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“La reazione dei mercati è stata positiva”, “incertezza sui mercati”, “si attendono le reazioni dei mercati”. Quante volte abbiamo sentito o letto tali frasi o altre similari? Ma cosa sono i “mercati”? Chi sono i “mercati”? Che esistano ognun lo dice, dove siano nessun lo sa. In realtà i mercati, come tutte le cose dell’odierno mondo, stanno nell’etere, sono astratti come ciò di cui si occupano: il denaro. Chi lavora col denaro? Sono in genere entità altrettanto astratte, Banche, Fondi di investimento, Compagnie di Assicurazioni o in qualche caso persone fisiche, comunque (entità giuridiche o fisiche che siano) tutta gente che conosce molto bene i complessi meccanismi del denaro e della finanza e ci specula sopra. Questo per una parte, l’altra, il giustamente disprezzato “parco buoi”, è formata da piccoli o medi risparmiatori che entrano in questo grande gioco sperando nel colpo di fortuna e ne escono regolarmente pelati. Tra l’altro il risparmiatore, anche se non si impegna nel gioco della finanza, è il fesso istituzionale del sistema. Perché il risparmio è credito e come dice Vittorio Mathieu enunciando una regola generale: “i debiti alla lunga non vengono pagati”. Perciò i ricchi, che se ne intendono, hanno più debiti che crediti.

C’è un’ovvia differenza fra l’industria e la finanza. L’industria produce cose, oggetti, vestiti e, in campo alimentare, il più essenziale di tutti i beni, il cibo. La finanza non produce nulla, partorisce semplicemente altra finanza, è denaro che partorisce altro denaro, cosa che scandalizzava Aristotele per il quale il denaro essendo inanimato non poteva essere fertile (Politica). La finanza è una semplice “partita di giro” a somma zero. “Nulla si crea e nulla si distrugge”, Lavoisier. Si può star certi che se c’è un rialzo alla borsa di New York altri, in diverse aree del mondo, sta perdendo qualcosa, non necessariamente denaro ma per esempio posti di lavoro. Le Borse vanno in visibilio quando una grande azienda licenzia un migliaio di dipendenti.

La finanza, a differenza dell’industria che ha bisogno di operai, di tecnici, di impiegati, di portieri, non dà nemmeno lavoro. Basta un individuo particolarmente abile con computer veloce e costui schiaccia un pulsante e mette in ginocchio un intero Paese. Intendiamoci, questi trucchetti sul denaro ci sono praticamente da quando esiste il denaro, anche se nel corso dell’evoluzione, chiamiamola così, hanno preso dimensioni un tempo sconosciute. Nel Medioevo il grande mercante pagava le maestranze in moneta povera, sostanzialmente rame, che i poveracci usavano fra di loro (sarebbe stato inutile e assurdo tesaurizzarla) mentre il mercante realizzava sui mercati internazionali in oro e argento. È quanto succede anche oggi nei Paesi sottosviluppati, detti pudicamente “ in via di sviluppo”, dove i locali spendono moneta locale, che non val nulla, mentre i loro datori di lavoro realizzano in dollari, euro, sterline.

Il mercato è onnipresente. Esiste una vera e propria “dittatura dei mercati” di cui si preferisce non parlare o solo bisbigliare, anche se di recente due film, non a caso americani, The Wolf of Wall Street di Scorsese e Panama Papers di Soderbegh hanno affrontato in modo serio la questione. Questa dittatura però è sfuggente perché anonima. Sono finiti i bei tempi in cui il dittatore era un soggetto in carne ed ossa e quindi potevi sempre sperare di sparargli col tuo fucilino a tappo e farlo fuori. Sparare contro “i mercati” è come cercare di colpire un fantasma.

Il mercato è quindi invincibile? Teoricamente no. Al mercato si oppone l’economia di Stato quale è esistita, per fare l’esempio più noto, in Unione Sovietica. Ma l’economia di Stato è infinitamente meno efficiente di quella a libero mercato. Se l’URSS ha perso al “guerra fredda” con l’Occidente non è perché aveva meno atomiche, meno bombardieri, meno carri armati, insomma meno armi, meno popoli arbitrariamente soggiogati, l’ha persa sul piano dell’economia. Un Paese ad economia di Stato circondato da Paesi “liberisti” è spacciato. Dovrebbe essere talmente forte da occupare una buona parte del globo, per questo Trotzki affermava “la Rivoluzione o è permanente o non è”. E infatti non è stata. Gli antichi Imperi fluviali, sostanzialmente collettivisti, comunisti, dov’era prevalente il concetto di “equivalenza” e di una ragionevole redistribuzione della ricchezza fra i sudditi, hanno potuto resistere tremila anni perché così immensi da non temere una concorrenza esterna.

