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Una volta c’era solo l’innocente Prova del cuoco, con un’ironica e autoironica Antonella Clerici che aveva l’aria di non crederci troppo. Adesso i programmi di tipo gastronomico che passano sulle Reti italiane sono una trentina o forse più. C’è naturalmente Masterchef (e anche un Masterchef per bambini) che viene presentato, nei toni e nei contenuti, più che come un onesto mangiare come una sorta di sfida all’O.K Corral. Segue una sfilza di altri programmi tratti spesso da format americani o riproposti paro paro: Ale contro tutti, Alice Master Pizza, Anthony Bourdain: Viaggio di un cuoco, Bake Off Italia-Dolci in forno, Il boss delle cerimonie, Il boss delle torte, Il boss delle torte: la sfida, Capotavola, Casa Alice, Che diavolo di pasticceria, La Chef e la Boss, Cucina con Ale, Cucina con Buddy, Cucina con Ramsay, Cucina esplosiva, Cucine da incubo, Cuochi e fiamme, Dolci dopo il tiggì, Fast and Food, Finger Food Factory, Fuori di gusto, Fuori menù, Gordon Ramsay- Cose dell’altro mondo, Gordon Ramsay’s F World, Gordon Ramsay: diavolo di uno chef, Gourmet Trains: Viaggi del gusto, Grassi contro magri, Hell’s Kitchen, Hollyfood- L’appetito vien guardando, I menù di Benedetta, Il club delle cuoche, Il contadino cerca moglie, Il re del cioccolato, Junk Good, L’ost, La bottega dei Cupcake, Molto Bene, La notte degli chef, Orrori da gustare, Party Planners, Passa il piatto, Ramsay’s Best Restaurant, Ricette a colori, Ti ci porto io, Torta di matrimonio cercasi, Torte da record, Tutto in 24 ore. Già a questo punto a una persona normale verrebbe da vomitare (infatti vomita anche se in modo più sofisticato dei crapuloni dell’Antica Roma che si mettevano due dita in bocca per poter ricominciare). Alla Fiera del libro di Francoforte di quest’anno è stata creata per la prima volta una sezione dedicata al cibo, la Gourmet gallery con 80 espositori provenienti da 30 paesi ed è stato inventato una sorta di Nobel del libro gastronomico vinto da 500 anni di fusion di Gastòn Acurio.

Il food è uno dei settori trainanti dell’economia. Non c’è città europea che non sia zeppa di ristoranti e ristorantini esotici.

Questa bulimia va di pari passo con un’altra delle ossessioni del nostro mondo quella delle diete, accompagnate, per chi se lo può permettere, dal personal trainer con cui tenersi in forma. I due fenomeni sono solo apparentemente in contraddizione, ma in realtà la loro combinazione è una perfetta metafora del nostro modello di sviluppo. Noi dobbiamo ingurgitare, cioè consumare, il più possibile, ma anche espellerlo il più rapidamente possibile. E’ la Crescita, bellezza. Ciò che cresce deve essere rapidamente distrutto per poter ricominciare. Se così non fosse salterebbe tutto il meccanismo su cui si sostiene la nostra società. Questo a livello di sistema. Individualmente è la stessa cosa: dobbiamo accaparrarci costantemente di nuovi gadget, nuovi I-Phone, nuove auto con varianti irrilevanti, nuovi vestiti, nuove scarpe, eccetera, eccetera. L’eterno dilemma se è nato prima l’uovo o la gallina qui è risolto. E’ il sistema, che ne ha estremo bisogno per non collassare, che ci convince, attraverso la pubblicità, vero motore di tutto l’ambaradan, a consumare non perché in realtà ci dia un vero piacere ma perché si possa continuare a produrre. Insomma l’uomo, ridotto a consumatore, è il lavandino, il water attraverso cui deve passare il più velocemente possibile ciò che altrettanto velocemente produciamo.

