Lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, del nostro tempo, in Occidente, può essere riassunto in una sola parola: paura. Paura, non terrore. Il terrore lo seminano quegli altri che hanno quel coraggio che a noi è venuto completamente a mancare. Tutti i governanti europei affermano solennemente che noi (la nostra gente, i nostri popoli) non abbiamo paura. Affermare di non aver paura è già dimostrarla. Lo documentano alcuni dati: a Parigi, la città più bersagliata dagli attentati jihadisti, il turismo è calato del 10% (Louvre compreso), in Tunisia, dove vanno in vacanza gli europei, del 90%.
Al Reina di Istanbul, nella parte europea e occidentalizzante della Turchia, frequentato dalla ‘meglio gioventù’ locale e internazionale, un solo uomo ha potuto fare quel che ha voluto, uccidendo 39 persone e ferendone un’ottantina, per più di dieci minuti, riuscendo anche, deposto il kalashnikov scarico, a cambiarsi d’abito per poi uscire indisturbato e mescolarsi fra la folla in fuga. Possibile che fra i seicento frequentatori del locale non si sia trovata una decina di giovani pronti a balzargli addosso? Certo quello era armato e ne avrebbe uccisi alcuni, ma gli altri lo avrebbero sopraffatto.
In Afghanistan, dopo l’occupazione americana, centinaia di talebani furono fatti prigionieri dall’uzbeko Dostum, uno dei più feroci signori della guerra che oggi siede nel governo fantoccio afgano, e rinchiusi in una fortezza. I talebani, moltissimi dei quali erano feriti, giudicando indegna quella situazione decisero di reagire. “Si precipitavano a mani nude, urlando, sugli uzbeki di Dostum che gli svuotavano addosso le cartucciere dei kalashnikov. Ma la furia dei prigionieri era tale che gli uzbeki non facevano in tempo a ricaricarli prima che quelli che venivano da dietro, scavalcando i morti, gli fossero sopra. Dopo qualche ora di questo belluino corpo a corpo i talebani avevano sopraffatto i carcerieri e si erano impadroniti di alcune postazioni del forte” (Il Mullah Omar, Marsiglio, p.64). Alla fine, con l’intervento degli americani, furono uccisi tutti. Ma morirono con onore. Questo vuol dire avere coraggio.
Nell’attentato alla consegna bagagli del terminal 2 dell’aeroporto di Fort Lauderdale, in Florida, le televisioni hanno fatto vedere scene di panico: gente che scappava da tutte le parti, che si gettava per terra, che camminava con le mani alzate. Panico del tutto comprensibile (soprattutto quell’alzar le mani perché con gli americani non c’è niente di più facile di essere colpiti dal ‘fuoco amico’) dato che cinque minuti prima un killer, Esteban Santiago, aveva ucciso cinque persone e ne aveva ferite altre otto. Poi la situazione è tornata sotto controllo. Ma è bastato che qualcuno gridasse di avere udito degli spari provenire dai parcheggi perché il panico si ripetesse, tale e quale. Non c’era stato nessuno sparo. Era solo l’eco della paura.
Non osiamo più mandare uomini sul terreno. A Mosul si combatte una battaglia per la vita e per la morte contro l’Isis, il più grave pericolo per l’Occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma noi non ci siamo. Ci sono i peshmerga curdi, i pasdaran iraniani, l’esercito iracheno sia pur imbelle ma da noi potentemente armato. Sono 130 mila uomini, appoggiati dalla decisiva aviazione americana, con i suoi caccia e i suoi droni, contro 6/7 mila jihadisti che resistono da mesi, arretrando lentamente e facendo pagare le vittorie del nemico con “lacrime e sangue”. Si può pensare quello che si vuole di questi uomini, della loro ferocia e, spesso, della loro pura bestialità soprattutto nel trattamento dei prigionieri, ma tutto si può negar loro tranne il coraggio.
