Nell'ormai famosa domenica del comizio di Berlusconi a Brescia ha suscitato molte polemiche la presenza di tre ministri Pdl. Anche se sarebbe meglio che quello degli Interni controllasse che le manifestazioni di piazza si svolgano senza scontri, stando al Viminale, invece di aizzarli con la sua presenza, questo è un falso problema rispetto alla questione principale. Che riguarda le dichiarazioni di Berlusconi sulla sentenza della Corte d'Appello di Milano che lo ha condannato per una colossale frode fiscale (caso Mediaset). Dichiarazioni che si legano strettamente a quelle fatte il giorno prima, subito dopo la sentenza. In questo caso il Cavaliere non si è limitato a generici attacchi alle 'toghe policitizzate', ma ha accusato personalmente sei giudici (i tre della Corte d'Appello e i tre del Tribunale di primo grado) di averlo condannato «pur sapendo che sono innocente». Cioè hanno sentenziato con dolo, che è il reato più grave che un magistrato possa commettere nell'esercizio delle sue funzioni. Ora, le cose sono due. O Berlusconi dice il vero e ne ha la prova (che non puo' consistere, tautologicamente, nel fatto che l'hanno condannato) e allora suo interesse e dovere è di denunciare i magistrati felloni alla prima Procura della Repubblica. Perchè non lo fa? Oppure è un volgare calunniatore, le cui false accuse, dato il suo ruolo, dovrebbero svegliare l'attenzione del Capo dello Stato.
I berluscones hanno contestato il controcomizio degli oppositori. «C'erano delle bandiere rosse» ha accusato l'ineffabile Brunetta. Embè, da quando in qua è proibito sventolare bandiere rosse? E' forse diventato un reato? Reato è che alcuni simpatizzanti di Berlusconi siano stati presi a calci e pugni. Ma questo rientra, in prima istanza, nella competenza del ministro degli Interni se fosse stato al suo posto, invece di nascondersi prudentemente dietro il palco.
Infine, moralmente ripugnante è stato il tentativo di Berlusconi di autocristificarsi in Enzo Tortora. Il presentatore fu arrestato il 17 giugno del 1983 con l'accusa di essere colluso con la camorra e fece sette mesi di carcere. Eletto un anno dopo europarlamentare nelle liste radicali, si dimise nel dicembre del 1985 rinunciando all'immunità e torno' ai domiciliari per essere alla fine assolto con formula piena il 15 ottobre 1986. Quando era ai domiciliari lo andai a trovare a casa sua, in Via dei Piatti a Milano. Ero stato il primo giornalista a prendere le sue difese («E io vado a sedermi accanto a Tortora», Il Giorno, 25/5/1983), mentre la canea dei colleghi, molti dei quali sarebbero in seguito diventati 'ipergarantisti' a pro di Berlusconi e della sua cricca, si accaniva su di lui, godendo dell'umiliazione del presentatore famoso, mostrato in Tv in manette. Ebbi cosi' modo di conoscerlo meglio. Era un galantuomo, un liberale vero, colto, schivo, solitario, dal carattere non facile. Mi ricordo la rabbia della sorella, Anna, quando, qualche anno dopo, i tangentisti, incarcerati non per un 'flatus vocis' di qualche pentito che riferiva 'de relato' ma colti con le mani ne sacco, si atteggiavano a vittime, paragonandosi a Tortora. Per fortuna oggi non puo' più sentire (è morta di cancro, come Enzo) e si è risparmiata almeno quest'ultima ignominia.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2013
Fino a qualche tempo fa almeno nelle tre ultime giornate di campionato le partite si giocavano tutte la domenica e alla stessa ora perchè le squadre che erano il lotta per lo scudetto o per la retrocessione o per l'ammissione alla Coppa dei Campioni non potessero avantaggiarsi conoscendo il risultato delle rivali. Domenica scorsa è stato infranto anche quest'ultimo tabù. E' vero che gli organizzatori hanno avuto l'accortezza di raggruppare le partite delle squadre che si battevano per non retrocedere alla mattina, ma la Fiorentina, in questa alchimia, ha giocato prima del Milan cui contende il posto per entrare nei preliminari di Coppa. Il tutto naturalmente per esigenze televisive. La Tv ha stuprato il calcio. Lo spia. Un giocatore che ha ricevuto un tremendo pestone non puo' ululare una sacrosanta bestemmia, che l'arbitro non ha sentito o ha saggiamente ignorato, perchè il 'labiale' lo inchioda. Ha osato entrare perfino nel sacrario degli spogliatoi. E alla fine del primo tempo un giocatore, sfinito, viene arpionato dall'intervistatore perchè dica le solite ovvietà.
