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“Fidel Castro è un uomo affascinante” mi disse una volta Susanna Agnelli, certamente non sospettabile di filocomunismo, che lo aveva incontrato a Cuba quando era ministro degli Esteri. E che lo fosse, affascinante, nessuno, nemmeno i suoi più irriducibili detrattori, può negarlo. Naturalmente questo non può assolverlo dalle sue colpe e dai suoi crimini durante i quasi cinquant’anni della dittatura e puntualmente documentati da quel grande inviato che è Fausto Biloslavo, molto filoamericano, forse troppo, che si rifà ai dati forniti dal Cuba Archive Project: 9.240 le “morti politiche”, 5.600 i cubani giustiziati, 1.200 quelli eliminati nelle esecuzioni extragiudiziarie, 8.616 i casi di detenzione arbitraria documentati nel 2015 e 2.500 nei primi due mesi di quest’anno. Poi c’è la repressione delle libertà individuali e in particolare di quella di espressione di cui hanno fatto le spese molti intellettuali cubani. Tutti i giornali della destra, nei giorni della morte di Fidel, hanno focalizzato l’obbiettivo su questi dati incontrovertibili. Peraltro non molto lontani dagli stessi crimini commessi dal generale egiziano Abd al-Fattah al-Sisi in soli tre anni e mezzo da quando prese il potere nel luglio del 2013 con un golpe militare (e un golpe si differenzia da una rivoluzione, perché questa ha bisogno dell’appoggio della popolazione o di buona parte di essa). Ma sui crimini di al-Sisi la destra e anche la sinistra (ricorderete la dichiarazione di Matteo Renzi che lo definiva “un grande statista”) non ha mai alzato un laio se non per il caso di Giulio Regeni che è solo uno dei circa 2.500 desaparecidos nell’era al-Sisi. Ma, si sa, l’Egitto è un alleato degli americani, come americano fu il sostegno al dittatore Pinochet e ai tanti altri dittatori sudamericani che gli tornavan comodi.

E’ stata poi pudicamente sottaciuta la situazione di Cuba prima che la Revoluciòn spazzasse via il regime di Fulgencio Batista che non era meno sanguinario di quanto lo sarà poi quello di Castro e che aveva fatto di Cuba un bordello e un Grande Casinò ad uso dei ricchi statunitensi. E allora si capisce facilmente perché poche centinaia di castristi siano riusciti a rovesciare in poco tempo il regime di Batista per ridare all’isola e ai suoi abitanti la propria identità.

Pochissimo invece si è parlato in questi giorni di Ernesto Che Guevara, il ‘numero due’ della rivoluzione cubana e il primo sul campo di battaglia. Di questo medico argentino, malato di asma che andò a Cuba per combattere per una causa non sua e poi, dopo pochissimi anni di potere come ministro dell’Industria e dell’Economia, vista l’aria che tirava nonostante qualche primo successo sul piano sociale che poi Castro rafforzerà con grande fatica a causa dell’embargo americano imposto all’isola ma grazie anche all’appoggio dell’Unione Sovietica, andrà a combattere in Bolivia per un’altra causa non sua e vi troverà, nel 1967, la morte in battaglia.

Il mito di Guevara è stato negli anni altalenante. Per quel che mi riguarda la prima volta che seppi di Guevara fu nel ’57 o nel ’58, non ricordo bene. A quell’epoca Guevara non era ancora un mito della sinistra tanto che il mio ‘incontro’ con il “Che” avvenne sulle pagine di Gente, il settimanale di Edilio Rusconi che di tutto poteva essere sospettato tranne che di pruriti rivoluzionari. Si trattava di un servizio fotografico. Mi ricordo in particolare un’immagine di Guevara a torso nudo sdraiato mollemente su un fianco sopra un lettino da campo. La mia fantasia di adolescente fu colpita dalla straordinaria bellezza dell’uomo. Nelle didascalie si rifaceva la storia di questo rivoluzionario che combatteva per l’ideale marxista dell’internazionalismo proletario. Il settimanale di Rusconi gli dimostrava simpatia. Lo interpretava infatti come un eroe romantico, un “cavaliere dell’ideale” in fondo innocuo. In quegli anni il mondo non era ancora completamente integrato, ‘globale’, come oggi. E quello che avveniva nella lontana Cuba poteva essere considerato con un certo distacco dai conservatori di casa nostra. Inoltre la contestazione giovanile era di là da venire.