Ma la forza dell’Isis, che comunque è un’epidemia ideologica, un’idra dalle mille teste che risorgerà comunque anche qualora i peshmerga e i pasdaran riuscissero a radere al suolo il Califfato, non sta nell’indiscussa valentia dei suoi combattenti, ma nel vuoto di valori dell’Occidente. E in questa mancanza di valori, che riguarda quasi tutti gli aspetti della nostra vita, ce n’è uno che, in guerra, è supremamente prezioso. E si chiama coraggio. Perché come afferma Catilina in un suo famoso discorso (poi ripreso in larga misura da Winston Churchill nel pieno della Seconda guerra mondiale, quando però gli occidentali non erano ancora affondati nella grascia del benessere) “in battaglia il pericolo maggiore è per chi maggiormente teme”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2017
La spudoratezza dei partiti, di sinistra e di destra, è pari solo alla loro malafede. Era appena uscito il Codice etico interno varato dai 5Stelle, che prevede fra le altre cose la soppressione dell’automatismo per cui un avviso di garanzia non è più sufficiente per sospendere da questo movimento chi ne sia stato raggiunto, che le sinistre e le destre hanno bollato il Codice come “salva Raggi”. Omnia sozza sozzis verrebbe da dire. Vediamo cosa scrive l’Unità organo del Pd: con questo Codice il movimento 5Stelle è entrato “a far parte di quelle forze politiche che hanno varato norme ad personam, il nuovo codice, infatti, altro non è che la ‘salva Raggi’”. Negli stessi termini si sono espresse le destre che di leggi ‘ad personam’ se ne intendono. Insomma si avverte qui nei partiti una sorta di giubilo: vedete i 5Stelle non sono diversi, sono come noi. Ma quel parallelismo non sta in piedi. Una cosa è un provvedimento preso all’interno di un partito che fra le altre cose non dovrebbe interessare nessuno che non ne faccia parte perché è un atto puramente privato essendo i partiti delle associazioni private, altra è una legge dello Stato varata per salvare un esponente politico da quelli che vengono pudicamente chiamati i suoi guai giudiziari. Insomma una legge è una legge, il regolamento di un condominio è un’altra cosa. Sono distinzioni elementari che non avrebbero nemmeno bisogno di essere spiegate. Ma in Italia è destino che si debba sempre ricominciare dal punto e dalla retta. Al cittadino i regolamenti interni di un’associazione privata dovrebbero rimanere del tutto indifferenti. Sono quindi assolutamente contrario a quanto ha detto un esponente dei 5Stelle che auspicava che il Codice grillino venisse assunto anche dagli altri partiti. Ognuno, nel privato, si regola come vuole. Ciò che conta è solo quanto ha rilevanza pubblica, cioè in questo caso la sanzione penale. Del resto, per lunga esperienza, diffido dei ‘codici etici’. Quando lavoravo per il gruppo Rizzoli-Corriere fu varato un codice etico cui dovevano attenersi i dipendenti. Peccato che questo codice fosse ispirato da Bruno Tassan Din, un delinquente che verrà poi condannato a quindici anni di carcere.
Precisato quello che andava precisato, sulle colonne di questo giornale avevo avvertito Grillo e i suoi di non premere troppo l’acceleratore sulla purezza e l’illibatezza dei rappresentanti del suo movimento come di quelli di altri partiti. Perché questa pretesa di una impossibile santità finisce inevitabilmente per risolversi in un boomerang. Nessuno di noi è Santa Maria Goretti. Prendevo spunto da una frase di Don Giussani: “l’errore è una verità impazzita”. Traducendo: qualsiasi principio, anche il più giusto, come, nel caso dei 5Stelle, è l’ansia di moralità in un Paese marcio fino al midollo, se portato alle sue estreme conseguenze diventa un errore. Perché permette di mettere sullo stesso piano cose che non hanno nulla a che fare fra di loro, come nella fattispecie una legge ‘ad personam’ e un provvedimento interno o come la pagliuzza in un occhio(che è il caso della Muraro o, del tutto ipoteticamente, della Raggi) e la trave di partiti che hanno in parlamento 117 indagati o condannati.
