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Entrò in classe, la Terza C, una mattina di novembre ad anno scolastico già iniziato, ragazzino spettinato, disordinato, ma quasi austero, come i liceali di quel tempo, ribelli in giacca e cravatta. Lo riconobbi subito mentre ancora esitava, in piedi, intimidito, cercando con lo sguardo dove andare a sedersi. Non so se l’avete mai provato, ma poche esperienze come quella di essere aggregato, tu solo e in ritardo, a una comunità o classe di tuoi coetanei già affiatati, trasmettono, con l’imbarazzo di sentirsi diversi ed esaminati, un senso di indifesa estraneità. “Trovati un posto, sbrigati – intimò il prof d’italiano al nuovo alunno – stiamo facendo lezione!”. Poiché lo conoscevo e lì ero un principino, mi alzai, spinsi i libri e le mie cose sul banco verso la parete e gli indicai la sedia a fianco accanto all’altro banco. Mi raggiunse e mi diede la mano sospirando, ”Almeno uno lo conosco”.

A dodici, tredici anni, avevamo giocato insieme a calcio, all’oratorio dei padri salesiani, quelle partite che cominciavano in trenta e più giocatori divisi in due squadre che via via si assottigliavano fino a che i superstiti non venivano reclamati dal prete o da genitori spazientiti. Invece i resistenti a oltranza ricominciavano coi palleggi e, quando non li interrompeva il pallone sgonfiato o il sacrestano, continuavano oltre il tramonto, veri stakanovisti, a fare tiri in porta anche senza portiere.

Lui abitava lì vicino – la “casa dei giornalisti”- come gli altri ragazzini con cui arrivava e se ne andava. Facevano gruppo scambiandosi e commentando la Gazzetta dello sport, e giornali con le firme o le vignette dei loro padri e, con i ragazzi di altre classi sociali, ostentavano un’insopportabile arietta di superiorità. Poi scoprii che anche tra di loro le promesse di amicizia sacra e indissolubile si alternavano a scatti di rivalità, liti infantili, gelosie adolescenziali. Non ho mai avuto voglia di frequentarli, nessuno, salvo Massimo, a partire dal giorno in cui lo vidi prendere le difese di un piccoletto pestato da uno del suo gruppo, il più grosso.

Andammo a casa sua e la cosa che più mi colpì e gli invidiai fu che, figlio unico e orfano di padre, quando la mamma era assente aveva tutta la casa a disposizione. Su un tavolo teneva fissata una tela o tovaglia e, sopra, sparsi o impilati, era pieno di “tollini” (tappi di bottiglia) sul cui fondo incerato aveva incollato etichette di giocatori di tutte le squadre. Una play station fatta a mano, preistorica, artigianale anticipazione delle play station digitali e virtuali, su cui giocano oggi con i loro amici i nostri figli e nipoti. Era mezzo secolo fa, a Milano, oratorio dei Salesiani, Liceo Classico Carducci, casa dei giornalisti.

 

Mezzo secolo dopo Massimo Fini ha pubblicato la sua autobiografia dal titolo più semplice immaginabile, “Una vita” (Marsilio, 2015). Leggendola mi sono accorto che del mio compagno di banco, dell’amico con cui ho fraternizzato e duellato per tanti anni, correndo ciascuno la sua gara, ciclicamente incrociando – destino o carattere che sia – l’uno la strada dell’altro, insomma, della sua vita, io, in realtà, ho sempre saputo troppo poco.

Bisogna dire subito che l’autore mantiene la promessa: dentro il suo libro c’è vita, molta vita, anzi, più vite. Più vite perché più esperienze intense e incisive l’hanno ingaggiato e assorbito su più fronti per poi essere riaperte e sezionate, come su un tavolo anatomico ed esibite sul banco, umana troppo umana mercanzia. Più vite scandite così dalle proprie personali date fatali come dalle epoche che abbiamo attraversato, quelle indispensabili a occupare mezzo secolo. Ma più vite anche in un altro senso.

Più vite da vivere contemporaneamente è molto più complicato che più vite vissute successivamente.

