Carlo Tavecchio, neopresidente della Federcalcio, è stato ferocemente osteggiato per essersi lasciato andare a una battuta infelice: aveva definito un giocatore di colore «un mangiatore di banane» (Buon Dio, non si può dire più nulla, il nostro vocabolario, come nel '1984' di Orwell, sarà presto ridotto a una 'neolingua' fatta di eufemismi ridicoli). Però le sue prime proposte di riforma, riduzione della rosa delle squadre a 25 giocatori, almeno 8 devono provenire dal vivaio, non più di due extracomunitari per squadra, sono coerenti e, sia pur puntando su diversi obbiettivi, vanno tutte nella stessa direzione. Il primo obbiettivo, anche se non il più importante, è ridurre i costi delle società, costringendole a costumi più sobri. Il secondo obbiettivo è di cercare di riequilibrare un po' il Campionato impedendo, o perlomeno tentando di impedire, alle solite note di fare razzia di tutti i giocatori più forti. Pochi ricordano che nel dopoguerra, proprio per questo motivo, una squadra non poteva avere in rosa più di 16 giocatori, gli altri doveva pescarli dalla 'Primavera'. Il terzo obbiettivo è di ridare il calcio italiano, almeno in parte, ai giocatori italiani, alla luce anche della figuraccia che abbiamo rimediato agli ultimi Mondiali. E' evidente infatti che se le nostre squadre sono zeppe di stranieri, a volte dei brocchi pescati qua e là solo per dare in pasto al pubblico delle 'novità', per i giovani calciatori italiani non c'è posto, non hanno la possibilità di crescere. C'è stato un periodo in cui il Milan di Berlusconi, antesignano-distruttore anche in questo, aveva come 'terza scelta' Rivaldo, il capitano del Brasile campione del mondo. Eppure avrebbe dovuto insegnare qualcosa, da tempo, la lezione del Barcellona e, con essa, della Spagna che negli ultimi anni hanno dominato il calcio europeo e mondiale. Tutti i più importanti giocatori del Barça, da Iniesta a Xavi a Busquets a Piqué allo stesso Messi che vi è entrato a 14 anni, vengono dalla 'cantera', dal vivaio. Il quarto obbiettivo è il più ambizioso ma è quasi una 'mission impossible'. Cercare di restituire al calcio tutti quei motivi rituali, mitici, simbolici, sentimentali, identitari che per più di un secolo ne hanno fatto la fortuna. Il calcio infatti prima di essere spettacolo, prima di essere gioco, prima di essere sport è un rito. Un rito collettivo e identitario. Come faccio a identificarmi in una squadra se vi giocano undici stranieri, e i calciatori cambiano ogni anno, e spesso all'interno della stessa stagione, con tanti saluti alla regolarità del Campionato, se le maglie, per esigenze degli sponsor, in trasferta non sono quelle tradizionali? Il business l'ha avuta vinta su tutto svuotando il calcio dei suoi contenuti più autentici. Addio al rito della domenica e al subrito della schedina giocata al bar di sabato. Per esigenze televisive si gioca tutta la settimana. Al venerdì c'è l'anticipo di B. Al sabato la B e due anticipi di A. La domenica una partita si gioca a mezzogiorno, altre, le meno importanti, di pomeriggio, la sera c'è il clou. Il lunedì il posticipo di A. Poiché la Coppa dei Campioni non è più la Coppa dei Campioni (un tempo vi partecipavano solo le squadre che avevano vinto i rispettivi campionati nazionali con eliminazioni secche in partite di andata e ritorno) ma è diventata la pletorica Champions League a gironi, si gioca praticamente ogni martedì e mercoledì. Il giovedì c'è la comica Europa League. Senza contare la Coppa Italia, la Coppa dei vincitori di Coppa, le Coppe intercontinentali.
Qualche anno fa, in una domenica canicolare di giugno, ci fu a Milano, davanti alla sede della FIGC, una civilissima manifestazione degli svilaneggiatissimi ultras, in rappresentanza di 68 società, al grido di «Ridateci il calcio di una volta!». Ma quel calcio non tornerà più. Perché morirà prima. Di overdose.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 19 settembre 2014
Testo integrale dell'articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano il 13 settembre 2014 e tagliato per motivi di spazio.
