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A mio parere è stata molto sottovalutata, e irresponsabilmente sottovalutata, la larvata minaccia di Putin di un possibile, anche se teorico, uso dell’Atomica (“Spero che non servirà mai” afferma Putin, il che vuol dire che prima o poi potrebbe anche servire). La sola minaccia è già in sé un fatto gravissimo. E’ la prima volta dall’epoca della crisi dei missili a Cuba, del 1962, che si agita la minaccia di una guerra nucleare. La dichiarazione di Putin legittima anche tutte le altre potenze nucleari, Stati Uniti, Israele, Cina, Pakistan, Corea del Nord (che però di Bombe ne ha solo due, mentre gli altri a migliaia) a utilizzare un’uguale minaccia. Inoltre indurrebbe tutte le altre Potenze, che possono farlo (Iran in testa) a dotarsi della Bomba.

Queste cose si sa dove cominciano ma non si sa dove possono andare a finire. La situazione, dal punto di vista psicologico, non è diversa da quella di due persone che litigano. Prima A insulta B, B risponde con un’ingiuria ancora più pesante, A tira fuori il coltello, B la pistola. Immaginiamo che Putin, anche se lo ha escluso, ma in modo molto ambiguo, getti realmente la Bomba sul Califfato visto che finora non si è riusciti a sconfiggerlo. Ciò vorrebbe dire la morte di tutti coloro che vi abitano, guerriglieri, civili, prigionieri. Ma le radiazioni atomiche non rispettano i confini e si riverserebbero su tutta l’area circostante e anche oltre raggiungendo probabilmente la stessa Russia (le radiazioni prodotte dall’esplosione della centrale nucleare di Cernobyl arrivarono fino in Italia dove hanno provocato, sia pur a distanza di anni, morti per cancro). Fantascienza? Fino ad un certo punto. I reggitori del mondo hanno un cervello diverso da quello di noi comuni mortali. In un bel servizio di Rai Storia, curato da Paolo Mieli, si sente il celebrato John Kennedy, ai tempi della crisi di Cuba, dire a un suo collaboratore: “Fra poche ore potrei essere costretto a schiacciare un pulsante uccidendo un miliardo e 200 milioni di persone”. Bruscolini. Pazzo non era solo Hitler, pazzi erano tutti coloro che al massimo livello dei loro Paesi ci gettarono in una guerra mondiale che costò 50 milioni di morti. L’unica, magra, consolazione è che in una guerra nucleare, a differenza di quella cosiddetta convenzionale, non si salverebbero nemmeno i leader ed è forse solo questo che li inibisce dallo schiacciare il famoso pulsante. Questi soggetti lombrosiani dovrebbero essere eliminati dalle loro stesse popolazioni invece di legittimarli con il loro consenso, democratico o meno che sia. A questo punto non dico che preferisco l’Isis (Al Baghdadi non è meno pazzo, anche se la Bomba non ce l’ha) dico che preferisco i nostri mediocri, corrotti, lestofanti governanti italiani che perlomeno sono degli uomini normali. Anche se, naturalmente, sarebbero del tutto impotenti a fermarla se si dovesse scatenare l’Apocalisse.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2015

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Vamos a la playa, oh oh oh oh oh/Vamos a la playa, oh oh oh oh oh/Vamos a la playa, oh oh oh oh oh/Vamos a la playa oh oh/ Vamos a la playa/la bomba estallò/bagliori nucleari/ci abbronzano di più./…/Vamos a la playa/tra statue di robot/legioni di mutanti/combattono sui surf/…/Vamos a la playa/la nuova onda è là/con pizze radioattive/ci si alimenterà/Vamos a la playa, oh oh oh oh oh/Vamos a la playa, oh oh oh oh oh/V  amos a la playa,oh oh oh oh oh/Vamos a la playa, oh oh oh oh oh/Vamos a la playa oh”.

