0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il debito pubblico americano, al 4 marzo 2023, ammontava a 31 mila miliardi di dollari. Ad agosto era già salito a 32 mila miliardi. A marzo Biden ha approvato 6.8 mila miliardi di dollari per progetti di green economy. Ovviamente questa immissione di denaro nel sistema non avviene stampando moneta ma nella forma del credito. Così si crea l’apparente prosperità di un Paese, pronto ai più generosi impegni.

Sarebbe bene far notare che le grandi crisi finanziarie dell’ultimo secolo, quella di Wall Street del 1929 e quella della Lehman Brothers del 2008, sono nate negli Stati Uniti e si sono poi propagate nell’universo mondo e in particolare in Europa. La differenza tra le due crisi sta nel fatto che nel 1929 il mondo non era ancora completamente globalizzato e quindi l’Europa si poté in qualche modo difendere. In Italia Mussolini creò l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, che fu un’intelligente risposta alla crisi (solo con la Repubblica l’IRI diventerà un baraccone partitocratico) e prese altre misure efficaci per tamponare la falla aperta dagli Stati Uniti. In ogni caso le due crisi hanno un denominatore comune: l’immissione sul mercato di enormi crediti.

Il debito della Cina, globalmente inteso, ammonta a quasi 52 mila miliardi di dollari. Insomma tutti sono indebitati con tutti. E non sarà il Brics col tentativo di creare una moneta alternativa al dollaro a cambiare la situazione, perché il problema non è il dollaro ma il credito. Ora se noi facciamo 100 il denaro circolante, nelle sue infinite forme, con l’un percento di questo 100 si possono comprare tutti i beni e i servizi del mondo. Cosa rappresenta allora l’altro 99 percento? Un enorme credito, anzi debito (se c’è un creditore deve esserci simmetricamente un debitore) verso il futuro, un futuro talmente dilatato nel tempo da renderlo di fatto inesistente. In ogni caso questo futuro immaginario, dilatato a dimensioni mostruose dalla nostra fantasia e dalla nostra follia, un giorno ci ricadrà addosso come drammatico presente. E alla velocità parossistica, sempre crescente cui stiamo andando, il momento, anzi l’attimo (perché tutto crollerà in un attimo) del Big Bang è sempre più vicino.

 

Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2023

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il Telegraph, prestigioso quotidiano britannico, ha 750mila abbonati e 300mila copie vendute in edicola. Lo Spectator oltre 100mila abbonati. In Gran Bretagna, a quanto pare, si leggono ancora i giornali. Il Corriere vende 246mila copie, la Repubblica circa 150mila. Vent’anni fa il Corriere vendeva 723mila copie, la Repubblica 637mila. Dieci anni dopo, il Corriere era sceso a 500mila copie, la Repubblica a 450mila. Mediamente una perdita per i due principali quotidiani italiani del cinquanta percento. Non si conoscono i dati delle rispettive tirature, che sono ovviamente superiori alle vendite, ma sulle quali non si può fare alcun conto perché entrambi i quotidiani ti vengono sbattuti in faccia nei grandi alberghi e sui treni. Del resto, a parte questi dati statistici, sono le edicole a parlare. Nella mia zona, piazza Repubblica a Milano, media borghesia, c’erano cinque edicole. Oggi si sono ridotte a due, una storica e un’altra di un coraggioso bangla. Ma i loro introiti non si basano sulla vendita dei giornali, bensì su vari tipi di gadget e sugli abbonamenti tramviari e ferroviari. Il bangla poi non ha nemmeno tutti i giornali, segno di una distribuzione stolidamente lacunosa: alcuni non glieli mandano. Così un giorno apre e quello dopo è costretto a chiudere.

È ovvio che un giovane, se vuole avere qualche notizia, non legge i giornali, ma si abbevera al digitale, che sta distruggendo il giornalismo di carta stampata. Entro due anni il New York Times sarà solo in digitale. E siccome quel che succede negli States arriva rapidamente anche in Italia, noi saremo in breve nella stessa situazione.