Il Fatto ha pubblicato un'interessante lettera inviata a Barack Obama dall'ex avvocato di Saddam Hussein, Badie Arif: «Nella mia lettera a Vostra Eccellenza quattro anni fa vi avevo avvertito che al-Qaeda e i gruppi islamici sarebbero diventati la seconda potenza in questo mondo afflitto da crimini catastrofici. Le ingiustizie che sta perpetrando porteranno centinaia di migliaia o anche milioni a unirsi sotto la bandiera dei gruppi salafiti e i gruppi islamici emergeranno. Non sarà possibile resistere a questi gruppi armati. Questi gruppi arriveranno fino alla porta della sua casa e potrebbero rapire membri della sua famiglia e prenderli in ostaggio. Fino a quando saranno commesse ingiustizie le cose andranno in questa direzione». Non so a quali ingiustizie si riferisce l'avvocato Arif, se all'aggressione all'Afghanistan talebano del 2001, l'aggressione all'Iraq del 2003, l'aggressione alla Somalia islamica del 2006/2007, l'aggressione alla Libia del 2011, certamente ce n'è una molto più attuale ed è l'intromissione degli americani e di alcuni Paesi occidentali nella guerra civile in corso in Siria-Iraq non si capisce a che titolo e con quale diritto, cercando di sottrarre ai combattenti dell'Isis una vittoria che si stavano conquistando legittimamente, anche se ferocemente.
Se gli occidentali continueranno a intromettersi in un'area che non è, almeno dal punto di vista giuridico, assolutamente di loro competenza è inevitabile, come dice l'avvocato Arif, che i guerriglieri dell'Isis portino la guerra in Occidente (se tu vieni, arbitrariamente, in casa mia, io vengo a casa tua). E lo faranno con le armi che, contro eserciti superarmati, hanno a disposizione: il terrorismo e i kamikaze. Il ministro dell'Interno, Alfano, ha giustamente avvertito che l'Italia è uno dei primi Paesi nel mirino. Non per l'immigrazione 'boat people' dei poveracci, come sostiene il razzista Feltri, ma per ragioni molto più valide. Non solo perché Matteo Renzi, unico premier europeo, è andato a fare il bulletto a Erbil confondendo la guerra con una zuffa fra le lavandaie di San Frediano (del resto la lavandaia è lui), non solo perché l'Italia manda armi, sia pur spuntate, ai nemici dell'Isis, non solo perché, come sempre serva fedele, anche se sleale, degli americani si è arruolata in quella congrega mondiale che, secondo Obama, dovrebbe «distruggere» il Califfato, ma per una ragione di cui essa stessa è causa o quantomeno compartecipe. Nel 1999 gli americani, senza copertura dell'Onu, senza alcuna legittimazione internazionale, aggredirono la Serbia di Milosevic per la questione del Kosovo. C'erano due ragioni a confronto: quella degli indipendentisti albanesi, diventati col tempo maggioranza, e quella della Serbia a difendere l'integrità dei propri confini nazionali e una terra, appunto il Kosovo, che ritengono essere, per ragioni storiche risalenti a cinque secoli fa, «la culla della patria serba» (ma Barbara Spinelli, sulla Stampa, irrise a queste ragioni storiche, senza rendersi conto che ha sempre difeso Israele anche sulla base di ragioni altrettanto storiche, anzi quasi pre-storiche, risalenti a migliaia di anni fa). Che c'entravano gli americani col Kosovo? Non sapevano neanche dove fosse. Fatto sta che gli Usa, con la complicità dell'Italia nella poco nobile parte del 'palo' (gli aerei partivano da Aviano), bombardarono per 72 giorni una grande capitale Europea come Belgrado (che è come bombardare Milano).
L'intenzione degli Stati Uniti era di creare un cuneo di musulmanesimo 'moderato' nei Balcani (Albania+Bosnia+Kosovo) a favore del loro grande alleato nella regione, la Turchia. Purtroppo all'interno di quel musulmanesimo 'moderato' sono cresciute delle cellule di islamismo radicale. Che non stanno in Iraq o in Siria ma al di là dell'Adriatico e che ci possono colpire in ogni momento. Qualche anno fa a Ballarò, presente d'Alema, dissi: «Mi perdoni, presidente, ma quella alla Serbia è stata una guerra cogliona». D'Alema non replicò. Ma io non ho mai più messo piede a Ballarò.