Già nel 1983 i Righeira, noti intellettuali, avevano capito dove si sarebbe andati a parare. Adesso fra i capi di Stato riuniti a Parigi è tutto un grido dall’allarme. Obama: “Siamo l’ultima speranza per le generazioni future”. Hollande: “Prenderemo in qualche giorno decisioni che avranno conseguenze per decenni, in gioco c’è l’avvenire del mondo”. Juncker: “Non potremo dire alle generazioni future che non sapevamo”. Parole, parole, parole, scritte sulla sabbia (radioattiva) non tanto perché dal Summit di Parigi si uscirà solo con accordi non vincolanti sottoposti a ‘sanzioni morali’( figuriamoci) ma perché per ridurre l’inquinamento bisognerebbe scaravoltare l’intero modello di sviluppo. Secondo una valutazione della UE gli ossidi di azoto derivano per il 39% dal traffico, per il 18% dalla produzione di energia e per il 15% dall’industria. Ma come si fa a ridurli se quelli stessi che si strappano le vesti vogliono contemporaneamente più energia, più industria, più produzione di automobili, più produzione di tutto? Insomma più crescita. Sanno benissimo che diminuzione dell’inquinamento e crescita sono inconciliabili. Se fossero più onesti intellettualmente e anche un po’ più colti invece che piangere lacrime di coccodrillo sul ‘futuro delle generazioni future’ direbbero cinicamente, con Oscar Wild, “che cosa hanno fatto i posteri per noi?”. Purtroppo siamo andati così veloci con questa bulimia della produzione e della crescita che siamo diventati posteri di noi stessi. E quindi il problema si pone qui e ora ed è frutto di una galoppata forsennata di un modello di sviluppo che, per sua coerenza interna, non può tornare indietro, non può fermarsi ma, al contrario, deve aumentare di continuo la propria velocità. E poiché l’Occidente segue questo modello da due secoli e mezzo, dall’inizio della rivoluzione industriale, e non ha fatto altro che incalzare tutti gli altri Paesi (non a caso chiamati ‘in via di sviluppo’) a seguirlo su questa strada suicida chi glielo va a dire adesso a quelli che non devono svilupparsi più? Ha affermato il premier indiano: “I Paesi emergenti non possono rinunciare alle energie fossili e frenare il loro sviluppo per riparare ai danni fatti in due secoli dai Paesi più avanzati”. Più o meno è la stessa risposta che diedero i brasiliani che qualche decennio fa stavano deforestando, come continuano a deforestare, l’Amazzonia il più grande polmone del mondo: “Scusate, che cosa avete fatto voi fino adesso?”. Peraltro scrive il grande storico italiano Carlo Maria Cipolla: “Il carbon fossile fu in uso già nel Medioevo, ma la gente del Medioevo era molto sospettosa di questo tipo di combustibile vagamente ma decisamente intuendo che l’uso di esso implicava conseguenze nocive per l’ambiente. Sotto molti rispetti, la gente del Medioevo, pur nella sua ignorante superstizione, fu molto più cosciente dei possibili danni dell’inquinamento che la gente dell’epoca della rivoluzione industriale”. An vedi quelli zoticoni, ignoranti e reazionari dei contadini?

Siamo stati anche così idioti da indurre la Cina, un miliardo e 400.000.000 di abitanti, a entrare nel sistema. Come si poteva rinunciare a un mercato così ghiotto? E così oggi la Cina è il più grande inquinatore del mondo con il 30% delle emissioni globali, seguita dagli Stati Uniti (16%) col piccolo particolare che hanno un quinto della popolazione cinese. E sono patetici i tentativi dei leader africani, peraltro i meno responsabili, di creare un ‘muro verde’ per arrestare il prosciugamento del lago Ciad e l’ulteriore desertificazione del Sahel. Che è dovuta esattamente al fatto che gli abitanti di quelle terre, sempre incalzati da noi o anche attratti dal nostro modello, si inurbano nelle città. In ogni caso tentativi encomiabili, come il ‘muro verde’ o altre del genere, hanno lo stesso effetto, nella globalizzazione del modello, di chi mentre la barca sta affondando per una falla enorme nella stiva crede di rimediare mettendo un dito in un buco delle fiancate.

Alcune correnti di pensiero proprio americane (gli Stati Uniti essendo la punta di lancia del modello sono anche i primi a produrre, almeno concettualmente, gli anticorpi) il Bioregionalismo e il Neocomunitarismo affermano che bisognerebbe tornare “in modo graduale, limitato e ragionato a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano per il recupero della terra e il ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario”. Ma ve lo immaginate un leader mondiale che osi affermare una cosa del genere? Sarebbe preso a bastonate.

Comunque, niente paura. L’uomo, dopo il topo, i lombrichi, gli scarafaggi, le zanzare e altri simpatici insetti è una delle creature più adattabili. E quindi, come prevedevano i Righeira, ci nutriremo di pizze radioattive e faremo la doccia con una pioggia di polveri sottili.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2015

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Intervista per Il Giornale.it