Questa pervasività televisiva non è che uno degli aspetti di quel business che ha spogliato il calcio di tutti gli elementi rituali, simbolici, mitici, identitari, irrazionali che ne hanno fatto la fortuna per più di un secolo. Tifare significa riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nella sua maglia, in certi giocatori-simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone di generazione in generazione fra gli 'anziani' e i giovani del vivaio. Tutto sparito. O quasi. Giocatori, anche importantissimi, cambiano squadra ogni anno o addirittura nella stessa stagione con tanti saluti alla regolarità dei campionati. Ci sono squadre che giocano con undici stranieri. Abbandonati i vivai (eppure il Barcellona ha dimostrato che si puo' costruire una grandissima squadra quasi esclusivamente con la 'cantera', Iniesta, Xavi, Busquets, Piqué e lo stesso Messi che vi arrivo' a tredici anni). Del resto appena appare in una squadra di media classifica un ragazzino promettente le 'grandi' glielo ranzano via subito a suon di milioni. Casi come quelli di Riva, di Antognoni, di Bulgarelli che rimasero tutta la vita in squadre fuori dal giro delle 'grandi' non si ripeteranno più. Nemmeno le maglie sono più sacre, in trasferta gli sponsor pretendono che abbiano colori diversi. Come si fa ad identificarsi? Intanto sul campo si assiste a scene grottesche. Una volta c'era un arbitro coadiuvato da due guardialinee. Adesso c'è il 'quarto uomo' e quattro semiarbitri piazzati sulla linea di porta. Per decidere su un fallo fanno un'assemblea.
Il calcio era una grande festa nazionalpopolare, una 'festa di tutti', interclassista. Allo stadio sedevano accanto l'imprenditore e il suo operaio. Adesso, con la politica degli abbonamenti, la 'suburra' viene stipata dietro le porte (eppoi ci si meraviglia se accadono incidenti). C'è chi ha Sky e chi non ce l'ha. Da interclassista il calcio è diventato classista, riproducendo, come uno specchio, cio' che accade nella società italiana.
Con tutte queste belle innovazioni il calcio da stadio (l'unico, vero, calcio) ha perso dal 1982, anno dell'introduzione del 'terzo straniero', il 40% degli spettatori. Si è ridotto a spettacolino televisivo, come una qualsiasi 'Domenica in', da fruirsi solipsisticamente a casa. E perdendo tutti i suoi contenuti specifici susciterà un interesse sempre più generico, vago, intercambiabile che, come tale, prima o poi si rivolgerà altrove. Gli apprendisti stregoni avranno cosi' ucciso, per avidità e overdose, 'la gallina dalle uova d'oro', e il razionalismo nella forma del denaro avrà realizzato, è il caso di dirlo, l'ennesimo autogol.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 17 maggio 2013
Nel mio 'coccodrillo' scrivevo che Andreotti, durante e dopo i suoi processi, non aveva mai accusato la Magistratura di 'complotto', non aveva mai parlato di «uso politico della giustizia», non aveva mai ricusato i Tribunali lasciando che i suoi processi si svolgessero davanti al proprio giudice naturale, come prevede la Costituzione (Particolarmente grottesca è la motivazione con cui i legali di Berlusconi hanno cercato di inficiare l'imparzialità di Alessandra Galli, uno dei tre giudici del processo Mediaset, la cui serenità sarebbe minata dal fatto che suo padre, Guido, fu assassinato nel 1980 dai terroristi. Che «c'azzecca» questo con Berlusconi? Tanto varrebbe sostenere che un magistrato che ha avuto delle disgrazie familiari non puo' fare il magistrato. Credo che persino Ghedini si sia vergognato di dover mettere nero su bianco una castroneria del genere). Aggiungevo poi che il comportamento di Andreotti era determinato dalla consapevolezza, (peraltro comune alla parte migliore della vecchia Dc) di essere classe dirigente e che una classe dirigente degna di questo nome non delegittima le istituzioni perchè sa che dalla loro disgregazione e dal caos che ne consegue ha tutto da perdere. In questa situazione di caos istituzionale ci hanno portato vent'anni di regime dell'avventuriero Berlusconi con la sua corte di 'servi liberi'. E di fronte alla condanna in appello del Cavaliere a quattro anni per una colossale frode fiscale, oltre alle solite geremiadi sull' 'accanimento', sul 'complotto', sull' 'uso politico dalla giustizia', si è sentito anche qualcosa di nuovo. La sentenza del Tribunale di Milano farebbe parte di una macchinazione ordita per minare quel «processo di pacificazione nazionale» iniziato con l'alleanza al governo di Pdl e Pd. Se un Tribunale, nelle sue sentenze, tenesse conto, invece che della legge, delle esigenze dei partiti farebbe, questa volta si', «un uso politico della giustizia». Una deputata del Pdl, mi pare la Bernini, ha detto in Tv che «non siamo più in uno Stato di diritto». Lo Stato di diritto è quello in cui si rispettano le sentenze e non si inscenano indegne gazzarre e invasioni di Tribunali da parte di parlamentari (altro che le intemperanze dei No Tav, è qui, Egregio Napolitano, che siamo all'eversione). La deputata Pdl Lara Comi ha affermato: «Se nel Pd c'è qualche garantista batta un colpo». E che vuol dire? La Giustizia non è un affare privato fra Pdl e Pd, è una questione che riguarda tutti i cittadini. Che sono stufi di vedere che esistono due diritti, uno 'ipergarantista' per lorsignori, e uno 'forcaiolo' per tutti gli altri. E allora è inutile 'chiagne' per 'l'antipolitica', il grillismo, per un'astensione rabbiosa che riguarda ormai un quarto della popolazione e continua ad aumentare.
Nostalgia della vecchia Dc che sottobanco ne combinava di tutti i colori ma conservava almeno il rispetto formale della legge. Nostalgia di Giulio Andreotti che aveva quel senso dello Stato che Silvio Berlusconi ha sempre dimostrato di non avere. Ed è qui che sta la differenza fra uno statista, un gigante della politica e un nano.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2013