Naturalmente questa bulimia omnicomprensiva ha anche la funzione di riempire il vuoto di valori che si è creato nella nostra società e che ci rende così vulnerabili difronte a culture e a mondi più spartani. Non si tratta di nutrirsi di muschi e licheni come gli asceti e gli eremiti (anche se adesso ci vogliono gabellare i pipistrelli e i vermi come il non plus ultra della sofisticatezza alimentare) o di meditare solitari seduti su una colonna come gli stiliti, ma di ritrovare un onesto equilibrio nel nostro rapporto con il cibo e con tutto il resto. E io ho una grande nostalgia di quando con qualche amico si mettevano le gambe sotto il tavolaccio di una trattoria, con pane, salame e un buon bicchiere di rosso senza farsi le seghe mentali dei niente affatto innocenti cuochi alla moda.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2015

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E’ la solita storia. Della complessa vicenda del Mali, a lungo ignorata, i giornali occidentali raccontano solo l’ultima parte e cioè, in sostanza, l’attacco all’hotel Radisson di Bamako, formalmente la capitale del Paese. Ma si ignorano, o si fa finta di ignorare, i precedenti. Il Mali del nord in gran parte desertico è abitato prevalentemente dai Tuareg, antico popolo nomade sostanzialmente laico o che di islamico ha solo un’infarinatura. Tanto per fare un esempio le donne possono divorziare e dal momento che le tende sono di loro proprietà, l’ex marito si ritrova senza un tetto e deve cercare ospitalità presso parenti di sesso femminile (madri, sorelle). A partire dal 2008 i Tuareg vengono massacrati da squadre di miliziani legati al governo di Bamako, sostanzialmente sotto la protezione, chiamiamola così, di quello della Francia ex potenza coloniale dell’area. Inizia una guerra civile fra il Nord e il Sud del Mali, che contrappone i Tuareg, gli animisti ed elementi islamisti a cui i Tuareg si sono nel frattempo legati per far fronte comune contro il Sud. E’ una guerra interna. L’Isis non centra nulla. Siamo nel 2008 e il Califfato è di là da venire. E’ una guerra di indipendenza ma quando nel 2013 i ribelli stanno per prendere la capitale Bamako intervengono i francesi con l’operazione chiamata Serval (formalmente la Francia è chiamata ad intervenire dal governo fantoccio di Bamako, cosa che ricorda molto da vicino gli interventi sovietici nell’Ungheria in rivolta del 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968, interventi ‘invocati’ dai governi di Budapest e di Praga). La superiorità militare garantita dai francesi al governo di Bamako respinge i Tuareg e i loro alleati che sono costretti a ritirarsi verso gli estremi confini nord del Paese. Nel frattempo però è nato l’Isis e molti dei ribelli maliani, anche se non tutti (ci sono profonde divisioni all’interno su questa questione) cominciano a vederlo come punto di riferimento. Ed ecco come una guerra locale, in cui gli occidentali (accanto ai francesi ci sono naturalmente anche gli americani) non avrebbero dovuto metter becco lasciando che fosse il verdetto del campo di battaglia a decidere, finisce per inserirsi nella guerra globale fra Occidente e radicalismo islamico.

La guerra ha una sua ecologia e andarci a ficcare il dito dall’esterno produce sempre effetti controproducenti e paradossi che si ritorcono regolarmente contro di noi. Come abbiamo visto di recente in Somalia. Siamo intervenuti contro gli shebab che avevano sconfitto i ‘signori della guerra’ locali e riportato l’ordine e l’unità nel Paese (una situazione che ricorda molto quella afgana). E così gli shebab si sono legati all’Isis. Come abbiamo visto in Libia. Come abbiamo visto in Egitto dove il colpo di Stato del generale tagliagole Al Sisi ha fatto fuori, con la nostra complicità (oggi è considerato un prezioso alleato) i Fratelli Musulmani che avevano vinto le prime elezioni libere di quel Paese. Risultato: migliaia di Fratelli sono accorsi in Iraq e in Siria a combattere col Califfato, mentre in Egitto appoggiano l’Isis che nel frattempo è arrivato anche lì.

Quando lo capiremo che dobbiamo smetterla di pretendere di dominare il mondo intero in nome dei nostri interessi, o peggio ancora dei nostri ideali? Perché continuando di questo passo finirà che sarà il mondo ‘altro da noi’, indotto alla violenza estrema dalla nostra prepotenza, a dominar noi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2015

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“Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?” Questa domanda, formulata dal neoministro dell’Educazione giapponese, Masayuki Fujio, ha scatenato furibonde e scandalizzate polemiche che dal Giappone e dall’Asia sono rimbalzate negli Stati Uniti, in Urss, in Europa, in Italia. La questione si riferisce infatti ai processi di Tokio e di Norimberga che, quarant’anni fa, suggellarono la fine della seconda guerra mondiale e con i quali, per la prima volta nella storia, i vincitori giudicarono i vinti.