E’ del tutto evidente che l’equazione codice etico=salva Raggi è l’ennesimo attacco alla sindaca di Roma, del tutto strumentale perché il vero obbiettivo è delegittimare in qualsiasi modo i 5Stelle in vista delle prossime elezioni politiche. E i grillini fanno del loro meglio per prestare il fianco a questa delegittimazione, ma per motivi molto diversi da quelli che abbiamo fin qui raccontato e che sono personali ed esistenziali. Questo Movimento è percorso al suo interno, soprattutto sul coté femminile, da invidiuzze umane, forse troppo umane. Sentiamo cosa dice Annalisa Taverna, sorella della senatrice Paola, a proposito di Virginia Raggi: “Nel video di un minuto e mezzo in un evento durato ore, sembri cappuccetto rosso sperduto tra i lupi cattivi (però quando hai scelto i tuoi collaboratori contro tutto e tutti la parte del lupo t’è riuscita benissimo). Non ti ha considerato nessuno e che t’aspettavi? Ogni tua mossa è sempre sembrata per farti cacciare a calci in culo e farci perdere Roma. Bene è arrivato il momento che il popolo 5Stelle ti dica che hai rotto. Smetti di fare la bambina deficiente con manie di protagonismo e deliri di onnipotenza e comportati da 5Stelle perché ti abbiamo votato pensando che lo fossi altrimenti chi te se filava! Datte ’na calmata e non rompere, altrimenti t’appendiamo pe’ le orecchie ai fili dei panni sul balcone”. E questo linguaggio livoroso, invido, sgangherato e volgarissimo conferma una mia tesi antifemminista contestatissima: le donne non dovrebbero fare politica, a meno che non siano uomini di Stato come Angela Merkel.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2017
Il giorno in cui Roberto Formigoni è stato condannato a sei anni per corruzione nel campo della Sanità, Renato Farina ha scritto su Libero un pezzo dal titolo “Perseguitato dalla giustizia” che non si sa se definire comico, grottesco, esilarante o, piuttosto, protervo.
Renato Farina è il noto ‘Betulla’ che faceva il giornalista e, insieme, l’agente dei Servizi segreti. Il giorno in cui la cosa venne a galla una collega di Libero lo trovò, sconfortato e piagnucolante, appoggiato a uno stipite: “Il problema è –le disse- che ho preso anche dei soldi. Però gli ho versati in beneficenza”. Insomma non lavorava solo per i Servizi, ma ne era anche al soldo. Lo sconforto durò poco. Gli venne in soccorso Giuliano Ferrara che scrisse: che male c’è, se fa due lavori è giusto che prenda due stipendi. E’ come se un poliziotto oltre che prendere lo stipendio dallo Stato si portasse via la refurtiva.
Prima che lo radiassero dall’Ordine dei giornalisti, una delle rare decisioni serie di questo inutile organismo che fino allora si era limitato a punire alcuni sfigati direttori di giornaletti porno, dette le dimissioni. Su sua richiesta fu riammesso. E’ ovvio che se anche fosse stato radiato Farina avrebbe conservato il diritto di scrivere, la libertà di espressione non può essere riservata solo a dei professionisti ma è di tutti. Però Farina non dovrebbe avere quella credibilità che lui stesso ha provveduto a togliersi e che invece, a quanto pare, Libero gli dà. Il fatto è che in Italia non mancano le sanzioni penali (che anzi abbondano, anche se raramente si arriva ad applicarle) ma quelle sociali. Adriano Sofri, uno dei mandanti dell’omicidio Calabresi, è stato a lungo editorialista del principale quotidiano di sinistra, Repubblica, e del più venduto settimanale di destra, Panorama. Un editorialista per meriti penali. Luigi Bisignani, condannato per reati contro la Pubblica Amministrazione è stato, successivamente, consulente dell’amministratore delle Ferrovie dello Stato, Lorenzo Necci, e dell’AD dell’Eni, Paolo Scaroni, e oggi furoreggia come opinionista, ospite graditissimo, in vari network televisivi.
