0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Poiché non credo alla democrazia rappresentativa io non dovrei nemmeno partecipare a questo gioco. Comunque penso, come molti, che il nuovo Presidente della Repubblica dovrebbe essere un uomo che non si è mai compromesso con la classe dirigente, di destra o di sinistra, che ci ha governato negli ultimi trent'anni. Vai a trovarlo, in Italia. Penso che un uomo del genere possa essere cercato solo nelle arti nobili e in tempi non sospetti, prima che ne facesse cenno Renzi, avevo avanzato il nome di Riccardo Muti. Dice: ma Muti non ha nessuna esperienza di leggi, regolamenti, prassi costituzionali. Non ha alcuna importanza. Per questo esiste una burocrazia, senza la quale il Presidente della Repubblica o del Senato o della Camera non sarebbe in grado di esercitare le proprie funzioni e nessun premier o ministro di formulare leggi (per questo è pagata quel che è pagata). Anche la Pivetti è riuscita a fare il presidente della Camera. Comunque questo desiderio onirico è tagliato alla radice dal fatto che Muti o altri artisti della sua caratura non accetterebbero mai di lasciare il loro mestiere per le polverose stanze del Quirinale. Bisogna quindi ripiegare sui soliti noti. Io spero che Grillo non si incaponisca a riproporre Rodotà, una vecchia sòla sempre ben incistata sia nella Prima che nella Seconda Repubblica, una specie di Giuliano Amato in tono minore. Piuttosto, pistola alla tempia, Romano Prodi, che sì è un ex 'boiardo di Stato', ma non è mai stato coinvolto in episodi di corruzione, conosce le Istituzioni, è uomo di cultura, ha prestigio internazionale e che gode di qualche simpatia anche fra i grillini. Non piace né a Renzi, né, tantomeno, a Berlusconi? Una ragione in più per puntare su di lui. Zagrebelski? Certamente un uomo senza macchia e preparato, ma il Presidente della Repubblica, che rappresenta tutti gli italiani, dovrebbe essere un uomo minimamente conosciuto non un ufo che esce dal cilindro dei 'desiderata' della sinistra radical chic.

Ma in realtà qui stiamo girando intorno al nocciolo della questione. In tempi normali il Capo dello Stato, in quanto arbitro, deve essere una figura abbastanza incolore (com'è noto il miglior arbitro è quello che non si nota). Ma sull'Europa e quindi anche sull'Italia si stanno addensando nubi pesantissime. Ci vorrebbe come presidente o premier un uomo dalla fortissima personalità. Un Winston Churchill che quando fu eletto primo ministro agli albori della seconda guerra mondiale, parafrasando il celebre discorso di Catilina ai soldati prima della battaglia, disse agli Inglesi: «Vi prometto solo lacrime e sangue». Purtroppo non vedo in giro nessun Churchill.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2015

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Tutto ha inizio con l'Afghanistan. In questi giorni il Corriere ripubblica le corrispondenze di Tiziano Terzani nei primi mesi dell'occupazione americana in cui il giornalista si pone dei dubbi sulla validità di quella operazione che sono da sempre anche i miei.

L'occupazione dell'Afghanistan non aveva, una volta tanto, delle motivazioni economiche (quella terra non ha il petrolio ed è povera di tutto) ma squisitamente ideologiche. Si voleva spazzar via il progetto del Mullah Omar e dei suoi giovanissimi Talebani (14-27 anni) di riportare i costumi dell'Afghanistan all'epoca di Maometto (VII sec.),  costumi peraltro mai venuti meno nella vastissima area rurale del Paese, senza però rinunciare ad alcune, poche, mirate, conquiste della Modernità soprattutto nel campo della salute e dei trasporti. Una sorta di 'Medioevo sostenibile'. L'Afghanistan non costituiva alcun pericolo per l'Occidente perché gli afgani, talebani o no, non si sono mai interessati d'altro che del loro Paese. E Bin Laden? I Talebani se lo erano trovato in casa, ce lo aveva portato Massud. Omar non lo vedeva di buon occhio, lo definiva «un piccolo uomo», ma doveva tener conto che Bin Laden godeva di un certo prestigio fra la popolazione perché, con le sue ricchezze, aveva costruito strade, ponti, ospedali, infrastrutture di cui il Paese aveva estremo bisogno dopo i dieci anni di devastazione sovietica (quello che avremmo dovuto far noi, che vi abbiamo invece portato una disoccupazione al 40%, corruzione e, grandiosa conquista della democrazia, i bordelli e X Factor). Comunque quando nel dicembre del 1998, dopo gli attentati in Kenya e Tanzania, Bill Clinton chiese al Mullah Omar di far fuori Bin Laden, si disse disponbile purché la responsabilità dell'assassinio se la assumessero gli americani (Documento del Dipartimento di Stato del 2005). Ma all'ultimo momento Clinton, misteriosamente, si tirò indietro.