Massimo Fini
Molti cittadini europei, soprattutto inglesi e francesi, ma anche tedeschi e persino italiani, vanno in Iraq e in Siria a battersi con l'Isis. Per lo più si tratta di immigrati di seconda generazione, con genitori musulmani. Ma ci sono anche occidentali che si sono convertiti all'islam. Tutti sono giovani o giovanissimi. A mio parere questa voglia di battersi a fianco dell'islamismo più radicale a solo in parte motivazioni religiose. E spesso non ne ha nemmeno di sociali. Parecchi di coloro che vanno a combattere hanno posizioni di buon livello, sono ingegneri, dirigenti d'azienda, funzionari di banca. E' che la vita in una democrazia è percepita, dai giovani, come mortalmente noiosa, un'esistenza che corre monotona, senza brividi, senza troppi rischi che non siano quelli di un incidente in auto o in moto, dalla culla alla tomba. Non è un caso che in questi ultimi anni, lontani ormai dalla seconda guerra mondiale, dallo scontro ideologico fra il cosiddetto 'mondo libero' e quello comunista, che permetteva a chi aveva passione di impegnarsi e anche, a seconda della parte d'Europa in cui si trovava, di mettere in gioco se non la sua vita la comodità della propria esistenza, si siano diffusi, sempre fra i giovani, sport estremi come il 'bungee jumping' o il 'free climbing' e ragazzi intelligenti (perché non tutti sono dei cretini o degli incoscienti) si strafacciano di coca e poi si mettano al volante sapendo, pur con la mente annebbiata dalla droga, i rischi cui vanno incontro. Oserei dire che li cercano. Del resto basta entrare in una discoteca e vederli scatenarsi nel ballo (che da sempre è un'istinto dei neri, molto meno dei bianchi) per capire che a questi giovani manca qualcosa. Noi ragazzini, negli anni Cinquanta, non avevamo bisogno di cercare questi brividi 'extra', ci era sufficente sapere che nei 'terrain vague' in cui giocavamo bastava un nulla per lasciarci la pelle, o quantomeno una gamba, mettendo un piede su qualche ordigno graziosamente lasciatoci in eredità dai bombardieri angloamericani.
Ma se da una parte l'accorrere dei giovani europei fra le file dell'Isis può essere considerato una variante estrema del 'bungee jumping', dall'altra c'è, indubbiamente, anche una questione valoriale. La democrazia è un sistema di regole e procedure. Non è un valore in sè. E' un sacco vuoto che deve essere riempito. Purtroppo la prassi liberal-capitalista (ma lo stesso discorso varrebbe per il comunismo se esistesse ancora) non è stata in grado di colmarlo se non con contenuti quantitativi e materiali. «Non si vive di solo pane» ha detto qualcuno cha ha avuto una certa importanza nella storia del mondo e quando di pane ce n'era molto meno di oggi. Non si può vivere avendo come obbiettivo, come sogno supremo, quello di passare da una Opel Corsa a un'Audi a una Porsche a una Bmw. La Chiesa cattolica, soprattutto durante il papato del troppo osannato Wojtyla Superstar (con Bergoglio vedremo), non è stata capace di intercettare le esigenze di spiritualità che emergevano da un mondo che era diventato interamente materialista. Così molti, in Europa, si sono volti verso le religioni o le filosofie orientali o addirittura, nelle fasce sociali più deboli o ignoranti, alle pratiche dell'occultismo, del satanismo, all'astrologia così lontane dalla sapienza della Chiesa di Paolo. In ogni caso il capitalismo ha provveduto subito a trasformare queste esigenze in 'new age' cioè nel consumo della spiritualità.
L'Isis, l'islamismo radicale e guerriero, offre con i suoi valori, sbagliati o giusti che siano, uno sfogo a queste esigenze di spiritualità oltre a quella di non sprecare una vita basata sul niente, sul nulla. Invece di bombardarlo vigliaccamente, perché non siamo più nemmeno in grado di mandare degli uomini sul campo, ma solo robot che ci sostituiscono, dovremmo capire che la sua forza sta nel nostro vuoto di valori, nella nostra mancanza di coraggio e di dignità. Rileggiamoci Sant'Agostino, uno che le palle ce le aveva: «Che scandalo c'è se in guerra muoiono uomini comunque destinati a morire?».
Massimo Fini
Il Gazzettino, 12 settembre 2014