Allora siamo costretti a morire “democratici” (la democrazia è l’involucro legittimante del modello di sviluppo di libero mercato, la colorata carta che ricopre la caramella, cioè la polpa avvelenata del sistema) e “liberisti”? In teoria esiste una terza via, la famosa “terza via”, fra capitalismo e comunismo e si chiama socialismo. Il socialismo non rinnega l’economia di mercato ma gli taglia parecchio le unghie con un forte intervento, in senso equitativo, dello Stato, inoltre coniuga il sistema con le libertà civili che è quanto è estraneo al comunismo ovunque si sia affermato. L’etica di Stato di hegeliana memoria nel socialismo non ha parte. Ma quel poco di socialismo che rimane nel mondo è attaccato da tutte le parti. L’esempio è Nicolás Maduro, definito regolarmente dai media occidentali come “dittatore”. Ora io vorrei sapere in quale dittatura un soggetto che ha tentato un colpo di Stato armato, con l’aiuto degli Americani, come “il giovane e bell’ingegnere” Juan Guaidò, sarebbe a piede libero. Nella democratica Spagna sette indipendentisti  catalani, che non hanno usato la violenza e che avevano qualche buona ragione in più del “bell’ingegnere”, sono in galera da quasi tre anni, il loro leader Carles Puigdemont in esilio. Non importa, Maduro è un “dittatore”, il generale Abdel Fattah al-Sisi che con un colpo di Stato ha decapitato l’intera dirigenza dei Fratelli Musulmani che avevano vinto le prime elezioni libere in Egitto, e assassinato circa 2500 oppositori e altrettanti disperdendone nei “desaparecidos” è, come si espresse Matteo Renzi quando era premier, “un grande uomo di Stato” (io direi: di colpi di Stato).

Allora siamo davvero destinati a morire “liberisti”? No, sarà il sistema stesso a suicidarsi in grande stile. Un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, quando non potrà più crescere collasserà su se stesso. In modo molto rapido. Avete presente le vecchie cassette con le quali fino a qualche anno fa guardavamo i film? Durante il film andavano a ritmo regolare, ma volendo tornare indietro si riavvolgevano a velocità supersonica. E questo, prima o poi, più prima che poi, accadrà. E allora non saremo più “liberisti”, ma finalmente liberi.

Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2020

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Ci piacerebbe sapere a quale altro Stato al mondo, che non sia Israele, sarebbe consentito, senza suscitare reazioni clamorose e indignate, un atto di terrorismo internazionale come quello perpetrato dal Mossad che ha assassinato Fakhrizadeh, il principale responsabile del programma nucleare iraniano. Per la verità l’assassinio di Fakhrizadeh, che è un sequel di altri quattro dello stesso tipo, è di quattro giorni fa ma era stato nascosto nelle pagine interne dei giornali italiani (il Corriere la dava a pagina 20), ma la notizia non ha più potuto essere ignorata, almeno in Italia, da quando l’ambasciata iraniana a Roma si è rivolta al nostro Paese perché condannasse quest’atto che viola ogni norma di diritto internazionale. L’Iran ha scelto l’Italia come interlocutore perché noi col Paese degli Ayatollah abbiamo sempre avuto buoni rapporti, anche economici finché gli Stati Uniti, non si capisce in base a quale diritto, ci hanno inserito in una lista di Paesi  cui è proibito avere traffici con l’Iran.

Che l’attentato dell’altro giorno sia di mano israeliana è fuori discussione. Lo stesso New York Times, che crediamo sia in questo caso al di sopra di ogni sospetto, attraverso tre fonti diverse dell’intelligence ha confermato la matrice israeliana dell’atto terroristico.