Secondo Renato Farina nei confronti di Formigoni c’è stato un “accanimento giudiziario”. Quella dell’’accanimento giudiziario’ è una categoria giuridica, chiamiamola così, inventata dalle destre dopo Mani Pulite, quando Berlusconi cominciò ad essere raggiunto da avvisi di garanzia, rinvii a giudizio, condanne in primo e secondo grado, prescrizioni. Prima, e per decenni, le destre erano state furibondamente forcaiole (era giusto e sacrosanto che Pietro Valpreda fosse in galera da quattro anni senza processo e Giuliano Naria da nove, per citare solo alcuni casi). Naturalmente le destre sono prontissime a ridiventare forcaiole, perché questa è la loro vera natura quando ci sono di mezzo gli stracci e i delitti da strada (“In galera subito e buttare via le chiavi” ha dichiarato Daniela Santanchè).
Facciamo un rapido florilegio del pezzo di Renato Farina. “C’è un atteggiamento straordinariamente persecutorio verso Roberto Formigoni”. Da che cosa è provato questo atteggiamento persecutorio? Dalla “violenza linguistica della requisitoria dei pubblici ministeri” e da “una sentenza di smisurata pesantezza…se gli avessero dato due anni di reclusione, avrei pensato: questi giudici sono seri, misurati, dunque è davvero colpevole…Il risultato somiglia più a una fucilazione in piazza che ad una sentenza equa…Si è trasformato un fatto di costume (da bagno) in clava giudiziaria”. A parte che Formigoni ha preso tre o due anni meno dei suoi complici, non spetta al Tribunale Speciale Renato Farina stabilire la misura di una condanna. Farina poi aggiunge: “Così fa nascere il sospetto di una vendetta mirata dell’ordine giudiziario verso i leader politici non di sinistra, per inaugurare una stagione di caccia non più al Cinghialone, che è morto, ma ai sopravvissuti”. Tralasciamo per misericordia che fu proprio Vittorio Feltri, il suo attuale direttore, il più forsennato a fiocinare il ‘cinghialone’( a lui si deve questo epiteto che trasformava delle inchieste giudiziarie in una ‘caccia sadica’) e persino i suoi due figli Bobo e Stefania, c’è qui tutto l’armamentario usato dalla destra berlusconiana, cui non poteva mancare la notazione che Formigoni è stato eletto, perbacco, col 63 per cento dei voti. Quando il Cavaliere era in auge sosteneva, sia pur implicitamente, che era autorizzato a delinquere perché prendeva 16, 10, 8 milioni di voti. Il che poneva alcuni curiosi quesiti. Se prendo due milioni di voti a quale crimine sono autorizzato? Un furto? Se ne prendo quattro? Una rapina semplice? Se ne prendo otto? Una rapina a mano armata? Se ne prendo sedici…
Non ha nessunissima importanza se Formigoni aveva la fiducia di milioni di cittadini lombardi, il fatto è che questa fiducia l’ha tradita non perché veniva fotografato in variopinti costumi da bagno su yacht sesquipedali, ma perché ha grassato alla collettività otto milioni di euro.
E’ curioso il cortocircuito dei cattolici che delinquono (anche Renato Farina lo è). Loro, che ci credono, dovrebbero avere più di tutti il timor di Dio. Ma poi c’è il perdono di Santa Romana Chiesa e nella loro coscienza sporca si autoassolvono, magari con qualche opera di beneficienza.
Roberto Formigoni è un senatore della Repubblica. Non risulta, allo stato, che qualcuno ne abbia chiesto le dimissioni. Le dimissioni le deve dare Virginia Raggi per aver scelto male un suo collaboratore. ‘Andè a dà via i ciapp’ come si dice qui a Milano.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2016