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Il ragazzino di undici anni che ha gettato la bomba a mano nel Lince uccidendo il capitano Giuseppe La Rosa è stato definito dal principale portavoce del Mullah Omar, Oari Yousef Ahmadi, «un piccolo eroe coraggioso». La Tv italiana lo ha qualificato «un bambino che porta sulle sue fragili spalle il peso di un vile assassinio». Vorrei sapere chi è 'eroe' in Afghanistan? Gli americani che teleguidano i droni da diecimila chilometri di distanza, da Nellis nel Nevada, fanno carneficine, di guerriglieri e non, e poi la sera tornano tranquillamente a casa per cena? O i piloti dei caccia, che senza correre alcun rischio perchè il nemico non ha nè aviazione nè contraerea, per stanare i guerriglieri hanno raso al suolo una cinquantina di scuole (il 20% elementari) hanno falcidiato decine di matrimoni, sposi compresi, confondendoli con raduni degli insorti o, per rimanere a episodi più recenti, hanno ucciso, in due differenti occasioni, diciotto bambine che stavano raccogliendo legna nel bosco scambiandole per dei Talebani?

Sulla guerra all'Afghanistan, la più infame, la più atroce, la più ingiustificata che mi sia dato ricordare, la stampa occidentale, per nascondere la vergogna, si è abituata a una 'disinformatia' che nemmeno l'Urss aveva raggiunto. Vittorio Zucconi su La Repubblica e Fiamma Nirestein su Il Giornale scrivono che i Talebani apprestano particolari campi per i bambini, dove li indottrinano, li plagiano e li addestrano alla 'guerra santa'. Falso. Il Mullah Omar ha vietato di utilizzare i piccoli. Ma è chiaro che quando tu hai visto i tuoi genitori uccisi dai missili della Nato non hai bisogno di alcuna propaganda per odiare chi te li ha portati via e imbracciare le armi appena ne hai la capacità, senza che nessuno te lo imponga. C'è un costante ribaltamento dei fatti. Scrive Nirestein: «Non vogliamo spingerci a spiegare ai talebani, per carità, la differenza fra un oppressore e una mano tesa per un futuro migliore». Chi è l'oppressore? Chi è il liberatore? Chi da dodici anni occupa il tuo Paese o chi cerca, ad armi impari, di cacciarlo? Il generale Giorgio Battisti, comandante di Stato Maggiore della missione Isaf (che, sia detto di passata, è quello stesso Battisti che quando nel 2003 fu mandato a guidare la base di Khost, sostituendo gli americani, si affretto' ad accordarsi col comandante locale dei Talebani, Pacha Khan, per una 'non belligeranza') afferma: «Siamo riusciti a restituire tranquillità e speranza al popolo afgano dopo 34 anni di guerra». Ma come si fa a dire queste cose senza vergognarsi? La sicurezza e la tranquillità l'avevano portata proprio i Talebani, sconfiggendo in due anni, dal '94 al '96, i 'signori della guerra' che spadroneggiavano nel più pieno arbitrio, cacciandoli oltreconfine, eliminando, con metodi spicci, le innumerevoli bande di predoni, disarmando la popolazione, e riportando la legge e l'ordine nel Paese, sia pur un duro ordine e una dura legge. Oggi l'Afghanistan, secondo la stessa Onu, «E' il Paese più pericoloso del mondo».

Tutti, in Occidente, dicono, anche se sottovoce, che la questione afgana è 'irredimibile', «una guerra che non si puo' vincere». E perchè mai il più potente, tecnologico, robotico esercito del mondo, in dodici anni non è riuscito a sconfiggere «un gruppo di criminali e terroristi» come li definisce Battisti? Perchè non sono un pugno di criminali nè di terroristi, ma insorti per la liberazione del proprio Paese che hanno, con tutta evidenza, l'appoggio, sempre crescente, della maggioranza della popolazione. E quel Military Advisor Team, a cui Giuseppe La Rosa era aggregato, che ha il compito di addestrare i soldati e i poliziotti dell'esercito 'regolare' afgano, non fa che preparare il terreno per una guerra civile: fra gli insorti e coloro che, attorno al corrottissimo governo del Quisling Karzai, si sono venduti alle potenze straniere. La sola speranza è che l'imbelle, improvvisato, demotivato esercito di Karzai si squagli nel giro di poche settimane. In caso contrario l'occupazione degli occidentali avrà ottenuto il formidabile risultato di far tornare indietro di tre lustri l'orologio della storia afgana. Al 1996 quando i Talebani l'avevano finalmente pacificato.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2013

