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Ugo Intini ha pubblicato l’anno scorso un libro, Testimoni di un secolo, che secondo me avrebbe meritato una maggiore attenzione. In realtà il libro avrebbe potuto avere come titolo “Testimoni di un paio di secoli”. Intini, che oggi ha 82 anni, è entrato giovanissimo, a 19 anni, all’Avanti! di Milano e ha conosciuto dalla viva voce di socialisti nati ai primi del Novecento fatti, a volte importanti altre curiosi, dell’Ottocento.

Testimoni di un secolo è quindi un libro di storia ma contiene anche aneddoti molto divertenti di fatti minori che non appartengono alla grande storia ma che, se letti in filagrana, sommandoli gli uni agli altri, l’hanno fatta. Al centro c’è la grande figura di Pietro Nenni a cui il giovane Intini fu molto vicino prima di incrociare Bettino Craxi. Il ritratto di Nenni, che Intini chiama sempre “il vecchio” non solo per rispetto ma per le perle di saggezza che distribuisce ai compagni e che i socialisti venuti dopo di lui avrebbero fatto bene a seguire (“Frati ricchi, convento povero”), inizia con l’incontro con un altro “grande vecchio”, Angelo Rizzoli senior. “Il sodalizio tra Nenni e Angelo Rizzoli veniva da lontano. Erano entrambi poveri, orfani e cresciuti in collegio. Rizzoli nel mitico istituto dei Martinitt a Milano, dove imparò il mestiere di tipografo, grazie al quale riuscì a comprarsi una vecchia Linotyope usata, se la caricò su un carretto e iniziò la sua ascesa. Si conobbero all’inizio degli anni Venti. LAvanti! era l’unico giornale veramente nazionale, con una tiratura enorme. A tutti gli abbonati regalava per Capodanno ‘l’Almanacco socialista’. Ma non era facile trovare una tipografia capace di stamparlo in tempo e bene. L’amministratore del quotidiano socialista, Bonaventura Ferrazzutto, grande amico di Nenni, si accordò con Angelo Rizzoli e il rapporto tra tutti loro ebbe un futuro”.

Secondo Intini fu Mussolini a salvare Nenni, col quale aveva un antico rapporto cominciato quando entrambi erano esuli in Francia. Fu Ugo a pormi l’indovinello: “Nel 1922 ci sono due uomini che camminano fianco a fianco sulla Croisette a Cannes. Sai chi sono? Sono Pietro Nenni e Benito Mussolini”. Come Mussolini salvò Nenni? Secondo fonti molto attendibili, raccolte da Intini, Nenni catturato dai tedeschi era stato condannato a morte. Hitler acconsentì a rimandarlo in Italia, ma con una lettera personale a Mussolini ne chiedeva l’immediata fucilazione. Nel dopoguerra Nenni restituì il favore. È opera sua se dopo la Liberazione, in quegli anni di vendette trasversali, né Rachele Mussolini né Edda Ciano né i figli di Benito furono mai toccati. A questo proposito è interessante leggere il libro pubblicato nel 1969 di Romano Mussolini, divenuto nel frattempo un apprezzato jazzista seguendo certe inclinazioni che erano anche di suo padre, Apologia di mio padre.

Nel libro Intini usa la mano leggera nei confronti di Sandro Pertini, altro “grande vecchio” del socialismo italiano. A me ha invece raccontato questa storia: i partigiani in Liguria catturano un giovane fascista ma se lo lasciano scappare, arriva furibondo Pertini che chiede la fucilazione immediata dei partigiani che avrebbero dovuto custodire il fascista. Naturalmente i partigiani non fanno nulla, aspettano solo che il violento rompicoglioni se ne sia andato. Del resto per sapere che Pertini era un violento e un cretino non è necessario ricorrere ai racconti di Intini, basta andare a Stella, dove è nato, per capire che era odiatissimo. Questo per dire l’enorme distanza non solo politica e culturale, ma anche umana che c’era fra i due uomini.