Il ’68 cambiò completamente la prospettiva. Guevara, che nel frattempo era andato a morire in Bolivia, divenne il simbolo stesso della rivoluzione. Più di Lenin, più di Mao, più di Stalin, Ernesto Guevara, diventato definitivamente il “Che”, fu il mito del Sessantotto, almeno nella sua componente libertaria. Guevara invece piaceva molto meno ai comunisti ortodossi di casa nostra. I comunisti rimproveravano a Guevara una certa vaghezza ideologica (mi ricordo in proposito degli sprezzanti giudizi di Giorgio Amendola) e, soprattutto, il fatto che avesse abbandonato un potere che aveva appena conquistato. Al positivismo marxista la romantica rinuncia di Guevara pareva inconcepibile, blasfema, un segno di debolezza di carattere. Senza contare poi che Guevara, con il suo passare da una rivoluzione all’altra (ne aveva tentata una anche in Guatemala) sembrava incarnare troppo da vicino quella “rivoluzione permanente” teorizzata da Trotzky. E Trotzky allora era tabù per i comunisti che, nonostante il rapporto Cruscev del ’56, rimanevano profondamente, intimamente stalinisti.

Nel tempo il mito di Guevara si è andato perdendo a sinistra. I comunisti hanno continuato a guardarlo, e non a torto dal loro punto di vista, con diffidenza. I contestatori invecchiati, inseritisi nel frattempo nel sistema e diventati manager, imprenditori, direttori di giornali, radical chic, lo hanno relegato fra le loro debolezze giovanili.

Nel ventennale della sua morte Guevara fu oggetto di un inaspettato revival da parte della destra o, per meglio dire, della ‘nuova destra’. Inaspettato, ma non ingiustificato. Solo in superficie infatti Guevara è un uomo di sinistra. In realtà, col suo ardore per l’azione, è un dannunziano, un bayroniano, un esteta, un Oscar Wilde delle armi, un dandy della rivoluzione. E’ stato l’ultima incarnazione del mito dell’eroe romantico.

Oggi Guevara, a parte le sciocchezze dei gadget, è un uomo quasi dimenticato, tanto che proprio in questi giorni di celebrazioni o demonizzazioni di Castro e della Revoluciòn è stato ricordato solo di sfuggita. Ma per noi, che fummo anarchici e libertari nella nostra adolescenza, e lo rimaniamo, il “Che” è un mito che non rinneghiamo. Perché fosse di sinistra o di destra, o tutte e due le cose, o nessuna, il “Che” rimane un esempio, pressoché unico nel mondo moderno, dominato dal cinismo, dal realismo, dalla forza del denaro, di un uomo che non solo ha combattuto il potere ma lo ha disprezzato al punto tale da abbandonarlo per inseguire, pagando con la vita, nient’altro che un sogno.

Per questo in questi giorni preferiamo ricordare la rivoluzione cubana non nel nome di Castro ma nel nome del “Che”. “Hasta la vista, hasta siempre, comandante Che Guevara”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2016

 

 

 

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La decisione della regione Emilia-Romagna di non ammettere agli asili nido i bambini che non siano stati vaccinati contro la poliomielite, la difterite, l’epatite B, il tetano ha suscitato qualche polemica ma in linea di massima è stata accolta in senso favorevole e una analoga norma dovrebbe essere presto adottata dalla regione Lazio.