Tutta la vicenda del nucleare iraniano sarebbe incomprensibile se non fosse fin troppo comprensibile. L’Iran ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, Israele no e infatti l’Atomica ce l’ha (basta fare un giretto nel deserto nel Negev per vedere le installazioni nucleari di Israele). In base al trattato l’Iran ha sempre accettato le ispezioni dell’Aiea, e queste ispezioni hanno sempre accertato che l’arricchimento dell’uranio iraniano non andava oltre il 3%, cioè era ad usi civili e medici (per l’atomica l’arricchimento deve arrivare al 90%). Qualche ragione di farsi la Bomba l’Iran ce l’avrebbe perché è accerchiato da Paesi nucleari, Pakistan, India e appunto Israele, però, almeno finora, non ha intrapreso questa strada. Cosa vuol fare l’Occidente con queste violenze inaudite? Che l’Iran si convinca realmente a fabbricarsi anch’esso un’Atomica? Mettere in difficoltà i moderati del regime iraniano, il premier Rouhani, a favore dei cosiddetti “falchi” cioè la suprema autorità religiosa Ali Khamenei e i pasdaran? A vederla così l’assassinio di Fakhrazadeh e degli altri scienziati più che una manovra per mettere in difficoltà l’Iran, sembrerebbe un atto autolesionista. A noi però una cosa sembra certa, l’Occidente non può continuare per l’eternità con “i due pesi e le due misure”, Maduro no, al-Sisi sì, Iran comunque colpevole, Israele sempre sugli altari grazie a un ricatto morale che si basa su uno sterminio avvenuto 75 anni fa di cui non furono certo responsabili i Paesi mediorientali, l’Afghanistan talebano invaso perché vi vigeva la legge coranica e l’Arabia Saudita, il Paese più sessista del mondo, invece nostro corteggiato alleato. Un giorno ci scoppierà in mano una bomba, ma non sarà quella atomica.

Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2020

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Una settimana fa The Blank Contemporary Art, un’organizzazione culturale che si occupa da una decina d’anni di arte contemporanea, organizzata da un gruppo di ragazze che adesso vanno per la quarantina, mi ha invitato al loro Festival ArtDate. L’argomento era il dono nelle opere di artisti contemporanei, anche stranieri, io dovevo invece parlare del dono dal punto di vista economico. A causa del Covid il festival per queste ragazze si è risolto in un bagno di sangue, molti artisti stranieri non sono potuti venire e ovviamente mancava il pubblico. Nonostante Bergamo non sia una città attualmente tranquillizzante (ma anche Milano è in “zona rossa”), ci sono andato per gratificare la serietà e lo sforzo di queste ragazze che mi avevano contattato già ai primi di maggio (e poi non datemi del misogino, stronze). Per me, che ero il solo presente fisicamente, c’erano addirittura due allampanate tipe che traducevano per i sordi.

Dunque il dono. Per migliaia di anni, dall’8000 al 3000 avanti Cristo circa, nel periodo paleolitico e poi neolitico, la sola forma accettabile di scambio è stata quella del dono e del controdono. Lo scambio, che era fra tribù, collettivo, non era quasi mai contestuale, avveniva in tempi diversi e non aveva un contenuto economico, né necessariamente il controdono andava alla tribù che l’aveva fatto. Forse nessuno meglio di Marcel Mauss ha spiegato il singolare circuito del dono e del controdono, in Melanesia chiamato kula, che significa circolo, ma abituale in quasi tutti i popoli che si affacciavano sul Pacifico: “Un anno una tribù parte dalla sua isola a bordo di una nave vuota e fa il giro dell’arcipelago tornando carica di doni. L’anno successivo un’altra tribù fa lo stesso giro in senso inverso. E così via. Non necessariamente la tribù dà i suoi doni  a quella da cui li ha in precedenza ricevuti, capita che li dia a una tribù terza, ciò che conta è che questa sia inserita nel giro del kula” (M. Mauss, Teoria generale della magia).

Lo scambio individuale, detto gimwali, è proibito o comunque malvisto perché incrina l’unità e la solidarietà del gruppo che in quelle società è il valore in assoluto primario. In tali società non esiste nemmeno il concetto di economia, perché l’economia nella vita tribale si diluisce, si confonde, si incorpora in una così fitta rete di rapporti sociali, religiosi, magici, interpersonali, di amicizia, che è pressoché impossibile isolarla ed enuclearla dal resto. Poiché il controdono è abitualmente superiore al dono, alcuni economisti classici hanno affermato che in realtà si tratterebbe di un prestito ad interesse. Ed in effetti i pellerossa dicono (o dicevano) che “il dono è un peso che si mette sul gobbo di colui che lo riceve”. Ma si tratta di una questione di onore e di prestigio che nulla ha a che fare con l’economia. Nulla illustra meglio questa concezione di quello straordinario istituto che è il potlach, dove un capo tribù distrugge quanto più può della propria ricchezza proprio per dimostrare la sua potenza (oppure l’intera tribù la sperpera – noi moderni che abbiamo il concetto di investimento diremmo così – in banchetti, feste nunziali o altro genere di gozzoviglie). Bisogna quindi rassegnarsi al fatto che il primitivo non è un homo oeconomicus e che la storia non è una inevitabile ascesa verso il mercato e il denaro i cui presupposti sarebbero stati presenti fin dalle età più antiche.

