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Ineffabili americani. Prima costituiscono in Libia un governo fantoccio, quello di Al-Sarraj, che fino a poco tempo fa era così ben visto dalla popolazione libica che era costretto a starsene, con i suoi ministri, su un barcone imboscato nel porto di Tripoli. Adesso che questo governo ha ottenuto l’appoggio della fazione di Misurata, ma non quello del governo antagonista di Tobruk e tantomeno delle altre mille milizie che agiscono in Libia, gli Stati Uniti gli han fatto chiedere il loro soccorso. Qualcosa che somiglia molto alla richiesta di ‘aiuto’ dei Paesi fratelli quando l’URSS invadeva l’Ungheria e la Cecoslovacchia che erano insorte contro i governi filosovietici.

Gli americani hanno tenuto a precisare che i loro raid su Sirte e altrove saranno “di precisione”. Speriamo che non abbiano gli stessi effetti dei ‘missili chirurgici’ e delle ‘bombe intelligenti’ usati nella prima guerra del Golfo del 1990. Sotto le luminarie dei traccianti e dei fuochi d’artificio che ci faceva vedere la Tv italiana con Fabrizio Del Noce piazzato sulla terrazza del più grande albergo di Bagdad, cioè un albergo del nemico che controllava ancora la sua capitale (altra stranezza delle guerre moderne) sono morti 167.000 civili, fra cui 48.000 donne e 32.195 bambini (dati al di sopra di ogni sospetto perché forniti, sia pur fortuitamente, da una funzionaria del Pentagono).

Al-Sarraj s’è affrettato ad assicurare che il suo governo “respinge qualsiasi intervento straniero senza la sua autorizzazione”. Il fantoccio di Tripoli sa benissimo che una guerra aperta e dichiarata alla Libia compatterebbe tutti i libici di qualsiasi fazione perché esiste pure là, anche se a noi può sembrar strano, un sentimento e un orgoglio nazionali. E questo andrebbe a tutto vantaggio dell’Isis che è il gruppo più forte, meglio armato, più determinato che in breve tempo ingloberebbe anche le altre milizie. Ma ciò che dice al-Sarraj è una barzelletta a cui è difficile credere sia perché ciò che nega è già avvenuto, sia perché è alle dirette dipendenze del governo americano a cui è legata la sua sopravvivenza, e gli USA faranno quello che vorranno, sia perché sul terreno sono già presenti truppe speciali americane, inglesi e francesi.

Ineffabili americani. Prima, nel 2011 attaccano, insieme ai francesi, la Libia, Stato sovrano rappresentato all’ONU, e contro la volontà dell’ONU, disarcionando il dittatore Gheddafi con cui avevano fornicato fino al giorno prima, provocando la disarticolazione di quel Paese dove mille milizie sono adesso in guerra fra loro. Poi, per cercare di rimediare al disastro che hanno causato, la ribombardano nel 2016. A quell’attacco partecipò anche l’Italia che era l’ultima ad avervi una qualche convenienza dato che aveva consistenti interessi economici in Libia e il presidente Berlusconi ottimi rapporti con il leader libico che solo pochi mesi prima aveva accolto anche troppo sontuosamente a Roma. E infatti Berlusconi era contrario a quella guerra e quindi è doppia la sua responsabilità nell’aver seguito francesi e americani in quell’avventura.

Non c’è niente da fare, passano gli anni passano i decenni ma noi non riusciamo a liberarci della pelosa tutela dell’ ‘amico amerikano’. Nel 1999 partecipammo all’aggressione alla Serbia (gli aerei americani partivano da Aviano), guerra anche questa a cui l’ONU s’era dichiarata contraria. E anche con la Serbia noi avevamo solidi rapporti di amicizia che risalivano addirittura ai primi del ‘900 quando a Belgrado si pubblicava un quotidiano intitolato Piemonte (i serbi infatti vedevano nell’Italia che si era da poco unita un esempio per conquistare la propria indipendenza sotto le forme di una monarchia costituzionale). Il nostro coinvolgimento nella guerra alla Serbia in quanto membri della Nato non era per nulla obbligato, tant’è che la piccola Grecia, che fa parte anch’essa della Nato, si rifiutò di parteciparvi.