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A Istanbul, città particolarmente priva di spazi verdi, il premier Erdogan vuole togliere di mezzo il Parco Gezi, abbattendo 600 alberi, per sostituirlo con un grande centro commerciale, con tutti gli annessi e i connessi, simbolo, secondo lui, di una Turchia che corre felice verso lo sviluppo e la modernizzazione. La gente della città si è ribellata, ha occupato il parco, lo ha circondato, si è scontrata duramente con una delle polizie più feroci del Medio Oriente (qualcuno ricorderà, forse, 'Fuga di mezzanotte'). Poi la rivolta è virata in senso politico, contro gli abusi e le violenze dell' 'amico Erdogan' come lo chiama Berlusconi. Ma resta il fatto che è cominciata per la difesa di un parco che i cittadini di Istanbul amano.

A Milano, nell'area della ex stazione delle Varesine, era nato spontaneamente un bosco, un vero bosco, non l'odioso verde, aiulato e regolamentato, che non puoi nemmeno calpestare, pena multe salatissime da parte di vigili assatanati che hanno l'ordine di raccattar quattrini da cittadini già esausti. Miracolo a Milano. Un piccolo polmone verde quasi nel cuore della città. E' stato raso al suolo in una sola notte e in poco più di un anno sono stati costruiti quattro o cinque ecomostri, costruzioni orribili che nulla hanno a che vedere con quell'opera d'arte che è il grattacielo Pirelli di Gio' Ponti e Pier Luigi Nervi. Sull'area dell'ex Fiera Campionaria, dove da bambini i genitori ci portavano a fare il pic-nic, è successa più o meno la stessa cosa. A nessuno è venuto in mente di utilizzarla a verde (gli architetti si salvano la coscienza con i cosidetti 'boschi verticali' , figuriamoci, poco più della vecchia edera che scende giù dalle facciate). Eppure anche Milano, come Istanbul, è quasi priva di parchi. Come hanno reagito i milanesi? Con un ricorso al Tar.

In Tunisia  Ben Ali' (gran protettore dell' 'esule' Craxi) e la sua cricca sono stati spazzati via in due giorni con una rivolta violenta, anche se disarmata. Noi invece tolleriamo che partiti che hanno governato il Paese per vent'anni, portandolo sull'orlo del baratro, continuino a farlo, sotto la guida di un quasi novantenne, che non ha fatto un solo giorno di lavoro in vita sua, che nella sua lunga esistenza non ha mai preso non dico una posizione (sulla rivolta ungherese del '56, sull'invasione russa della Cecoslovacchia del '68), ma non ha mai espresso un'opinione men che banale e che, per la sua inesistenza, era definito dai suoi stessi compagni «un coniglio bianco in campo bianco» e che quando era giovane, si fa per dire, lo scrittore Luigi Compagnone descrisse come «nu guaglione fatt'a vecchio».

E' che noi italiani abbiamo perso ogni vitalità. Siamo un popolo di vecchi. L'età media dei tunisini è di 32 anni, la nostra è di 44,5. Siamo sudditi e ci facciamo trattare da sudditi perchè ci comportiamo da sudditi. Subiamo tutto. La rivolta la facciamo solo a chiacchiera, nei bar: «Sono qui. Attendo solo un segnale». Ma va là.

Altro che Parco Gezi. Noi dovremmo tenere sotto assedio permanente il Parlamento e tampinare questi topi di chiavica in strada, per fargli sentire il nostro disgusto e il nostro disprezzo (senza toccarli, per carità, una sacrosanta sventola a Capezzone è un reato più grave dell'aver corrotto un paio di giudici e di testimoni per aggiustarsi le sentenze). E invece stiamo a guardarli in Tv, questi mascheroni, intervistati da giornalisti compiacenti e complici, in programmi manovrati da conduttori paraculi, di sinistra e di destra, il cui principale obiettivo è mantenere quelle decennali rendite di posizione che si sono accaparrati in un sistema in cui stanno incistati, come topi nel formaggio. E se per caso, per sfinimento, ti cade il telecomando, lei subito strilla: «Non l'avrai mica rotto!». C'è ben altro da rompere, in Italia.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2013