Quando parla di sé e di chi o di cosa nel mondo gli è stato famigliare, quando racconta di suo figlio e di sua madre, di altre donne e uomini, di quale umanità l’abbia fatto amare e odiare e da cui si sia sentito amato, trascurato, abbandonato, è allora che Fini ci coinvolge e ci tocca dentro come una spina, come una canzone. Come quando parla della nostra Milano degli anni sessanta – i primi (non gli ultimi, i cosiddetti “formidabili” di Mario Capanna), anni aperti e luminosi, costruttivi e contrastati in una Milano tutta da camminare, da esplorare, da toccare con mano, da cantare. Come quando parla della casa di famiglia, del babbo importante e della madre severa, di molti insegnamenti e di poca affettività. Della casa in cui ha sempre abitato e continua ad abitare, Massimo fa brillare un divano rosso, che, per molti, intervistati o semplicemente incontrati, si fece lettino di psicanalista, confessionale senza liturgia di uno che ti fa parlare rivelandosi, lui, più dell’ospite di turno, debole e colpevole di delitti del cuore, dei sensi, dell’indole. Colpe e debolezze oneste, le sue, perché irresistibili, ancestrali, ataviche. Dunque perdonate in partenza, Le sue, ripeto, non certo le colpe degli altri. Che, dopo un po’ di tempo, su un giornale, magari le trovavi spiattellate senza tanti riguardi. Decisamente Massimo è meno complice di come sembra.

Tecnica proibita, e si capisce perché, agli addetti associati alle varie confessioni cristiane e alle varie scuole freudiane, junghiane, kleiniane e chi più ne ha più ne metta. Ma, infine, un terapeuta più afflitto del paziente e però capace di consolarlo non è cosa da poco, soprattutto non è cosa da scuole o accademie di dottori affiliati e disciplinati da norme, codici e statuti.

Questo si capisce leggendo questo libro, ma questo dice poco della cosa più importante di “Una vita”: la scrittura. La sua scrittura, restando incollata alla realtà, si fa qui disinibita, vorticosa, aggressiva e, come aderendo alla sua condotta, alla sua caccia grossa di sensazioni, di barriere da scavalcare e di ebbrezze autodistruttive, ti contagia di temerarietà, per farti salire sulla sua giostra.

La differenza tra Fini scrittore e Fini giornalista è che, mentre negli articoli di giornale il bersaglio è sempre qualcun altro, nel suo ultimo libro il bersaglio su cui si accanisce è se stesso. Per quanto sia bravo come giornalista, saggista, polemista e ritrattista solo qui, diventato scrittore, tocca corde che vibrando fanno male, male vero, solo ad ascoltarle. Come assistere a un harakiri senza poter far nulla.

Se nel giornalismo Massimo si è occupato di personaggi e storie varie in modo quasi sempre polemico, come saggista ha spostato la polemica sull’attualità stessa, sempre più spesso facendo ricorso al pozzo del passato e alle sue risorse contro i moderni, i loro pregiudizi e le loro contraddizioni tanto arroganti quanto inspiegate. Così è diventato uno scrittore reazionario, oscurantista, retrò pur sempre coerente con il giornalista assediato dal fastidio, dal fardello, dalla miserabile ipocrisia dei contemporanei.

Rassicuro: Massimo sa indirizzare benissimo la sua penna dove vuole e come infierisce su di se, così sa anche gratificarsi e complimentarsi per una vita condotta all’insegna dell’onestà, del disinteresse, dell’indipendenza dal potere e dai suoi uomini. Rivendicazione più che legittima da parte di chi è stato censurato, denunciato, licenziato pagando non so quante volte il prezzo della coerenza. La coerenza, ahinoi, è una virtù a se, una virtù che parla di noi stessi, ma non dice nulla della realtà. Infatti, si può essere coerenti anche nel vizio, nella colpa, nella pigrizia e nei delitti: solo per questo saremmo anche virtuosi?

Impudico, Massimo racconta di se e dei suoi sensi di maschio etero e omo, seduttore sedotto e, infine, deluso dalle sue conquiste femminili. Come intreccia prosa on the road e prosa colta, all’ombra di Rimbaud e di Celine, così, mentre aspira alle virtù borghesi dei benpensanti non rinnega il vizio di esistere, di voler esistere senza limiti, senza cedere mai né alla fede né alla dea ragione. Tantomeno alla politica per lui sinonimo di potere, anzi, degli uomini di potere dell’odiato occidente – quasi un equivalente dell”odiata nazione” del Jules Verne di “Ventimila leghe sotto i mari”. Contro di loro – i potenti, i contemporanei, i conformisti – è persino ovvio, Fini dà sempre ragione agli altri, a tutti gli altri, da Catilina a Nietzsche, dal Mullah Omar a Beppe Grillo.

