De hoc satis dicevano i latini nella loro lingua ellittica, insuperabile nella sintesi. Letteralmente: “di questo abbastanza”. Che può essere tradotto senza forzature in “di questo ne abbiamo pieni i coglioni”. Di quale hoc abbiamo pieni i coglioni? In prima battuta dei nostri quotidiani (dei settimanali cosiddetti politici non vale nemmeno la pena parlare, solo l’Espresso, nella sua spocchia radical chic, crede ancora di esistere) che ogni giorno ci ammanniscono dalle sei alle otto pagine sui fatti interni dei partiti, queste associazioni private, queste bocciofile, i cui ruminamenti non dovrebbero avere alcun interesse né rilevanza pubblica (a meno che, naturalmente, non riguardino fatti penali). Prendiamo per esempio, a caso, qualche titolo del Corriere di un giorno qualsiasi, o di più giorni, e come partito, in particolare, il Pd. Ma il discorso vale per qualsiasi giornale e, a seconda delle evenienze, per qualsiasi partito. “Congresso Pd, rischio scissione”; “Un partito che si aggroviglia”; “Sfida a D’Alema (senza dirlo); “Pd, sì al congresso tra le tensioni”; “Il leader: li seppelliremo con le loro regole. In bilico le urne a giugno”; “Il ‘nemico numero uno’ seduto muto in platea. E Matteo lo provoca (senza mai nominarlo)”; “Il rebus urne. I tre partiti dem”; “Una velocità che strappa l’unità del Nazareno”. Questo il Corriere del 14 febbraio. Dopo è stato un crescendo fino all’apogeo di questi giorni in cui pare (nel momento in cui scrivo nulla è ancora certo) si scinda. Lotte interne al coltello, retroscena, incontri segreti, notizie dettagliate su che cosa hanno mangiato nei loro pourparler o su quali cessi d’oro si sono seduti. Che possono interessare queste cose a una persona normalmente sana di mente? Non c’è da stupirsi se le vendite dei giornali si sono ridotte al lumicino (nostalgia dei tempi in cui il Corriere dedicava solo due colonne, firmate da Luigi Bianchi, ai retroscena della politica; nostalgia delle tribune politiche dirette da Jader Jacobelli che, nonostante il suo aspetto da gallinaceo, era un uomo molto colto).
Ma i giornali hanno altre responsabilità verso se stessi e la collettività. Prima si sono autocannibalizzati dedicando quasi altrettante pagine ai quibusdam che sfilano ogni giorno nelle Tv generaliste, facendo diventare personaggi e opinion maker degli individui che, volendo essere leggeri, sono braccia sottratte all’agricoltura o ai lavori domestici. Sono costoro che orientano la collettività, che dettano le mode, che impongono i costumi. Non i giornali, che come se ancora non bastasse si sono ulteriormente autocannibalizzati dando un rilievo enorme a quanto accade sui social network dove la prevalenza del cretino, che in linea di massima si esprime in forma anonima dando libero sfogo ai suoi peggiori e bestiali istinti – una sorta di jihadista vigliacco- o più semplicemente alla sua idiozia, è assicurata.
Ma in fondo giornali, Tv, social non sono che delle sovrastrutture, degli epifenomeni. Il vero nocciolo duro della disgregazione italiana, politica, culturale, etica, sono i partiti, queste bocciofile intrinsecamente mafiose e spesso criminalmente mafiose.
I grandi teorici della democrazia liberale, da Stuart Mill a John Locke, non prevedevano la presenza dei partiti. E come nota Max Weber fino al 1920 nessuna Costituzione liberaldemocratica li nominava. E anche la nostra Costituzione, che pur nasce dal CLN, cioè dall’alleanza di tutte le formazioni antifasciste, dai comunisti ai monarchici, cita i partiti in un solo articolo, il 49, che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. E’ un diritto, non un obbligo. Partendo da quest’unico articolo i partiti hanno occupato anche gli altri 138. Contro questo pericolo, vale a dire la partitocrazia, avevano tuonato già nel 1960 il grande giurista Giuseppe Maranini e persino lo stesso Presidente del Senato Cesare Merzagora, un galantuomo indipendente. Io mi onoro di aver dato battaglia, in solitaire come giornalista (sul versante politico c’erano i radicali di Panella) alla partitocrazia più o meno dagli inizi degli anni Ottanta. Ma è stato tutto inutile. La degenerazione partitocratica, come un tumore maligno, è andata progressivamente enfiandosi producendo metastasi in ogni settore della vita pubblica e privata. Oggi siamo arrivati al punto che è l’Assemblea della bocciofila Pd a determinare la data del momento più sacrale della democrazia: le elezioni. De hoc satis.
