la variante di valico alle polveri sottili. Perché abbiamo costruito questa variante? Perché vorremmo che fosse terminata al più presto la Napoli-Reggio Calabria, anch’essa in attesa da anni? Per rendere più scorrevoli e veloci i collegamenti fra Nord, Centro e Sud Italia. E perché devono essere più veloci? Per poter produrre meglio e di più. Cioè per poter crescere di più. Ma non ci può essere crescita senza inquinamento. L’una include l’altro. Se a Pechino non si può più nemmeno respirare è perché la Cina sta crescendo a ritmi forsennati, da quando, come l’India, è entrata nella logica del modello di sviluppo occidentale. Ciò che dobbiamo fare, in Italia e nel mondo sviluppato o in via di sviluppo, non è mettere ridicoli divieti alla circolazione delle automobili, pannicelli caldi che come dimostra l’esperienza servono a poco o nulla (la notte di Natale a Milano, dove non circolava un’automobile, i livelli di Co2 erano comunque superiori ai già laschi limiti) sperando con apposite danze rituali che arrivi la pioggia in modo che l’inquinamento invece che dall’alto ci arrivi, attraverso la corruzione delle falde acquifere, dal basso infilandosi su per il buco del culo. Quello che dobbiamo fare è ridurre la produzione, che è esattamente ciò che l’attuale modello di sviluppo non ci consente.

Nella notte di Natale Papa Bergoglio sotto la forma dell’ammonimento morale ha fatto il più duro attacco, a quanto io ricordi, almeno a livello di una autorità così importante, al modello di sviluppo industriale: “In una società spesso ebbra di consumo e di piacere, di abbondanza e lusso, Lui ci chiama a un comportamento sobrio, cioè semplice, equilibrato, lineare, capace di cogliere e vivere l’essenziale”. Se seguissimo –parlo naturalmente della parte ricca del mondo- le indicazioni del Papa e cioè non fossimo ebbri di consumo e di piaceri e tornassimo alla sobrietà e all’essenziale crollerebbero, appunto, i consumi, oggi, come sempre, tanto invocati e la produzione. E con essi l’economia dominante. Ma in quel riferimento ad un ritorno all’ ‘essenziale’ e a una vita più semplice c’è anche il succo morale del discorso di Bergoglio. Perché è nell’essenziale che si ritrova quella gerarchia di valori, preconomici, prepolitici, preideologici e, oserei dire, anche prereligiosi che oggi abbiamo perduto, non solo in Italia naturalmente, anche se in Italia in modo più evidente e sfacciato, ma nell’intero mondo così detto sviluppato.

Va da sé che il monito del Papa in quella notte che dovrebbe essere spirituale ma tale non è più da tempo, non verrà ascoltato da nessuno perché nessuno ha orecchie per intendere né, tantomeno, voglia di disturbare il Manovratore.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2015