Un fenomeno analogo, o quasi, molto curioso, si ha con i libri. Le case editrici pubblicano un’infinità di titoli l’anno, ma tutti i dati statistici dicono che i lettori sono sempre di meno. È scomparso, per ragioni anagrafiche, il “forte lettore”, quello che leggeva un centinaio di libri l’anno. In compenso ci sono più autori che lettori, non c’è quasi nessuno in Italia che non abbia scritto almeno un libro. Come fanno le case editrici a ripagarsi se i lettori non ci sono? Puntano, nella massa, su un best seller che compensi l’infinità dei libri rimasti invenduti. Inoltre anche grandi case editrici, come Mondadori, fanno pagare gli autori per pubblicarli. Fino a pochi anni fa questo sciacallaggio lo facevano case editrici di infimo ordine.

Per i libri la questione è però un po’ diversa che per i giornali. I libri sono un fatto tattile ed è piacevole fare sottolineature o note a margine, teoricamente è possibile farlo anche con un libro digitale, ma poi in pratica non lo si fa. Il libro digitale ha avuto per ora scarsa fortuna, se guardo alla mia produzione solo il cinque percento è in digitale. Il digitale sembra essere di grande aiuto perché, se voglio spostare un brano da una pagina, col computer posso farlo in un attimo. Ma se lavoro con la biro, nel tempo che ci metto a spostare un brano al posto di un altro, mi vengono in mente cose che avrei potuto aggiungere o togliere. Insomma il pensiero lavora.

In questa grande confusione di giornali non letti, di libri totalmente inutili, di Twitter, Facebook, Instagram, TikTok, Telegram, di un’informazione sempre più veloce, a lasciarci le penne è Dostoevskij. Chi mai oggi si prenderebbe la briga di leggere le cinquecento pagine dei Fratelli Karamazov? Oggi, se rinascesse un Dostoevskij, non se ne accorgerebbe nessuno. Speriamo che in qualche “sottosuolo” ci siano degli amanuensi che, come i monaci di un tempo che ci hanno restituito la cultura latina e greca, riescano a tramandarci Dostoevskij, Tolstoj, Gogol, Rimbaud, Baudelaire, Leopardi, Shakespeare, Coleridge, Goethe. In quanto a Nietzsche, era spacciato in partenza. Era nato “postumo” e se oggi circolano i suoi pensieri profondi, che sono di una straordinaria attualità, nessuno sa più che gli siamo tributari.

Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2023

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

È tornato all’onor del mondo Antonio Di Pietro, il frontman di quello straordinario pool di Mani Pulite diretto con polso fermo da quel gran signore di Francesco Saverio Borrelli di cui tutti oggi si vorrebbero dimenticare come si vorrebbe dimenticare Di Pietro. Ma poiché esiste una commissione parlamentare  Antimafia è stato giocoforza convocare anche Di Pietro. Qual é la tesi sostanziale dell’ex pm? Che mafia e mondo imprenditoriale erano collusi. Di Pietro spiega anche carte alla mano che gli fu in vari modi impedito di indagare su questa collusione con la complicità anche di magistrati. Sono tutte cose note ma è bene richiamarle alla memoria.

Più interessante è il giudizio che ne dà il Giornale di venerdì 24. Scrive Felice Manti, riassumendo un po’ il pensiero di tutto il mondo berlusconiano e non solo: “Sono passati più di 30 anni da quel dannato 1992 che ha riscritto la storia d’Italia”. Quel 1992 non fu affatto dannato, fu la prima volta, da quando il Pci si era consociato al potere, in cui la Magistratura, grazie all’emergere di un movimento nuovo, la Lega di Umberto Bossi, che l’opposizione la faceva davvero, poté indagare liberamente sulla collusione fra mondo imprenditoriale e quello mafioso. Ho raccontato altre volte, ma anche questo va ricordato, come il pretore di Piacenza, Angelo Milana, fece, pochi anni prima delle inchieste di Di Pietro, con una Lega solo nascente, le stesse inchieste di Di Pietro mettendo in galera il sindaco comunista e quello socialista di Piacenza insieme all’importante imprenditore Vincenzo Romagnoli. Apriti cielo, tutto l’“arco costituzionale” e non, compreso quindi l’Msi, e persino il vescovo della città, ottenne che il Csm rimuovesse Milana dal suo posto per relegarlo a Trieste, che non è proprio a due passi da Piacenza. Milana era un vecchio giudice, disse: “Se le cose a voi van bene così, sapete qual è la novità? Io me ne vado in pensione”.