Qui sono in contrasto due diritti: quello di libertà garantito dalla Costituzione all’articolo 32 che recita “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e quello della difesa della salute pubblica. Per aggirare l’articolo 32 la regione Emilia-Romagna ha adottato un escamotage intelligente: non impone ai genitori (che sono i titolari del diritto di libertà richiamato dalla norma costituzionale) di vaccinare i loro bambini ma li esclude dalla frequentazione dell’asilo nido. Perché dico che si tratta di un escamotage? Perché per imporre la vaccinazione occorrerebbe, come dice l’articolo 32, una legge che non può che essere nazionale. E’ quindi una decisione di buonsenso, in attesa che arrivi questa legge. La decisione della regione Emilia-Romagna riguarda infatti sostanzialmente malattie infettive che possono essere trasmesse ad altri soggetti. Se io non ho una malattia infettiva, poniamo un tumore, non posso essere obbligato a seguire le cure che mi consigliano, e certe volte cercano di impormi, i medici. Quando al cantautore francese Jacques Brel fu diagnosticato un tumore, girò il culo, salì sulla sua barca a vela, girò per due anni sui mari e morì nel modo che lui riteneva più degno. Quando Claudio Villa schiacciando sul pedale della sua moto fu colpito da infarto, ricoverato, intubato, monitorizzato, si strappò tutti quegli aggeggi riscattando con questa morte, che oserei chiamare eroica, quarant’anni di canzoni insopportabili (‘Binario triste e solitario’, ‘Mamma’ e via cantando).

Del tutto diverso è il discorso per le malattie infettive. Non a caso in antiquo le navi che portavano a bordo una persona infetta inalberavano la bandiera gialla. Niente da dire quindi sull’obbligo della vaccinazione per malattie che oltre a essere infettive sono particolarmente pericolose e spesso mortali per chi le contrae. La mia infanzia, la mia adolescenza furono turbate da quest’incubo della poliomielite cui le nostre madri cercavano di proteggerci con metodi empirici e sicuramente inefficaci come delle collane da cui pendeva un medaglione di canfora. Mi ricordo che una notte mi svegliai e scendendo dal letto non riuscivo a camminare. Non era la malattia ma il terrore ad avermi paralizzato (nella fantasia di noi bambini la ‘polio’ faceva molta più paura della morte perché portava alla paralisi. La felicità di un bambino è correre). Nel 1966 la vaccinazione antipolio secondo il metodo Sabin fu adottata anche in Italia e da allora questa terribile malattia è scomparsa dal nostro mondo.

Ho qualche dubbio invece sulle vaccinazioni a tappeto per le malattie infettive ma non particolarmente pericolose, come quelle esantematiche (il morbillo, la varicella) o per altre di tipo leggero come la pertosse detta ai miei tempi ‘tosse asinina’. Ai miei tempi pleistocenici a volte le mamme avvicinavano apposta il loro figlioletto sano a uno ammalato di morbillo perché se lo prendesse, era una specie di autoimmunizzazione ‘fai da te’. E la mia perplessità nasce proprio da qui, che a furia di proteggerci da tutto si indeboliscano le nostre difese immunitarie complessive. Quando ero ragazzino, d’inverno io uscivo scamiciato e non mi sono mai preso un’influenza. La madre dei quattro figli di Giovanni Mosca (il famoso vignettista e umorista) che abitavano due piani sotto di me, li faceva uscire imbacuccati fino all’inverosimile e si beccavano quattro influenze a stagione.

Quindi, come sempre, come in tutte le cose della vita, è una questione di equilibrio. Benissimo perciò la decisione della regione Emilia-Romagna, ma non portiamo le cose troppo oltre, non pretendiamo l’immunità da tutto. Perché non esiste e può portare a effetti paradossi.

Nel contempo un dossier dell’Agenzia dell’Unione Europea ci informa che lo smog uccide, in Europa, 467 mila persone all’anno, infinitamente di più di quante potrebbe farne qualsiasi epidemia di morbillo, di varicella, di pertosse e anche di meningite. Questa è una delle grandi emergenze dell’epoca moderna in materia di salute, e anche di qualità della vita, ma gli Stati fanno solo finta di occuparsene. Perché se lo facessero seriamente disturberebbero il ‘Grande Manovratore’ alias quell’economia industriale che tutti ci stressa e molto spesso, dati alla mano, ci fa ammalare e morire.