Ugo Intini è stato anche direttore de Il Lavoro di Genova. Si potrebbe dire che oltre a essere uno dei pochissimi socialisti, insieme a Rino Formica, a non aver rubato, è stato anche uno dei pochi socialisti ad aver lavorato. È stato Intini il primo a darmi una caratura da editorialista proprio su Il Lavoro con una rubrica intitolata Contropiede. Durante il sequestro di Aldo Moro scrissi uno spinosissimo articolo che Intini titolò “Aldo Moro, statista insigne o pover’uomo?”. “Sei stato molto duro con Moro” disse, ma pubblicò. Del resto Moro non piaceva nemmeno a Bettino Craxi. Posso dire con certezza che spesso Ugo non condivideva le opinioni e le decisioni di Craxi, ma le eseguiva con un ubbidienza sabauda.

Piene di spunti sono le pagine che Intini dedica a Ghiringhelli, a Remigio Paone e, a seguire, ad altri protagonisti del teatro, Scala in testa, e dello spettacolo, tutti socialisti a dire di Intini perché per lui, per un atto di fede verso il socialismo che considero commovente, tutti sono socialisti o ex socialisti o futuri socialisti.

Ghiringhelli. “Capelli bianchissimi e folti nonostante l’età, occhi chiari, pallido e piccolino, lo ricordo ‘in divisa’. Quella del giorno era un doppio petto gessato a righe (blu, grigio chiaro o grigio scuro a seconda dell’umore). Se non avesse mostrato un viso gentile, poteva sembrare Al Capone. La divisa da sera era naturalmente lo smoking (sempre rigorosamente doppio petto). Che, in contrasto con il nero, faceva sembrare ancor più bianchi il viso e i capelli… Ghiringhelli ascoltava, sopiva, mediava. Sempre garbato e mite con le persone, ma fermissimo negli obiettivi. Si occupava dei divi, certo, ma anche dello staff… tutto vedeva con sguardo al laser e tutto organizzava. Pronto persino a rassicurare chi fosse colto da un attacco di timor panico (e succedeva spesso) al momento di andare in scena”.

Il nome di Ghiringhelli si lega ovviamente a quello di Paolo Grassi che fu direttore della Scala, ma non solo. Da Grassi origina un nuovo modo di vedere lo spettacolo – non più avanspettacolo –  da cui avrà origine la filiera degli Svampa, de I gatti di via dei miracoli, degli Jannacci, dei Gaber, sino a Renato Pozzetto, Cochi e Abatantuono.

Intini è stato anche Viceministro degli Esteri e quindi, grazie anche al sodalizio con Nenni, ha una notevole esperienza internazionale spalmata su tanti anni di vita. Da qui una serie di incontri con personaggi del calibro di Pelikan, Jaruzelski, Sacharov, Ceausescu, Kim Il-sung, Hoxha, Alia, naturalmente Willy Brandt, Peres, Arafat.

Interessante, perché molto attuale, è una confidenza che Nenni fa a Intini a metà degli anni Settanta: “La Costituzione ha superato brillantemente questi trent’anni. Ma ogni Costituzione esprime sul terreno giuridico le realtà che si vanno creando nei vari Paesi. E non c’è dubbio che si vanno creando in Italia condizioni che dovranno trovare la loro espressione giuridica in un testo rivisto”.

Dopo il crollo del PSI Intini partecipa alla fondazione dei Socialisti Democratici Italiani insieme ad Enrico Boselli nel 1998, dove viene rieletto deputato alla Camera alle elezioni politiche del 2001 nel collegio di Genova-Sampierdarena. Nel 2005 è tra i promotori del nuovo progetto radical-socialista: è capolista in tutti i collegi del Senato per la Rosa nel Pugno nelle elezioni politiche del 2006, insieme a Marco Pannella. Ha fatto parte del governo Prodi II dal 2006 al 2008. Ha poi aderito al rinato Partito Socialista Italiano nel 2007.

Come si può osservare Ugo Intini è un vero socialista, ma con venature liberali, libertarie, radicali. Non per nulla, nonostante le offerte, non ha mai voluto entrare, a differenza della mia amica Stefania Craxi, in Forza Italia, perché un socialista può stare con chiunque tranne che con i campioni del turbocapitalismo.