Dopo l'attentato alle Torri Gemelle, mentre le folle arabe scendono in piazza giubilanti, il governo talebano manda un messaggio di cordoglio a quello degli Stati Uniti: «Nel nome di Allah, della giustizia e della compassione. Noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center, condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia». Ma non basta: gli americani hanno deciso che il 'Mostro' deve essere cancellato dalla faccia della terra. Eppure non c'erano afgani nel commando che abbatté le Torri Gemelle, né afgani sono stati trovati nelle cellule di Al Qaeda. E, oggi, non si ha notizia di afgani che combattano nelle file dell'Isis, pur essendo anch'essi sunniti. E così sono stati tredici anni di guerra, una guerra particolarmente vigliacca (macchine contro uomini) e le violenze degli americani e della Nato hanno colpito l'immaginario collettivo dell'Islam più radicale suscitando un odio irrefrenabile contro gli occidentali. Che tutto parta da lì lo dicono quelle tute arancioni (imposte ai guerriglieri talebani a Guantanamo, per umiliarli) fatte indossare dai carnefici dell'Isis alle loro vittime mentre le giustiziano, in un orrendo miscuglio di ferocia ancestrale e sofisticata tecnologia. Anche qui c'è un abisso culturale. Gli afgani non sono arabi. Sono un antico popolo tradizionale. Tutti quelli che sono stati loro prigionieri, da Daniele Mastrogiacomo, alla giornalista inglese Yvonne Ridley, alla cooperatrice Céline Cordelier, al giovane sergente americano Bowe Bergdahl, hanno detto di essere stati trattati con rispetto, quasi come ospiti, e le donne con particolare attenzione alle loro esigenze femminili.

Aveva previsto un talebano intervistato da Terzani: «Io non so chi sia Osama, non l'ho mai incontrato, ma se Osama è nato a causa delle ingiustizie commesse in Afghanistan, queste ingiustizie faranno nascere tanti altri Osama». E così è stato. Di fronte alla spietatezza senza se e senza ma dell'Isis rimpiangeremo la moderazione e la saggezza del Mullah Omar. 'Il Mostro'.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2015

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

La grande manifestazione di Parigi, con due milioni di persone in piazza, 50 capi di Stato, non è un segnale di forza ma di debolezza. Quando si grida che non si ha paura vuol dire che si ha paura. E se bastano 17 morti per provocare una reazione così spropositata ciò non farà che incoraggiare i mininuclei jihadisti a ripetersi, certi di avere una risonanza mondiale. Non solo: poiché viviamo in un'epoca mediatica, stuzzicherà balordi e frustrati di ogni genere a cercare di imitare gli jihadisti per passare alla Storia, come fece Erostrato incendiando il Tempio di Artemide a Efeso.

Noi Europei, a metà del '900, ci siamo fatti una guerra spaventosa che ha causato 50 milioni di morti e i sopravvissuti, vincitori o vinti che fossero, sono usciti rafforzati da questa prova tremenda e, insieme, formidabile. Ma cinquant'anni di benessere ci hanno infiacchito, infrollito, indebolito. Così oggi non siamo in grado di sopportare emotivamente 17 vittime di guerra. Perché di guerra si tratta. Per la verità sono più di dieci anni che abbiamo mosso guerra al mondo musulmano: Afghanistan (2001), Iraq (2003), Somalia (2006/7), Libia (2011) e, da ultimo, bombardando le posizioni dell'Isis che sta combattendo una sua legittima battaglia per la conquista di territori che non sono nostri. Ma poiché le vittime, grazie alla nostra enorme superiorità tecnologica, cadevano, a centinaia di migliaia, solo in campo altrui, e il conflitto non toccava i nostri territori e le nostre tranquille abitudini, non ci siamo accorti che eravamo in guerra. Ma, prima o poi, dovevamo aspettarci un colpo di ritorno, come scrivevo sul nostro giornale il 29 agosto.

Adesso i fatti di Parigi ci hanno reso finalmente consapevoli che la guerra, con i suoi massacri, non riguarda più solo gli altri: riguarda anche noi e ci stringe da vicino, da molto vicino. Adesso che gli errori e gli orrori di cui ci siamo resi responsabili per più di dieci anni sono un dato incancellabile, si pone la cerniveskiana domanda: che fare? Riconoscere che siamo in guerra e applicare le leggi di guerra. In questa situazione il trattato di Schengen, con la libera circolazione delle persone, senza controllo alcuno, fra i Paesi che l'hanno firmato, va sospeso. Si ripristino le frontiere. La privacy deve cedere il passo alle ragioni della sicurezza. Censura sulle informazioni di tipo militare. Divieto a tutte le 'vispe terese', femmine o maschi, delle Ong o cani sciolti di circolare nei Paesi con cui siamo o siamo stati in guerra se non sotto il diretto controllo delle autorità militari.

Se fossi uno dei decisori occidentali riconoscerei lo Stato islamico di Al Bagdadi che ormai, lo si voglia o no, è una realtà. E tratterei col Califfo che si è conquistato una tale autorità sul campo di battaglia da poter tenere a freno le cellule terroriste che stanno fermentando un po' dappertutto, in Algeria, nel Sinai, nello Yemen. In cambio proporrei il ritiro di tutte le nostre truppe, delle basi e la fine dei bombardamenti sull'Isis. Che i popoli del Medio Oriente se la vedano fra loro, senza le nostre pelose, oltre che sanguinarie, intromissioni.

Utopia? Certamente. Solo pochi giorni fa il Parlamento francese ha votato all'unanimità (un solo voto contrario) un ulteriore incremento dei bombardamenti sull'Isis, quei bombardamenti che sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso terrorista, come ha affermato Coulibaly nel suo 'testamento' postumo. La stessa proposta l'ha avanzata Berlusconi. E qui passiamo dalla tragedia alla farsa. Che un detenuto abbia voce in capitolo su queste questioni è una cosa che può capitare solo in Italia.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 16 gennaio 2015