Che una domanda in fondo così ovvia, quasi lapalissiana, susciti ancor oggi tanto scandalo e aggressività dice forse qualcosa sulla cattiva coscienza accumulata in questi quarant’anni dalle nazioni uscite vincitrici dall’ultima guerra e da coloro che ne han fatto propri gli interessi e le ideologie. Questa domanda infatti non è nuova, non nasce oggi e non dovrebbe stupire. Dubbi sulla legittimità, giuridica e morale, dei processi furono sollevati, e proprio da parte democratica, fin dall’inizio, quando quei processi erano ancora in corso.

Scriveva, per esempio, l’americano Rustem Vambery, docente di diritto penale, sul settimanale “The Nation” del 1° dicembre 1945: “Che i capi nazisti e fascisti debbano essere impiccati e fucilati dal potere politico e militare, non c’è bisogno di dirlo; ma questo non ha niente a che vedere con la legge… Giudici guidati da “sano sentimento popolare”, introduzione del principio di retroattività, presunzione di reato futuro, responsabilità collettiva di gruppi politici e razziali, rifiuto di proteggere l’individuo dall’arbitrio dello Stato, ripristino della vendetta tribale, tutti questi erano i punti salienti di quella che la Germania di Hitler considerava legge. Chiunque conosca la storia del diritto penale sa quanti secoli, quanti millenni, ci sono voluti perché esattamente il contrario di questa storia e di questa prassi nazista fosse universalmente riconosciuto come parte integrante del diritto e della giustizia…Sfortunatamente i capi d’accusa formulati dal Tribunale militare internazionale contro i principali criminali di guerra ricordano, per certe caratteristiche, il diritto hitleriano…”.

E Benedetto Croce, in un discorso tenuto all’Assemblea Costituente il 24 luglio 1947, affermava: “Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito per giudicare, condannare e impiccare, sotto nome di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni di loro e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra”.

Come si vede non si contesta, allora come oggi, la potestà dei vincitori di punire i vinti, come s’è sempre fatto da che mondo è mondo, ma di farlo nelle forme del processo, della legge, del diritto. C’era in questa pretesa inaudita (nel senso letterale: di cosa mai udita prima) tutta la strisciante ipocrisia d’una cultura come quella americana e non per nulla lo storico britannico A.J.P. Taylor ricordava le forti perplessità degli inglesi (Churchill, nelle sue memorie, arriverà a dire a proposito dell’uccisione di Mussolini: “Per lo meno, ci ha risparmiato una Norimberga italiana…”) e come “gli americani, sulla questione dei crimini di guerra della Germania, si dimostrarono molto più inflessibili ed estremisti dei sovietici: il processo di Norimberga fu dunque una creatura largamente americana”.

Ma, come tutte le ipocrisie, non era innocente né priva di gravi conseguenze. Sul piano del diritto infatti il processo ai vinti della seconda guerra mondiale scardinava alcuni princìpi fondamentali di civiltà giuridica, primo fra tutti quello della irretroattività della legge penale per cui nessuno può essere punito per fatti che all’epoca in cui furono commessi non erano considerati reati (tedeschi e giapponesi furono giudicati per “cospirazione contro la pace”, “attentati contro la pace e atti di aggressione”, “crimini di guerra”, “crimini contro l’umanità”, tutti capi di imputazione che non preesistevano al processo ma che furono creati con esso). In più, in tal modo, si finiva per far coincidere il diritto con la forza, la forza del vincitore. Che, come notava Vambery, era esattamente, anche se, si presume, involontariamente, la stessa concezione del diritto che aveva avuto il nazismo.