Il Fatto Quotidiano online, 9 settembre 2023

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A me Giorgia Meloni piace. Come persona. Per la giovinezza, la freschezza e quella genuinità che le deriva, credo, dalle sue origini popolari e popolane (“mo’ va a finire che famo le tre”, fuori onda). Per la femminilità. Fa la dura, e lo è, ma anche nei discorsi più importanti e istituzionali non rinuncia, con un gesto, appunto tipicamente femminile, a ravviarsi i capelli gettandosi le ciocche all’indietro, lontanissima in questo dalla rigidezza di Elly Schlein. Mi piace per la sua franchezza (“non ci sono i soldi”). Mi piace perché si sbatte come una matta, anche in quei pochi giorni in Puglia che dovevano essere la sua vacanza non ha rinunciato a vedere il presidente albanese Rama. E più volte ha dovuto richiamare i suoi ministri, propensi allo svacco, a lavorare.

“Non sono ricattabile” ha detto sul muso a Berlusconi, il re dei ricattatori. E le si può credere. Per quanto si sia cercato, in lei e nella sua famiglia, non sembra esserci traccia di corruzione, semmai, forse, un pizzico di familismo, ma non si è italiani per caso. È italiana, non è tedesca.

Non credo che le possano essere addebitate le opinioni del fidanzato, Giambruno, giornalista. È un vero peccato che Giambruno si sia lasciato andare a quelle dichiarazioni che naturalmente sono state strumentalmente addebitate a Meloni chiedendole di intervenire, cosa che non può e, a mio avviso, non ha nemmeno diritto di fare. Peccato perché fino a ieri Giambruno era rimasto nell’ombra, quasi un’assenza, nella migliore tradizione della politica europea, chi ha mai saputo qualcosa del marito di Angela Merkel, o, prima di lei, di quello della Thatcher?

Mi piace per la coerenza. Fin da giovanissima, come la sorella Arianna, Ari per gli amici, anche lei simpatica e forse ancor di più perché, rispetto alla sfrontatezza dell’altra, è timida, era di destra e di destra è rimasta. È stata arronzata per la sua vicinanza a Vox, il partito di estrema destra spagnolo. Ma se uno è di destra è ovvio che abbia simpatie per chi, in Europa, è di destra. Intanto parla un perfetto spagnolo e un altrettanto perfetto inglese, cosa piuttosto rara fra i politici nostrani di oggi per non parlare di quelli di ieri che, anche per ragioni storiche (a scuola le lingue non si studiavano o si studiavano malissimo) facevano fatica a mettere due parole in croce in foresto (l’ottimo Forlani – ottimo per altri motivi – che è stato ministro degli Esteri per cercare di dire grazie in francese diceva “graz”).

Giorgia l’ho conosciuta quando non era nessuno, non era ancora Giorgia Meloni, e mi sembrò animata da un’autentica passione politica che mi pare conservi. Non è Salvini.

Meloni ci mette la faccia. Su tutto. E questo comporta che a lei, soprattutto a lei, anche se non forse solo a lei, vadano addebitate le politiche di questo governo di destra-destra-destra. A parte il provvedimento sugli extraprofitti delle banche, non a caso osteggiato dai berluscones di tutte le risme, l’attuale governo sembra fare esattamente il contrario del Passator Cortese che rubava ai ricchi per dare ai poveri: questo ruba ai poveri per dare ai ricchi. Inoltre non si può essere, come Meloni, ipernazionalisti e nello stesso tempo superatlantisti, perché questo significa perpetuare la sudditanza agli americani in “saecula saeculorum”.

Infine c’è una ragione molto personale per la mia simpatia per Giorgia. Quando pubblicai Cieco glielo mandai e lei mi rispose con una mail molto gentile. Questo tipo di cortesie, che vogliono comunque dire attenzione all’altro, senza avere per questo l’aspettarsi nulla in cambio, le faceva solo Giulio Andreotti. Ma col “divo Giulio” entriamo in un altro mondo, nel “mondo di ieri” per dirla con Stefan Zweig, purtroppo scomparso.