Per tornare al punto da cui siamo partiti, a questo eterno e assordante chiacchiericcio, insulso, inconsistente, vuoto, degradato e degradante ma soprattutto inutile, io preferisco…preferisco… No, non dico chi preferisco. Perché verrei messo immediatamente al gabbio. In nome della democratica libertà d’espressione, naturalmente.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2017
LETTERA APERTA AD ALESSANDRO SALLUSTI
Caro Alessandro,
quando Cairo voleva entrare in Libero –direttore Feltri- mi chiese se volevo seguirlo. Risposi di no. Mi pregò allora di fargli il nome di qualche giornalista valido. Indicai te e Paolo Martini. Ti conoscevo da quando dirigevi La Provincia di Como per la quale mi chiedesti anche di collaborare. Avevo di te un’ottima opinione sia professionale che umana.
Per questo mi è particolarmente spiacevole commentare il vergognoso pezzo che hai scritto per Il Giornale (8/2), godendo come un riccio perché alla celebrazione dei 25 anni dalle inchieste di Mani Pulite non c’era praticamente nessuno.
Il tuo articolo dovrebbe essere pubblicato in toto perché sia reso evidente alla cittadinanza il cumulo di menzogne, di omissioni, di dimenticanze che metti in campo. Ma qui devo limitarmi ad alcuni ‘excerpta’.
1.Tu definisci quella di Mani Pulite una “sciagurata stagione” e Mani Pulite “la più violenta inchiesta giudiziaria nella storia della Repubblica”. 2. Parli dei suicidi in carcere e “del dolore di 4.250 famiglie di indagati il più delle volte a vanvera come dimostra il bilancio a istruttorie chiuse e processi celebrati”. 3. Affermi che in Italia fu introdotta “la carcerazione preventiva come arma di minaccia e ricatto”. 4. Prendi particolarmente di mira Antonio Di Pietro e sostieni che entrò in politica per “sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona” e che non a caso entrò poi nel Pci-Pds per poi creare il “partitino, Italia dei Valori”. 5. Definisci i magistrati di Mani Pulite “toghe rosse”.
Cerchiamo di mettere un po’ di ordine in questa accozzaglia di argomenti o, meglio, di pseudoargomenti. L’azione di un magistrato non può essere ‘violenta’. Il magistrato risponde alla legge: o la rispetta o la viola. E non risulta che in tutta l’inchiesta di Mani Pulite ci siano state violazioni di legge. Il magistrato non può essere né ‘forcaiolo’ né ‘garantista’, categorie che vi siete inventate voi. Comunque il ‘forcaiolismo’ fu casomai della stampa. In particolare dell’Indipendente di Vittorio Feltri che chiamava Bettino Craxi “il cinghialone”, trasformando un’inchiesta giudiziaria del tutto legittima in una ‘caccia sadica’ e prendeva di mira anche i figli di Bettino. Lavoravo anch’io a quell’Indipendente e toccò a me difendere i Craxi dagli eccessi del mio direttore, in particolare con due articoli “Vi racconto il lato buono di Bettino” scritto in piena bufera quando tutti, anche i suoi amici, fiocinavano la balena sanguinante, L’Indipendente, 17/12/92 e “Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi”, L’Indipendente, 11/5/92. In quel periodo prevaleva al contrario uno strusciarsi indecoroso ad Antonio Di Pietro considerato il vincitore di giornata. Mi ricordo in particolare un vergognoso editoriale del direttore del Corriere, Paolo Mieli, titolato “Dieci domande a Tonino”. A Tonino, come se ci fosse andato a pranzo e cena da sempre. Con Tonino, ridiventato Antonio Di Pietro, che dell’inchiesta di Mani Pulite fu il simbolo, tu ti accanisci. Affermi che entrò in politica per “sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona”. Dimentichi che ‘per quei sospetti’ Di Pietro è stato processato sette volte ed è uscito regolarmente assolto e uno di quei processi era stato innescato da due testimoni prezzolati dall’onorevole Berlusconi. Del Di Pietro politico non dovremmo qui occuparci perché quello che interessa è la sua azione di magistrato, ma quando tu definisci l’Italia dei Valori un ‘partitino’ dimentichi che è stato defalcato di alcuni suoi componenti, a cominciare dall’onorevole De Gregorio cui Berlusconi diede tre milioni perché passasse al centrodestra. In ogni caso se Di Pietro fosse entrato in politica il giorno dopo essersi tolto la toga avrebbe avuto il 90 per cento dei consensi. Invece, correttamente, a differenza di altri magistrati (Ingroia, De Magistris) aspettò un anno.