“Guardando in questa direzione un tempo vedevo le alpi, ora solo grattacieli. Mi manca la mia vecchia Milano”. Dalla sua casa foderata di libri Massimo Fini guarda fuori dalla finestra verso l’orizzonte e, con un bicchiere di vino rosso in mano e una sigaretta tra le labbra, riflette e tenta di tirare un bilancio sulla propria vita. Una vita passata tra inchieste, ricerche, libri e avventure, fatta di scoperte e provocazioni che lo hanno reso una delle penne più controverse e dibattute del giornalismo italiano degli ultimi decenni. Da qualche mese, però, Fini ha abbandonato il lavoro giornalistico e, senza volerlo o richiederlo, si sta dedicando a ricevere i premi che il mondo politico e culturale nazionale gli stanno elargendo. L’ultimo in ordine di tempo, e forse il più prestigioso, è l’Ambrogino d’oro, la massima onorificenza concessagli dal Comune di Milano su richiesta dei consiglieri Igor Iezzi e Luca Lepore e del consigliere di zona Vincenzo Sofo. “Abbiamo proposto Massimo Fini come candidato all’Ambrogino d’oro perché è una figura intellettuale non conforme e per questo sempre tenuta ai margini dal mondo istituzionale, le cui idee meritano però di essere ascoltate dagli amministratori di Milano, una città che in pochi conoscono e capiscono profondamente come lui” spiega Sofo. “Quella di cui lui parla è una Milano che non sia un semplice contenitore di persone, ma una comunità fondata sulle diverse identità dei quartieri, una città più umana e a misura d’uomo, ciò che in fin dei conti ogni milanese sogna ma non sa come realizzare. E Massimo Fini è la persona ideale per spiegarlo”. Una Milano diversa da quella odierna, amata e sognata da molti cittadini. Questo è almeno quello che pensano diversi esponenti politici, che per questo ascoltano Fini avere degli spunti su cosa proporre al proprio elettorato. Se i suoi consigli trovassero applicazione politica la città probabilmente cambierebbe anima nel giro di poco tempo, tornando ad assomigliare alla vecchia Milano che lui tanto ama.

Dottor Fini, il Comune ha deciso di concederle l’Ambrogino d’oro, la massima onorificenza cittadina. Dopo una vita passata in questa città, qual è il suo ricordo più bello legato ad essa?

E’ il ricordo di una Milano vissuta da persone più semplici ed ottimiste. La Milano del dopoguerra in cui sono cresciuto, una città rasa al suolo dalle bombe americane in cui però le persone avevano un’allegria e una fiducia nel futuro oggi inimmaginabile. I milanesi di allora erano semplicemente grati di non essere morti sotto le bombe e avevano imparato a stare bene con cose semplici e soprattutto sapevano essere comunità. In ogni quartiere c’era un controllo sociale spontaneo del territorio, una solidarietà genuina che ci portava spesso a fare a cazzotti per difendere i più deboli e non per umiliarli come troppo spesso avviene oggi. Anche nel confronto fisico c’erano delle regole non scritte che nessuno si sarebbe mai sognato di violare, per esempio quando durante una rissa qualcuno cadeva a terra non lo si poteva più toccare. Era una città fatta di tante comunità di quartiere che mantenevano però tutte una milanesità che ci accomunava.

E’ nella Milano di quegli anni che fiorisce un fenomeno di cui Lei si occuperà giornalisticamente per decenni: quello della malavita.

Sì, Milano era ricca di esponenti della vecchia mala milanese, la Ligera. Vallanzasca è stato l’ultimo di loro, dopo di lui tutto è cambiato. Io sono stato accusato più volte di giustificare o minimizzare la sua banda. Nulla di più falso. I criminali sono criminali e ciò va riconosciuto. Quello che faccio è semmai di paragonare la mala di allora con la criminalità di oggi. In quella di allora vigeva un senso di lealtà che era lo specchio malato di una società ottocentesca che oggi non esiste più. In una società senza dignità ed onore come quella odierna, invece, si crea una malavita anche lei senza dignità ed onore. Questo cambiamento lo hanno vissuto non solo le bande milanesi, ma anche la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che vivono anche loro a Milano ma non si fanno vedere se non nel loro aspetto finanziario e rispettabile, che è quello che io più respingo.

Ci spieghi come sia stato possibile che la società italiana e milanese sia mutata così profondamente.

Tutto è cambiato col ’68. Ricordo bene quel periodo. Noi ragazzi eravamo la prima generazione che non era chiamata alla guerra e per questo sentivamo la necessità di un impegno forte, cercavamo una guerra che non c’era. Chi lavorava non aveva tempo per pensarci, ma i figli della borghesia sì e da loro nacque il movimento del ’68, composto da giovani borghesi che cercavano di cacciar via i vecchi borghesi loro genitori. I contatti tra questi sedicenti rivoluzionari e il mondo operaio erano pochi, perché la classe operaia aveva un’etica che non era lamentosa e, per quanto combattesse i padroni, spesso li rispettava se questi lo meritavano. Il lavoro era importante, ma non nevrotico e disumano come viene vissuto oggi. Prima delle contestazioni i padroni erano persone fisiche e umane, non i manager disumani e macchinosi di oggi. Col ‘68 le contrapposizioni vennero estremizzate, venne distrutta la solidarietà tra le persone e fu introdotta una fiducia estremista nella modernità. Da quel momento, per esempio, iniziò a scomparire il dialetto milanese, considerato poco edificante e dequalificante, quando in realtà era un elemento di identità e un linguaggio di comunicazione comune.