Col progredire dell’evoluzione, se vogliamo chiamarla così, le tribù e le stesse famiglie si sparpagliano, per cui il circuito del dono e del controdono man mano si disperde. Già Esiodo ne Le opere e i giorni (VIII-VII secolo a.C.), aveva notato un cambiamento essenziale, alla tribù, al clan, dove la solidarietà è implicita perché l’individuo progredisce o perisce con esso, si sostituisce il vicino di cui il poeta ha un giustificato orrore. Perché il vicino lo si aiuta pensando che a sua volta, quando saremo in una qualche difficoltà, aiuterà noi. C’è quindi un calcolo, che se non è ancora propriamente economico  in qualche modo gli assomiglia.

Sorvolando poi questa storia a volo d’uccello, inizia l’era dei grandi Imperi fluviali, mediorientali: Sumeri, Assiri, Babilonesi, Ittiti, Harappa, Egizi. Qui la ricchezza è accumulata nelle mani di un re, imperatore o faraone che sia, di origine divina o egli stesso un dio (sia detto di passata, in Oriente non si è mai concepita la figura di un capo supremo che non avesse origine divina, solo questa origine lo legittimava al comando, un riflesso moderno di questa concezione si ha nel Giappone dove il Mikado è stato un dio fino a quando gli Americani vincitori non lo costrinsero a dedivinizzarsi ) che, attraverso la sua burocrazia, distribuisce la ricchezza ai sudditi. Entra in campo però anche lo scambio individuale che è basato sul concetto di equivalenza. Poiché è diventato ormai in larga misura indispensabile lo scambio individuale, una volta osteggiato, è consentito ed è sottratto al regime faticoso e dispendioso del dono e controdono, ma deve avvenire secondo certe equivalenze prefissate fra bene e bene in modo che non ci sia profitto di una delle parti a scapito e con danno dell’altra. Oppure, se vogliamo vederla da un’altra angolazione, il guadagno deve essere uguale per entrambe. È insomma la condanna del mercante. IlA perché lo spiega bene Aristotele nell’Etica Nicomachea: “L’esistenza stessa dello Stato dipende da questi atti di reciprocità programmata… quando esse venga a mancare non è più possibile alcuna forma di compartecipazione, mentre è proprio tale compartecipazione che ci tiene uniti”. Come sottolinea il filosofo anche qui i valori primari restano l’unità e la solidarietà del gruppo. Questo modo di pensare lo si riscontra ancora in alcuni popoli che chiamiamo “tradizionali”, e che sono stati fra noi fino a epoche recentissime. Per  i Curdi, finché sono esistiti come tali, e gli Hunza, popolo dell’Asia centrale, il furto è punito più dell’omicidio, perché l’omicidio può avvenire in seguito a ira, onore, gelosia, cioè per i tradizionali moti dell’animo che, checché se ne dica oggi, non sono comprimibili, mentre il furto, a meno che non sia compiuto in stato di necessità, allora viene perdonato, incrina la fiducia e la solidarietà del gruppo.

La solidarietà oggi, in epoca di Covid, viene richiamata un po’ da tutte le Autorità proprio perché in epoche di calamità la solidarietà e l’unità di un popolo è particolarmente necessaria. Ma di questa solidarietà in giro, a dispetto di tutti gli altisonanti proclami, se n’è vista pochissima. Ha prevalso la paura reciproca (“noli me tangere”). In quanto agli uomini politici non fan altro che strumentalizzare la situazione per loro fini particolari e addirittura Silvio Berlusconi, il “delinquente naturale” come l’ha definito la Cassazione, si propone come “padre nobile” non solo della destra (chiamiamola in tal modo, anche se così si fa un insulto alla Destra), ma del Paese, proprio in nome di questa solidarietà.

Ribadisco un concetto che mi è proprio e caro: si stava meglio quando si stava peggio. Persino nel paleolitico.

 Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2020