La carcerazione preventiva in Italia esiste da sempre. Pietro Valpreda fece quattro anni di carcerazione preventiva senza processo e Giuliano Naria nove per citare solo alcuni esempi famosi fra le centinaia che si potrebbero fare. Non mi risulta che tu o la parte politica che oggi rappresenti abbiate mai levato un dito contro queste aberrazioni che non erano dei magistrati ma della legge (le leggi le fa il parlamento, cioè i politici). Vi accorgeste della carcerazione preventiva solo quando toccò, non per anni ma per qualche settimana, a lorsignori. Tu affermi però che in questo caso la carcerazione preventiva sarebbe stata usata “come arma di minaccia e ricatto”. E a queste sciocchezze Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo del pool di Mani Pulite, replicò: “Non è così. Noi gli arrestiamo e loro confessano” . Che è cosa ben diversa. Tu parli dei suicidi in carcere. Se un magistrato dovesse caricarsi delle possibili conseguenze dei suoi legittimi provvedimenti non si potrebbe più amministrare giustizia. I suicidi riabilitano moralmente coloro che ne sono stati protagonisti, perché evidentemente, a differenza di altri, si vergognavano di ciò che avevano fatto, ma non li assolvono. In quanto al dolore delle 4.250 famiglie degli indagati “il più delle volte a vanvera” fai finta di dimenticare che moltissime di queste assoluzioni avvennero per patteggiamento o prescrizione. Ma questi calcoli lasciamoli a Marco Travaglio. Dimentichi invece, con molta disinvoltura, le ‘morti bianche’, cioè i suicidi di quegli imprenditori onesti che non vollero piegarsi al ricatto delle tangenti e videro perciò andare in fumo le loro aziende. Sorvoli su uno degli atti più contestati quando Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco si presentarono in televisione per affermare che avrebbero chiesto a Borrelli di lasciare l’inchiesta. Come mai non ne parli? Perché quella singolare apparizione dei magistrati in tv seguiva uno dei primi provvedimenti del governo Berlusconi, un decreto chiamato ‘salvaladri’ che depenalizzava i reati di corruzione e similari e quindi salvava, oltre a Berlusconi e ai suoi cari, la falange dei corrotti e dei corruttori coinvolti in Tangentopoli.
Definire i magistrati di Mani Pulite ‘toghe rosse’ è risibile. Casomai se si vuole a tutti i costi dar loro una connotazione politica erano dei conservatori, il più ’a sinistra’ era un cattolico, Gherardo Colombo, un magistrato impeccabile rispettato anche dai suoi indagati.
In due anni, con tutti i testimoni del tempo ancora in vita, i ladri, con una campagna stampa che ti vide protagonista, divennero le vittime e i magistrati i colpevoli. La classe dirigente del Paese non tollerava di dover rispondere, per la prima volta o quasi nella storia italiana, a quelle leggi che noi tutti comuni cittadini siamo tenuti a rispettare.
Ecco perché tu, divenuto nel frattempo portavoce di una parte di quella classe dirigente, definisci “sciagurata” la stagione di Mani Pulite. In realtà Mani Pulite fu l’ultima occasione per la nostra classe politica per emendarsi dai crimini che andava perpetrando da anni. Non la colse, anzi l’avversò ferocemente e così siamo arrivati alla situazione attuale dove la corruzione è discesa giù per li rami a tutto il Paese. Proprio per questo il Palazzo di Giustizia di Milano era deserto nel 25° anniversario di Mani Pulite. Tutti hanno capito che l’azione dei magistrati è stata inutile, continua a essere inutile e probabilmente lo sarà anche in futuro, e quindi i cittadini hanno perso anche la voglia di ribellarsi e accettano supinamente la parte di pecore tosate senza emettere neanche un belato. In Romania, per un decreto molto simile a quello emesso a suo tempo dal governo Berlusconi, la popolazione si è ribellata e glielo ha ricacciato in gola. Dal punto di vista dell’etica pubblica siamo quindi al di sotto anche dei disprezzati rumeni.
Recentemente, davanti ad altre persone, hai detto “Massimo Fini mi attacca un giorno sì e un giorno no, ma devo ammettere che è l’ultimo giornalista libero in Italia”. Non è così, fortunatamente ce ne sono altri. Ma non posso negare che questa tua affermazione mi ha fatto piacere. Ma la libertà si paga. Il rendersi servi invece ripaga. Ad abundantiam.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2017
In questi giorni di Festival di Sanremo ho sentito ripetere più volte dalle Tv e dai critici musicali che Domenico Modugno, che lo vinse nel 1958 con Nel blu dipinto di blu o Volare che dir si voglia, è l’innovatore della canzone italiana. Niente di più falso. Volare, che per di più è la più brutta canzone italiana di tutti i tempi insieme a Le mille bolle blu di Mina che la portò al Festival nel 1961, si inserisce a pieno titolo nel filone melodico all’italiana come altre prove più convincenti del ‘Mimmo nazionale’: Strada ‘nfosa e Vecchio frac.