Da lì il passaggio agli anni di piombo fu breve.

Come visse Milano quel periodo? Non se ne rendeva conto di viverlo se non quando c’era il morto a terra. Io stesso non me ne accorgevo. Ricordo che la sera prima che venisse assassinato accompagnai a casa sua Walter Tobagi e mai mi sarei aspettato di rivederlo disteso a terra il giorno dopo. Sottovalutammo la pericolosità del fenomeno, perché come non avevamo preso sul serio i ragazzi annoiati del ’68 non prendemmo sul serio quelli che andavano in giro a gridare che “uccidere un fascista non è reato”.

Poi arrivarono gli Anni 80, la Milano da bere e poi ancora il ventennio berlusconiano.

La Milano da bere se la sono bevuta i socialisti che controllavano le televisioni. Negli ultimo 25 anni, poi, la televisione ha cambiato completamente l’immaginario collettivo e soprattutto i canoni femminili.

Un retaggio, quest’ultima cosa, figlia anche lei del ’68. Come ha visto cambiare il modo in cui oggi gli uomini si approcciano alle donne rispetto a come avveniva nella sua Milano?

Oggi il rapporto con l’altro sesso sembra più facile, ma vedo che i giovani hanno molte più difficoltà. La maggior parte delle donne, liberate dalla sobrietà che era loro caratteristica, sono diventate aggressive e spavalde nella proposta sessuale. Ciò spaventa molti maschi, tant’è vero che l’omosessualità aumenta vertiginosamente. Ma non solo. Negli uomini aumenta anche l’ansia, la paura e la passività, mentre diminuisce la loro virilità. Non è un caso, dunque, che quasi tutte le trentenni che conosco lamentino di non riuscire a trovare un compagno alla loro altezza.

La liberalizzazione dei costumi ha dunque introdotto enormi problemi tra i due sessi. Che cosa manca rispetto ad allora nel rapporto tra uomo e donna?

Il corteggiamento e la seduzione. Non bisogna sottovalutare quanto questi due elementi abbiano una potentissima forza erotica. La volontaria ritrosia delle donne nei confronti degli uomini, il linguaggio dei gesti, i primi contatti fisici, il lunghissimo gioco di sguardi e parole erano qualcosa che rendeva eccitante più che mai la fase di corteggiamento e per questo gli uomini erano spesso disposti a non demordere nelle loro avances per lunghissimo tempo. Il pensiero, il sogno, il desiderio e l’idealizzazione della donna che si corteggiava era qualcosa che ci rendeva molto più forti e determinati. Oggi invece l’esibizione sfrenata del nudo femminile fa spegnere la voglia.

L’attesa è dunque qualcosa che rafforza i legami.

Non c’è niente di più emozionante dell’attesa. Chiunque sia stato in una spiaggia di nudisti sa benissimo che il desiderio cresce la sera, quando le donne si rivestono e tu puoi finalmente iniziare a sognare cosa ci sia sotto le loro vesti. Il corteggiamento, poi, è la forma di attesa che stimola maggiormente il desiderio. E’ naturale quindi che in una società in cui le donne si concedono rapidamente cali il desiderio che gli uomini provano per loro.

Ezra Pound scrive nei Cantos: “Ciò che ami davvero rimane, il resto è scorie. Quel che ami davvero non ti verrà strappato. Quel che ami davvero è la tua vera eredità”. Cosa rimane dunque guardandosi indietro e ripensando alle proprie storie passate?

Se le storie sono state forti rimangono dentro di noi. Ogni donna è un mondo a sé e ognuna di loro ti porta dentro di esso, cosa che entra a far parte del percorso di crescita di chiunque abbia avuto diverse compagne. Che per questo non vanno cancellate o dimenticate. Ma al contempo non vanno ricercate o riviste. Rivedere una persona che si ha amato significa dover riconoscere che la passione che tanto ci aveva unito e fatto sognare non esiste più. Significa rovinare il bel ricordo di lei che serbiamo dentro di noi. Come canta De Andrè “l’amore che strappa i capelli è finito ormai”.

Luca Steinmann

Il Giornale.it, 25 novembre 2015