Poiché il vento era così cambiato e la Magistratura poteva fare il suo dovere, chiamando la classe dirigente politica e imprenditoriale al rispetto di quelle leggi a cui tutti noi, comuni mortali, siamo tenuti, all’inizio da parte dei grandi giornali ci fu un’esaltazione, a sua volta esagerata, dei magistrati di Mani Pulite, esagerata perché il codice Rocco voleva che fosse sottolineata la funzione della magistratura, non dei singoli magistrati, per evitare una personalizzazione pericolosa, perché il magistrato avrà una moglie, una fidanzata, degli amici, ed è quindi sempre attaccabile, la funzione no. Se leggete le cronache di allora potete vedere come sia Borrelli che Di Pietro limitarono al massimo le loro esternazioni. Per quel che mi riguarda io, che lavoravo allora all’Indipendente, non parlai mai dei singoli magistrati di Mani Pulite ma della “Procura della Repubblica di Milano”. Ma poi Di Pietro cedette al corteggiamento ossessivo, ricorderò ancora l’infame editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera intitolato “Dieci domande a Tonino”. Tonino come se ci avesse mangiato insieme a Montenero di Bisaccia. In seguito, cambiato di nuovo molto velocemente il vento, i magistrati divennero i veri colpevoli (“Sporcano l’immagine dell’Italia”, Berlusconi) colpevoli di aver applicato la legge e i ladri le vittime, spesso diventati giudici dei loro giudici.

Di Pietro, il più esposto, fu aggredito con sette inchieste giudiziarie da cui uscì regolarmente assolto (in una Berlusconi manovrò perché due personaggi testimoniassero contro l’ex pm, costoro furono condannati, ma Berlusconi, il mandante, si salvò come sempre).

Ho chiesto più volte a Di Pietro perché non si fosse presentato alle elezioni politiche, nel clima di quel momento, con tutta l’Italia a favore di Mani Pulite, avrebbe preso il 90 per cento dei voti. Rispose: “Non sarebbe stato corretto approfittare della mia notorietà di magistrato”. Gli replicai con una frase che utilizzai poi al Palavobis, il primo grande “girotondo” organizzato da Paolo Flores D’Arcais: “Non si può combattere con una mano dietro la schiena, quando gli altri le usano tutte e due accompagnate da un bastone”. Per quella frase il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, per soprammercato un leghista, interrogato dal sempiterno Vespa, propose il mio arresto. A parte che non spetta al ministro della Giustizia arrestare chicchessia, in effetti quella frase incitava alla violenza. Riprendendo Sandro Pertini avevo detto: “A  brigante, brigante e mezzo”. La violenza noi non abbiamo avuto la forza e il coraggio di farla, è uno dei tanti tabù della Democrazia (se ne parli a Marco Travaglio va in catalessi), eppure è Marx che dice che la violenza è “la levatrice della Storia”. Così ligi, così rispettosi, pecore da tosare, asini al basto, la storia ci è giustamente girata nel culo. Menomale che ogni tanto dalle campagne contadine di Montenero di Bisaccia riemerge Antonio Di Pietro a ricordarci come andarono veramente le cose ai tempi di Mani Pulite. Un crinale che avrebbe potuto cambiare realmente la storia d’Italia e che invece si è rivoltato, come un boomerang, contro i cittadini italiani. È dal dopo 1992 – 1994 che è cominciata una campagna contro la magistratura, condotta soprattutto dai media berlusconiani, come rivela ingenuamente il cronista del Giornale, berlusconiani ma non solo per arrivare alla realtà di oggi di un doppio diritto: uno per ‘lorsignori’, un altro per quelli che vengono chiamati sprezzantemente, senza nemmeno accorgersi di questa implicita violenza, i “cittadini comuni”.

Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2023