Dopo la discesa agli inferi delle notti insonni e degli incontri burrascosi viene anche per lui l’ora di lusingarsi, collezionando interviste e ritratti a gente famosa, a very important people. Qui il libro si fa più glamour, più studiato e quindi freddo. Da non pochi di questi incontri professionali lo scrittore riemerge giornalista un po’ troppo soddisfatto di essere così coraggioso e ribelle, implacabile o magnanimo a suo gusto, registrando compiaciuto anche le adulazioni e tenendo stretta, per sé, l’ultima parola, il commento definitivo. Sono registri di giornalisti avvezzi a fare ‘carrellate’ di personaggi di cui dispensare bozzetti fatti in giornata, per l’obbligo di consegnare il pezzo, come disegnatori di piazza. Ma era cosa giusta e onesta che in “Una vita” non mancasse il Fini giornalista che immagino sia per alcuni anche il più conosciuto e che, certo, aiuterà il successo del libro di uno scrittore vero.

Massimo sta diventando del tutto cieco. Ha scritto desolato che non potrà più scrivere. Non è vero, si sbaglia: può imparare il linguaggio dei ciechi, può usare le tecnologie che trasformano la voce in scrittura e le applicazioni che consentono ai ciechi di correggere i propri testi. Non si deve avvilire perché non vede, tantomeno annullare. So che a nessuno basta mai, ma lui ha visto tantissimo, quasi tutto quel che un uomo ha da vedere. Ha bisogno di un po’ di tempo per ritrovarsi nello spaesamento, per sopportare la mancanza del senso perduto e per potenziare e affinare l’udito, il gusto, l’olfatto e il tatto. Ha certo bisogno di compagnia, di molte voci, magari di radio a cui parlare oltre che da ascoltare, insomma, ha bisogno del suo lavoro, dei suoi famigliari e dei suoi amici e anche dei suoi nemici, oggi molto più di prima. Questa può diventare una cosa bellissima: è possibile, dipende, se … “solitaire et solidaire”, come diceva di sé Albert Camus, ed io ho detto di Massimo – dipende se, solitari e solidali saremo anche noi, gli altri, gli amici e i suoi lettori.

Claudio Martelli

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Il negazionismo è un reato che -come ogni reato di opinione- non dovrebbe esistere in democrazia. Una democrazia è tale infatti quando accetta anche le visioni che le paiono più aberranti. Questo è il prezzo che paga a se stessa. Altrimenti -sindacando su cosa si può oppure non si può dire- si trasformerebbe in una teocrazia laica.

Con il reato di negazionismo, oltretutto, si impedisce anche la ricerca storica. Lo studioso David Irving -reo di aver scritto un libro negazionista, anzi secondo me parzialmente negazionista- è stato arrestato nel 2005 in Austria e condannato a 3 anni di carcere (che poi conta relativamente se siano stati ammazzati 6 milioni di ebrei oppure 4, la gravità è nel fatto di essere uccisi in quanto ebrei, o palestinesi, o malgasci).

Invece il diritto di ricerca storica è una delle grandi conquiste dell'Illuminismo, oppure vogliamo tornare ai tempi del cardinale Bellarmino, che tappava la bocca a Galileo?

Tra l'altro già oggi il nostro codice è pieno di reati liberticidi -per esempio il vilipendio della bandiera, delle Forze armate e del capo dello Stato- che potevano pure essere compresi in periodo fascista, ma che in democrazia la contraddicono.

Per non dire poi della legge Mancino sull'istigazione all'odio razziale. L'odio è un sentimento, come la gelosia, e non può essere impedito. I peggiori regimi totalitari puniscono le azioni, le opinioni, ma non mi risulta che abbiano mai messo le manette ai sentimenti. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, me è ovvio se gli torco anche solo un capello devo finire in gattabuia. L'unico vero limite che può porre una vera democrazia è quello della violenza.

Si sostiene che la legge sul negazionismo colpisca «atti lesivi della dignità umana». Io dico che o i principi vengono sostenuti integralmente oppure, anche con una sottilissima deroga e con le migliori intenzioni, si apre una breccia in cui sai dove cominci ma non dove vai a finire. Se quello è un «atto lesivo», allora non si potrà dire più nulla.

Tra l'altro il grande movimento di «opinione» a favore di una legge sul negazionismo e la tambureggiante campagna sulla Shoah, che dura da decenni, hanno finito sicuramente per rafforzare l'antisemitismo. E, al riguardo, lo storico americano ebreo Norman Gary Finkelstein ha scritto -con molto coraggio- L'industria dell'Olocausto.