Il Fatto Quotidiano, 5.09.2023

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Un recente sondaggio inglese, ripreso dal Telegraph, rivela che quasi il 10 percento della popolazione giovanile nella fascia d’età tra i 18 e 24 anni dichiara di non aspettarsi di ricoprire mai un impiego in tutta la vita. Non che questi giovani pensino che non riusciranno mai a trovare un lavoro, più semplicemente credono che “non ne valga la pena”. Si sta quindi facendo strada l’intuizione di quel gruppo, per ora estremamente minoritario, di giovani americani che si sono significativamente dati il nome di Luddite Club che però con il fenomeno luddista comparso ai primi dell’Ottocento sempre in Inghilterra non ha molto a che vedere anche se ha qualcosa da spartire. Il luddismo classico distruggeva le macchine perché toglievano lavoro, questi vogliono semplicemente togliere di mezzo il lavoro. Un “diritto alla pigrizia” era già stato affermato da Paul Lafargue, genero di Karl Marx, in chiave anticapitalista. Lafargue parla della “strana follia” che si è impossessata dell’uomo moderno: l’amore per il lavoro. E in verità il Primo Maggio noi facciamo, senza rendercene conto, l’elogio della nostra schiavitù. E a dicembre, in una intervista molto discussa, la deputata francese Sandrine Rousseau aveva proclamato “il diritto all’ozio”, che però non va confuso con la pigrizia e si avvicina molto di più all’“otium” laborioso dei latini.

Però questi neo-diritti che nascono proprio in reazione al compulsivo modello industriale basato sull’invidia, considerata in senso positivo come molla dell’intero sistema da Ludwig Von Mises (La mentalità anticapitalista), uno dei più estremi ma anche più coerenti teorici del neocapitalismo, vanno presi “cum judicio” , diciamo con le molle. Non si tratta di non lavorare più addossando la fatica a padri o nonni, perché poi bisogna pur mangiare, ma di lavorare meno, di avere più tempo, che è il vero valore della vita, per noi stessi e per i nostri bisogni più autentici.

Come? Si tratta di abbandonare tutti i bisogni futili che ci vengono continuamente proposti dal mercato, bisogni di cui l’uomo, prima di quest’era superdinamica che è iniziata grossomodo con la Rivoluzione industriale, non aveva mai sentito il bisogno. Si tratta di abbandonare la pazzesca legge di Say (1803) seconda la quale “l’offerta crea la domanda”. Si tratta quindi di tornare ai bisogni veramente essenziali. Ma qui si incrocia il primo incrocchio. Come mi ha detto una volta lo storico Carlo Maria Cipolla: “per lei magari sono essenziali i libri ma per un altro essenziale è tutt’altro”. Eppoi ci sono cose che mai state essenziali lo diventano, per esempio lo smartphone. Quindi il principio del Luddite Club, se portato fino alle estreme conseguenze, condurrebbe a una vita da cenobiti.

Comunque si può dire, sia pure con una certa approssimazione, che ci sono in circolazione oggetti totalmente inutili. Quindi: comprare di meno. Ma comprare di meno significa produrre di meno e si tratterebbe perciò di ribaltare da cima a fondo l’attuale modello di sviluppo.

Il metodo che abbiamo chiamato per comodità Luddite Club darebbe poi un significato a quella transizione ecologica di cui tanto si parla ma per la quale non si fa nulla di concreto. Non è con i “bio” e i “green” che si risolve una questione epocale come questa. Lo sgretolamento dei ghiacci polari dovrebbe aver convinto anche i più feroci negazionisti (i Von Mises del momento) che stiamo andando a rotta di collo verso un collasso definitivo. L’Economia e la sua sorella gemella Tecnologia hanno una parte fondamentale in questo processo sempre più accelerato di dissoluzione. Bisogna che Economia e Tecnologia tornino al ruolo subalterno che hanno avuto fino a due secoli e mezzo fa prima del take off industriale e che l’uomo sia rimesso al centro del sistema. Da dove partire quindi? Dalla terra che è quella che ci dà il cibo, bisogno che, Cipolla o non Cipolla, è essenziale in modo indiscutibile. Quindi: economia di sussistenza, autoproduzione e autoconsumo. Un ritorno all’indietro, certo. Ma il futuro non è davanti, ma dietro di noi.

Il Fatto Quotidiano, 1.9.2023