Adesso saremo costretti a fornire la nostra base di Sigonella dove sono presenti una dozzina di droni e di caccia americani.

Bel colpo. Finora il governo Renzi, seguendo la linea di Angela Merkel, si era tenuto prudentemente ai margini del casino mediorientale e per questo l’Isis non aveva colpito né noi né i tedeschi (gli attentati terroristici in Germania sono stati fatti da psicopatici sulle cui azioni poi l’Isis ha messo il cappello). Adesso dovremo attenderci anche in Italia attacchi dell’Isis che più viene colpita in Medio Oriente e più, logicamente, porta la guerra in Europa. Vedremo come reagiranno le mamme italiane quando avremo anche noi i nostri Bataclan.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2016

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L’uomo occidentale sembra aver perso "un centro di gravità permanente" (e forse anche istantaneo). E' una sorta di spappolamento generale. Gli individui hanno smarrito qualsiasi punto di riferimento che non sia la loro frustrazione e la ricerca di compensarla in un modo o nell'altro, in qualsiasi modo. In Occidente avvengono stragi, singoli omicidi, suicidi che non trovano altra giustificazione che in uno stato di depressione profonda e generalizzata. Penso ai massacri che con sempre maggior frequenza avvengono nei college americani o nelle feste di adolescenti, penso al pilota tedesco Andreas Lubitz che, per motivi personali, si è suicidato in grande stile portando con sé centinaia di morti. Ma penso pure, e forse soprattutto, alla serie di omicidi famigliari, accompagnati spesso dal suicidio di chi li compie (mariti o fidanzati che ammazzano le loro compagne, i figli e poi si tolgono la vita, ma avviene anche il contrario sia pur in percentuale minore) che costellano ogni giorno le cronache, non solo italiane ma europee, o agli omicidi per banali liti condominiali commessi da persone all’apparenza normalissime.
C'è qualcosa di marcio nel regno di Danimarca ed è tanto più inquietante perché sembra legato al totem della modernità: quel benessere sempre inseguito, tanto agognato, spesso raggiunto. I paesi più ricchi, più regolati, con i migliori welfare, cioè i paesi scandinavi, hanno il più alto tasso di suicidi in Europa, così come il Giappone, che ha ripreso in pieno il modello occidentale, ha in questo campo il primato assoluto, mentre nella Cina del boom il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza tra gli adulti. La globalizzazione occidentale non globalizza solo economia, socialità, modelli e stili di vita ma depressioni, nevrosi, frustrazioni, anche in culture che fino a poco tempo fa c'erano lontane ed estranee.

Suicidi, omicidi, stragi che non sembrano avere alcuno scopo è questa la vera epidemia in Occidente che ci dovrebbe far riflettere e che dovremmo combattere, più dell’Isis, e invece, in fuga perenne dalla realtà, cerchiamo di rimuovere, come tutto il resto, rifugiandoci nella frenesia collettiva di Pokemon Go. 

La malattia che ci ha colpito è una profonda mancanza di senso. Nella jihad questo senso c’è, per sbagliato che sia, noi lo abbiamo perduto. Il nostro è un uccidere e morire, e spesso un vivere, per il nulla, per il niente. Anche al di fuori degli straordinari giochi che ci siamo inventati la nostra sembra sempre più un’esistenza vissuta nel virtuale e fuori dalla realtà.

Non è la presenza di conflitti anche feroci il problema, questa è la vita ("gli uomini non sanno come ciò che è discorde è d'accordo con sé" dice Eraclito) ma la loro assenza in quello che noi chiamiamo Occidente. Per quanto possa sembrare paradossale il dirlo, e dirlo proprio in questo momento, a noi occidentali occorrerebbe una guerra, ma una vera guerra non macchine contro uomini come quelle che stiamo conducendo, per restituirci una gerarchia delle priorità e il senso del valore della vita propria e altrui.


Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2016

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Tutti presi da ciò che avveniva in Europa i giornali occidentali hanno sottovalutato, e a volte semplicemente ignorato, ciò che negli stessi giorni accadeva in Afghanistan. Il 23 luglio migliaia di manifestanti sciiti che protestavano per la mancanza di elettricità sono stati vittime di un attentato kamikaze che ha fatto oltre 80 morti e almeno 250 feriti. L’Isis ha rivendicato l’azione. I Talebani afgani (troppo spesso confusi, per ignoranza o perché fa comodo, con quelli pachistani che sono tutt’altra cosa) non solo hanno negato ogni loro coinvolgimento ma hanno condannato il massacro senza se e senza ma come già avevano fatto per l’attentato, avvenuto in Pakistan nel dicembre del 2014, a una scuola frequentata dai figli dei militari pachistani. Non è affatto vero che, come scrive Michele Farina sul Corriere, quella fra Talebani e l’Isis è “una gara al massacro più grande”. Perché si tratta di movimenti diversi con obbiettivi altrettanto diversi e che combattono in modo diverso. 1) I Talebani nei sei anni in cui sono stati al governo non hanno mai perseguitato gli sciiti, gli Hazara o altre minoranze etniche o religiose. Quello che chiedevano, come lo chiede ogni Stato, è che tutti rispettassero la legge. 2) I loro attacchi terroristici o kamikaze, profondamente estranei alla tradizione afgana ma a cui i Talebani sono stati costretti dal fatto di non avere di fronte un nemico in carne e ossa ma solo caccia e droni, sono sempre stati mirati a obbiettivi militari e politici cercando di coinvolgere il meno possibile i civili, per la semplice ragione che è grazie all’appoggio della popolazione, o di buona parte di essa, che hanno potuto resistere per 14 anni a un nemico tanto superiormente armato. Ovviamente ci sono stati anche ‘effetti collaterali’, ma nulla di paragonabile a quelli provocati dagli indiscriminati bombardamenti americani e Nato (circa 200 mila vittime secondo alcune stime). 3) Quella dei Talebani è una guerra di indipendenza contro l’occupante straniero che non ha altro obbiettivo che liberarsene, la loro non è una guerra di religione e non ha niente a che vedere con le mire espansionistiche e globali dell’Isis. E’ anche per questo -e non per avere una sorta di ‘primazia nei massacri’ come scrive Farina- che i Talebani, pur sunniti, sono acerrimi nemici dell’Isis, che sul mondo sunnita ha issato la sua bandiera nera, lo hanno sempre combattuto e tuttora lo combattono. Ne fa fede l’ultimo atto del Mullah Omar prima della morte: una lettera aperta ad Al Baghdadi in cui intimava al Califfo di non cercare di penetrare in Afghanistan, aggiungendo inoltre che stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano”. Insomma erano un argine all’Isis. Se è vero che l’Isis “è il più grave pericolo per l’Occidente sorto dopo la fine della seconda guerra mondiale” come scrissi quando si chiamava ancora Stato dell’Iraq e del Levante, cosa di cui ora tutti, un po’ tardivamente, sembrano accorgersi, gli occidentali se avessero avuto non dico un minimo di lungimiranza ma di puro buon senso, avrebbero dovuto considerare i Talebani come degli alleati indiretti e allentare la presa su di loro invece di continuare a massacrarli. E’ ovvio che adesso i Talebani, stretti nella morsa delle forze occupanti e dei guerriglieri di Al Baghdadi, persa la guida del Mullah Omar che con il suo prestigio li compattava, e anche quella del suo ‘numero due’ Mansour, ucciso da un drone americano, cedano terreno di fronte all’Isis come dimostra l’attentato di Kabul e che è molto probabile che, come ho previsto, in breve il Califfato prenda il loro posto in Afghanistan. Il che apre ad altre insidie. Perché da lì l’Isis può puntare sul Turkmenistan, Uzbekistan e altre regioni dell’Asia centrale dove sono presenti forti componenti islamiche pronte a farsi radicalizzare. Sembra che in quindici anni le leadership occidentali non abbiano ancora imparato nulla dai loro errori (e orrori).

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2016