Chi cambiò le carte in tavola in Italia, l’ho già scritto ma a me piace difendere i calunniati, Nerone, Catilina, il Mullah Omar, e anche gli ingiustamente dimenticati come il più modesto Antonio Lardera in arte Tony Dallara che importò il ‘singhiozzo’ dai Platters e da Paul Anka (Cra-a-azy love, una delle sue canzoni più belle anche se non fra le più famose) e di suo vi aggiunse l’’urlo’ (Brivido blu) facendo piazza pulita una volta per tutte delle Nille Pizzi, dei Claudio Villa, dei Luciano Tajoli e compagnia cantante (è il caso di dirlo).
Per la verità anche Anka e i Platters, che ispirarono Dallara che con i suoi Campioni si esibiva al Santa Tecla di Milano, stavano ancora a metà fra il melodico e la canzone moderna, mentre negli States già furoreggiava il rock duro di Little Richard (Lucille), di Jerry Lee Lewis, di Neil Sedaka (I go ape) e di Presley (anche se ‘Elvis the pelvis’, impomatato e imbrillantinato come i ‘giovanotti’ dei primi anni Cinquanta, era più ambiguo, poteva essere scatenato, Tutti frutti, ma anche melodico, Fame and fortune, senza diventare però sdolcinato). Ma per una curiosa inversione dei tempi i Platters e Anka erano arrivati in Italia prima dei rocker veri. Del resto il mondo allora non era così integrato e si potevano creare delle discrasie fra le due sponde dell’Atlantico. Le comunicazioni non erano istantanee come oggi. Fenomeni sociali, non solo musicali ovviamente, che partivano dall’America potevano arrivare da noi anche un paio di anni dopo e oltre. E li si osservava, da lontano, con stupore e anche con un certo timore. Mi ricordo un titolo de La Notte, quotidiano del pomeriggio, di destra, conservatore, ostile a ogni novità, che a proposito del rock si chiedeva, scandalizzato: “Ma può arrivare anche da noi?”. E Milva, ‘la pantera di Goro’, ancora fatta a domestica e non raffinata dalle frequentazioni con Strehler, cantava con sorpresa in Flamenco Rock: “Mi piacerebbe tanto visitar la Spagna/terra di matador e di grandi toreri/ormai anche laggiù nella caliente Spagna/non si ballano più passi doppi o boleri/ora ballano il flamenco rock/ora ballano il flamenco rock”. E ‘rock’ lo pronunciava in un modo stranissimo, gutturale, perché era una parola che suonava nuova. E anche la Spagna, che oggi si raggiunge in aereo con pochi euri, era ancora un posto esotico e lontano.
Comunque nel 1958 era arrivato anche da noi un oggetto destinato a rivoluzionare la storia della musica leggera: il juke box. Mentre prima era il gestore dei Bagni o delle discoteche, che allora si chiamavano dancing, a mettere la musica cercando di indovinare il gusto dei ragazzi (quello dei Bagni Umberto di Savona, dove andavo io, ed era già un lusso perché la gente di Milano d’estate si bagnava all’Idroscalo, era piuttosto abile e faceva andare Un treno per Yuma e Jezebel di Frankie Laine, un preannuncio di quello che sarebbe venuto dopo) adesso eravamo noi ragazzi a scegliere. E in quell’ estate del 1958 gettonavamo solo, ossessivamente: Come prima, Ti dirò, Diana, Only you. Con grande scandalo delle nostre mamme per gli ‘urli’ di Dallara e più tardi per quelli, quasi scimmieschi, di Richard. Volare non l’ho mai sentita in quella calda estate in cui la musica italiana si stava rinnovando, soprattutto nei ritmi, nel terzinato, nel sincopato. Modugno era un cantante per vecchie zie e per signore da tea room, che non si sarebbero certo scomodate ad alzarsi dalla canasta o dal ramino per mettere 100 lire in quella macchina infernale e urlante che disturbava la loro quiete.
Dallara avrebbe poi vinto il Festival di Sanremo nel 1960 con la sua canzone peggiore, che cantava con Rascel, Romantica, tentando, senza riuscirci, di trasformare quella melassa, con qualche urlo, in qualcosa di potabile. Peraltro da Sanremo non sono mai uscite canzoni memorabili, in fondo in fondo quella che si ricorda ancora è proprio la prima: Grazie dei fior di Nilla Pizzi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2017