Ma questioni giuridiche a parte, l’effetto a nostro parere più inquietante e gravido di conseguenze storiche dei processi di Norimberga e di Tokio fu quello di ingenerare un pericoloso equivoco: che i vincitori fossero davvero migliori dei vinti nel momento in cui si chiudeva la guerra. Fa una certa specie, per esempio, pensare che sullo scranno dei giurati, a Norimberga, sedevano, per giudicare di “atti di aggressione”, i rappresentanti di un paese, l’Urss, che aveva assalito e squartato, con un attacco vilissimo e proditorio, concertato proprio con Hitler, la Polonia e che era responsabile delle fosse di Katyn. Fa specie sapere che, a quel processo su “crimini contro l’umanità”, fece la sua apparizione, fra coloro che giudicavano, il sovietico Visinskij, il pubblico ministero delle “purghe” di Mosca del 1936-37. Fa specie ricordare che sui banchi dei giudici del processo di Tokio sedevano rappresentanti del presidente americano Harry Truman che gettò la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, a guerra ormai finita, col Giappone in ginocchio. E, come scriveva “The Guardian” il 1° ottobre del 1946, “non è possibile che al mondo esterno –i neutrali e i futuri storici spassionati- sentir parlare di nazismo imputato di “distruzioni indiscriminate” senza ricordare Amburgo e Dresda”.

Tutto ciò non toglie nulla, naturalmente, alla criminalità dei nazisti, di Hitler, dei suoi seguaci, ma pone molti dubbi sul fatto che i vincitori fossero, già allora, migliori dei vinti e sul loro diritto morale a giudicarli. Ma il peggio è successo dopo ed è stato in qualche modo legittimato proprio dai processi di Norimberga e di Tokio. Non si era ancora spenta l’eco di quei processi, che secondo le intenzioni avrebbero dovuto “escludere la guerra dalla vita della società”, che già le truppe francesi soffocavano con l’atroce brutalità di sempre un disperato tentativo del Madagascar di liberarsi delle manette coloniali. Ciò, naturalmente, è nulla rispetto a quello che han fatto poi Usa e Urss, le due vere, e sole, potenze uscite vincitrici dalla seconda guerra mondiale.

In quarant’anni Usa e Urss hanno messo a ferro e fuoco il Sud-Est asiatico, usato il napalm e armi chimiche in Vietnam, combattuto guerre in Medio Oriente per interposta persona e sulla pelle altrui, “suicidato” Masaryk e Allende, schiacciato nel sangue la rivolta ungherese, invaso la Cecoslovacchia e l’Afghanistan, umiliato la libertà della Polonia, insidiato con le armi e i servizi segreti la sovranità del Nicaragua e del Salvador, difeso e sostenuto i più feroci, sanguinari e criminali dittatori salvo poi dismetterli, quando non più presentabili, a suon di “golpe”, organizzato decine di colpi di Stato, fomentato e guidato, attraverso il Kgb e la Cia, una buona fetta di terrorismo internazionale e, infine, messo il loro tallone e accampato le loro pretese egemoniche su ogni angolo, anche il più recondito, del mondo.

Hitler avrebbe saputo fare di più e di meglio? Può darsi, ma è solo un’ipotesi. E con questa differenza: che per molti anni, e in una certa misura ancora adesso, l’opinione pubblica mondiale ha potuto credere, in buona fede, che Stati Uniti e Unione Sovietica fossero i paladini della libertà o dell’uguaglianza, i difensori di altissimi valori, invece che gli imperialismi spietati, totalitari e scientifici che sono, proprio perché i processi di Norimberga e di Tokio avevano conferito loro quella patente di superiorità morale che han dimostrato di non avere. Ecco perché oggi, ancor più di ieri, i vincitori, e i loro intellettuali reggicoda, si inalberano violentemente contro chiunque metta in dubbio la validità dei processi di Norimberga e di Tokio: perché temono che sia stracciato anche l’ultimo velo della loro legittimazione. Scriveva ancora “The Guardian”, nel 1946: “Il processo di Norimberga apparirà giusto o sbagliato nella storia a seconda del futuro comportamento delle nazioni che ne sono responsabili”. Oggi, a quarant’anni di distanza, si può dire che quei processi erano ingiusti, illegittimi, pericolosi e alla domanda di Masayuki Fujio, “I vincitori hanno il diritto di giudicare i vinti?”, si può rispondere, con molta amarezza ma con tranquilla coscienza: no.

Massimo Fini

Articolo dell’ “Europeo” del 1986 ripreso dal Fatto Quotidiano il 20 novembre 2015 anniversario dell’inizio del processo