Massimo Fini

Il Fato Quotidiano, 26 novembre 2016

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La Scienza, nel suo inesausto tentativo di spazzar via dalla nostra vita tutto ciò che è umano, sta preparando altri piatti tanto appetitosi quanto avvelenati. Al lettore non sarà certamente sfuggito (sul Fatto ne ha parlato Caterina Soffici) il caso della ragazzina londinese di quattordici anni che si è fatta ibernare nella speranza di poter un giorno risuscitare attraverso la tecnica chiamata della criogenesi. Ma non è la sola, negli Stati Uniti ci sono già 200 persone criogenicamente ibernate e duemila in attesa di poter accedere a questa pratica.

Si è parlato di costi, di profitti, di truffe nell’alimentare speranze illusorie. Ma il tema è assai più profondo. La nostra è la prima società che rifiuta la morte, la morte biologica, s’intende, che è inevitabile, da quella violenta si può sempre sperare di scapolarsela. La verità è che nella nostra società la morte è stata scomunicata, interdetta, proibita, dichiarata pornografica. La morte è diventata il Grande Tabù, “il Vizio che non osa dire il suo nome” (altro che la pederastia di vittoriana memoria) tanto che non si osa chiamarla col suo nome nemmeno là dove parrebbe inevitabile. Basta leggere i necrologi: “la scomparsa”, “la perdita”, “la dipartita”, “si è spento”, “ci ha lasciati”, “è mancato all’affetto dei suoi cari”, “i parenti piangono”, “è terminata la giornata terrena” c’è di tutto tranne la parola morte ad indicare ciò che è realmente avvenuto (quando morì mio padre il necrologio fu affidato, non so perché dato che ero il più giovane della famiglia, a me e io ribellandomi a queste ipocrisie scrissi: “è morto Tal dei Tali”).

Tutti questi interdetti e scomuniche significano una cosa sola: una paura della morte sconosciuta, in ugual misura, nelle società che ci hanno preceduto. E come diceva il vecchio e saggio Epicuro “muore mille volte chi ha paura della morte”.

Nella società agricola, premoderna, l’uomo viveva in intimo contatto con la Natura e, attraverso il ciclo seme-pianta-seme, era consapevole che la morte non è solo la conclusione inevitabile della vita, ma ne è la precondizione. Sapeva che non c’è la vita senza la morte. Sentiva di far parte di un tutto, di un destino più ampio, della sua famiglia, della comunità, della specie, della natura stessa, in cui la sua vita e la sua morte si scioglievano nell’eterno gioco del passaggio di testimone fra generazioni, fra i vecchi e i giovani. E quindi, anche se a nessuno è mai piaciuto morire, accettava, insieme alla vecchiaia (altro tabù contemporaneo), questo nucleo tragico dell’esistenza come lo chiamavano i filosofi quando esistevano ancora.

Ma questi motivi che consentivano all’uomo di ieri di accettare la morte con una certa serenità, sono, capovolti, gli stessi che lo impediscono a noi. Noi viviamo lontani dalla Natura, a contatto con oggetti che non si riproducono ma semmai si sostituiscono, e alla cui sorte ci sentiamo sinistramente omologhi, abbiamo perso il senso di un destino collettivo e quindi sentiamo la nostra morte come un evento radicale, definitivo, assoluto, esclusivamente individuale e quindi totalmente inaccettabile.

Ma poniamo che i nuovi Frankenstein realizzino il loro obbiettivo. Ciò avverrebbe gradualmente. All’inizio ci sarebbero alcune centinaia di individui ‘resuscitati’, poniamo, dopo qualche decennio. Come ha notato anche il padre della sfortunata ragazza si troverebbero in un totale spaesamento, a fianco di figli lasciati bambini e ora ottantenni. Ma andiamo ancora avanti in questo delirio seguendo il mito dell’immortalità (almeno le religioni, un po’ più sapienti, l’avevano pensata metafisica, noi la pretendiamo fisica) e che gli scienziati completino la loro opera per tutti. Alla fine, se non altro per mancanza di spazio, non ci sarebbe più alcun rinnovo. Ci troveremmo di fronte ad una umanità pietrificata. E quindi, paradossalmente, l’immortalità porterebbe alla morte.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2016