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Il Laboratorio cittadino di Arma di Taggia mi ha invitato a dibattere sullo stuzzicante tema: 'Oziare è rivoluzionario?'. Per rispondere bisognerebbe prima definire che cos'è l'ozio, perchè ne esistono vari tipi: c'è l'ozio del rentier, c'è quello, obbligato, del disoccupato, c'è quello di chi ne ha fatto una scelta di vita, c'è l'ozio laborioso e infine quello più delizioso: 'il padre di tutti i vizi' (un uomo senza vizi è pericolosissimo, Roberspierre insegna). Per semplificare le cose diciamo che l'ozio si contrappone al lavoro. Il 'Vangelo del lavoro', come si esprime Bertrand Russell nel suo 'Elogio dell'ozio', nasce con la Rivoluzione industriale e le due correnti di pensiero da essa partorite: il marxismo e il liberismo. Per Marx il lavoro è 'l'essenza del valore' (e non a caso Stakanov diverrà, simbolicamente, un eroe dell'Urss), per i liberisti è esattamente quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso 'plusvalore'. Prima il lavoro non era un valore, ma solo, per dirla con San Paolo, «uno spiacevole sudore della fronte». Tant'è che nella società preindustriale è nobile chi non lavora e contadini e artigiani lavorano per quanto gli basta, per assicurarsi la sussistenza (cibo e vestiario sostanzialmente, una casa ce l'avevano tutti). Il resto è vita. E lo si spende per andare in taverna, a giocare a birilli, a corteggiare la futura sposa. Perchè per quegli uomini il valore non era dato dalle merci, il valore era il Tempo, « il tessuto della vita» come lo chiama Benjamin Franklin.

I moderni si sono creati una società diametralmente opposta. Noi ci sentiamo obbligati a lavorare, a produrre, a consumare, anzi, paradosso dei paradossi, a consumare per produrre, a ritmi sempre più ossessivi, parossistici, angosciosi, stressanti. Il doverismo del lavoro – che è funzionale al sistema non certo a noi- ci domina e ci sovrasta. Non riusciamo più a distinguere cio' che è essenziale da quello che non lo è. Siamo travolti da questo sinistro doverismo, accecati. Come dimostra il caso estremo, ma significativo, di quel povero padre di Piacenza che, interamente preso dai suoi doveri aziendali, si è dimenticato in macchina per otto ore il proprio figlioletto di tre anni che ne è morto (ma casi simili negli Stati Uniti se ne contano, negli ultimi anni, circa 400).

Abbiamo perso la capacità di oziare. Il vuoto ci fa orrore, perchè ci costringerebbe a confrontarci con noi stessi, con cio' che stiamo facendo, con la vita che stiamo conducendo. E allora lo riempiamo con ogni sorta di frenesie. Neanche il cosiddetto 'tempo libero' è veramente tale. Ma è tempo da destinare al consumo perchè senza il consumo tutto l'Ambaradan crollerebbe. Che senso ha, se non quello della schizofrenia, che i milanesi si fiondino fuori dalla loro città ogni venerdi' pomeriggio per andare in luoghi dove incontrano le stesse persone e fanno, più o meno, le stesse cose che fanno a Milano? Nemmeno la domenica, come ha notato Papa Bergoglio, è più santificata al riposo.

Ci siamo anche dimenticati che l'ozio, il riposo, la contemplazione, la riflessione non sono solo un piacere in sè ma sono anche, per quanto cio' possa apparire contradditorio, pruduttivi. Newton scopri' la legge di gravità mentre si riposava sotto un albero e gli cadde in testa la famosa mela. Ma noi abbiamo utilizzato nel modo peggiore le scoperte della tecnica. Secondo Russell, che scive nel 1935, le macchine potrebbero lavorare per noi, lasciandoci, per questa incombenza, non più di quattro ore al giorno. Invece le usiamo per sbattere la gente fuori dal lavoro, in una condizione di ozio obbligato di cui, in una società basata sull'etica del lavoro, non possono godere, sentendosi dei paria. Diamoci una calmata. L'ozio è rivoluzionario.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 7 giugno 2013