Dobbiamo accettare anche la parola che ci fa orrore. La democrazia deve essere tollerante, e la tolleranza della democrazia non deve essere scambiata per debolezza. E' anzi la sua forza. Se una democrazia ritiene di avere valori così superiori tali da imporre veti alle opinioni, allora non è democrazia ma totalitarismo mascherato. Perché ha tanto indignato l'attacco a Charlie Hebdo? Perché è stato un attacco violento e intollerante contro un'opinione seppure per molti repellente. Vogliamo metterci sullo stesso piano?

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2015

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In Italia nel 2014 sono nati 509 mila bambini, cinquemila in meno dell’anno precedente, confermando una tendenza che è in atto da tempo, tant’è che si tratta del più basso tasso di natalità dall’Unità. Ciò pone ovviamente dei problemi economici. Come farà un nucleo esiguo di giovani a mantenere una pletora di anziani, per la maggioranza disabili o comunque rincoglioniti? E che futuro aspetta questi giovani una volta che saranno diventati a loro volta anziani? E che vitalità ci si può aspettare da un Paese composto per lo più da vecchi? In Tunisia dove l’età media è di 32,5 anni ci hanno messo due giorni di rivolta, violenta ma non armata, per rovesciare il dittatore Ben Alì. Da noi l’età media è di 42,5 e non riusciremmo a scalzare non dico il finto giovane Matteo Renzi, ma nemmeno la Serracchiani.

Il problema della denatalità è comune a quasi tutti i paesi occidentali ma il fatto è che noi siamo al penultimo posto, nel mondo, in questa particolare classifica. E, a mio avviso, il dato più sinistro è che anche gli immigrati, che nei paesi d’origine figliano come conigli, una volta arrivati in Italia si fermano. C’è qualcosa di ammalato e di ammalante nella nostra società. La Scienza tecnologicamente applicata (il più grave pericolo per il mondo occidentale, altro che Isis) ha convinto le nostre donne che si possono avere figli a qualsiasi età. Ma non è così. La Natura, imparziale, in queste cose è spietata. Conosco molte donne sulla quarantina, che si pensano ancora come ragazze, e che dopo aver sacrificato una parte importante della loro esistenza a una qualche carriera, adesso vorrebbero avere dei figli. Ma i figli non vengono quando ti pare e piace. A parte che ci vorrebbe un partner, cosa diventata, lo ammetto, trascurabile, la Natura, in questo campo, come in tutti gli altri, non fa molti sconti. Ed ecco allora gli affannosi ‘viaggi della speranza’ a Barcellona per procurarsi qualche fecondazione artificiale. E anche i ragazzi sono troppo timorosi. Prima di avere un figlio pretendono che gli sia assicurata la palestra, il tennis, corsi di qualsiasi tipo. Ci vorrebbe un po' più di spavalderia. I figli bisognerebbe averli da giovani, proprio per quella sacrosanta incoscienza che solo la gioventù può dare e che ci rende meno affannosi nei loro confronti e che, nel contempo, li libera dalle nostre eccessive attenzioni. Nel rapporto padre-figlio maschio l’educazione passa soprattutto per il gioco, il gioco sportivo, atletico. Tu devi essere in grado di giocare a calcio con lui, a tennis, a sfidarlo in lunghe gite in bici. Altrimenti diventi un nonno. E ci si mette pochissimo perché il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre vite, vola, come dice il proverbio. Proprio l’altro giorno parlavo con un giovane di 36 anni che mi è caro (detesto la compagnia dei miei coetanei, in questo sono infantilmente berlusconiano) che mi raccontava che una sua fidanzata gli aveva regalato un viaggio a Zanzibar. Poiché a me nessuna ragazza a mai regalato un viaggio nemmeno a Sesto San Giovanni, gli ho detto: “Beh, spero sia la volta buona”. “Sto valutando” ha risposto lui. “Valuta di meno, che il tempo corre molto più veloce di quanto noi crediamo”.

Qualche tempo fa parlavo con una bella donna di 47 anni. Le ho chiesto se aveva figli. Invece di fare la solita manfrina (“Non li ho voluti”, “Metterli al mondo in questa società è solo un atto di egoismo”, eccetera) mi ha risposto di no e che la cosa le dispiaceva moltissimo. “Ho avuto un fidanzato per quattro anni. Siccome sono molto accuditiva e gli facevo dei mangiarini squisiti, lui era contento. Però sono convinta che se avessimo mangiato di meno e scopato di più, sarebbe andata meglio”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2015