Gentile redazione, in un bellissimo articolo del 20 agosto Massimo Fini tratteggia il presidente Cossiga definendolo " losco" e mette in luce una serie di aneddoti molto interessanti ma poco noti ai non addetti ai lavori. Ne esce fuori un quadro drammatico e inquietante che comunque rispecchia l'idea che mi ero fatto del cosiddetto picconatore. L'articolo termina però con dati riguardanti l'altro presidente Sandro Pertini il più amato dagli italiani che vanno in contrasto con il sentire comune. Potrebbe essere così cortese il giornalista che stimo molto a scrivere un altro articolo sul presidente Pertini tanto per chiarirci le idee?
A.Dessy
Caro Dessy, nel mio libro Il Conformista ci sono tre articoli dedicati al "Presidente più amato dagli italiani", attinga lì se vuole. Le racconto però un episodio che mi riguarda di persona. Nel giugno del 1985 quando Sandro Pertini, quasi novantenne, voleva ricandidarsi per la Presidenza della Repubblica, scrissi per la Domenica del Corriere un articolo intitolato "Il presidente ch'io vorrei" che era un identikit in controluce di un Presidente totalmente all'opposto di Pertini. Pertini, infuriato, telefonò al direttore della Domenica del Corriere Pierluigi Magnaschi. Pierluigi, come si fa in questi frangenti, cercò di traccheggiare dicendo che quella era solo la mia opinione personale ma che il giornale gli rinnovava tutta la sua stima. "Non faccia il furbo con me, disse Pertini, perché io sono amico del suo padrone" intendendo Gianni Agnelli. Il giorno dopo si presentò da Magnaschi un funzionario della casa editrice nella persona di Lamberto Sechi, il mitico direttore di Panorama, che gli disse che se non ci occupavamo più di Pertini era meglio. Un mese dopo Magnaschi, che durante la sua direzione aveva salvato l'agonizzante Domenica del Corriere, fu licenziato e, naturalmente, io persi quella collaborazione. Questo era "il Presidente democratico". C'è un'aggiunta quasi altrettanto divertente. Invitato al Costanzo Show stavo per raccontare quell'aneddoto ma dopo poche parole Maurizio, che non è cattivo ma è certamente l'uomo più vile d'Italia, mi tappo la bocca. Così van le cose nel Granducato di Curlandia.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2020
Domenica sera si è disputata fra Bayern Monaco e Paris St Germain la finale di Champions League, che ha sostituito la vecchia, cara e più onesta Coppa dei Campioni. Nella vecchia Coppa le vincitrici dei rispettivi campionati europei si affrontavano fin dall’inizio con la tradizionale formula secca: andata e ritorno, chi prevaleva passava al turno successivo. Poiché il calcio è imprevedibile, ed è questo il suo bello, poteva capitare che una squadra minore battesse una grande squadra. Così successe, se non ricordo male, col Lugano contro l’Inter, una grande Inter molto diversa da quella di adesso piena di brocchi, a cominciare da quell’equivoco che è Lukaku. Con la formula attuale, a gironi, con quattro squadre e quindi sei partite da giocare, è ovvio che si evitano le sorprese e passano le squadre più titolate. Inoltre quasi sempre le ultime partite, a passaggio turno ormai ottenuto, sono inutili. La trasformazione della vecchia Coppa dei Campioni in Champions è dovuta, come sempre, a motivi economici: con più partite da giocare molti più quattrini, elementare Watson.
Nelle quote dei bookmakers il Bayern era dato nettamente favorito, 1,55, ma sulla carta non c’era poi così grande differenza col Paris, come poi si sarebbe visto sul campo. I tedeschi non hanno vinto tanto per una miglior organizzazione di gioco, che pur c’è stata, ma per una questione di mentalità. E' vero che nella formazione titolare del Bayern i tedeschi propriamente detti non sono molti (Neuer, tornato a essere, con Ter Stegen, il miglior portiere del mondo, il dubbio Boateng, il modesto ma prezioso Sule, l’esterno Kimmich, molto cresciuto negli ultimi anni, Goretzka, Gnabry e l’eterno Muller sopravvissuto ai Ribery e ai Robben) ma chi gioca col Bayern vive a Monaco di Baviera e acquista una ‘forma mentis’ da Bayern cioè tedesca. E i tedeschi hanno sempre battuto i boriosi francesi, come dimostra la Storia di altre e più vere battaglie di cui il calcio è solo una sia pur interessante metafora (la linea Maginot: in due settimane, passando attraverso i Paesi Bassi, Hiltler passeggiava sugli Champs Elysees godendone la bellezza perché, checché se ne dica, non era privo di gusto estetico).
La partita, dal punto di vista tecnico, non è stata bella, ma tesa ed emozionante com’è inevitabile in una finale di Champions. I problemi iniziano con Sky, a cominciare dai telecronisti che non fanno che discettare di schemi, “si sono messi a quattro”, “Tizio è stato spostato a sinistra”, “Caio gioca dieci metri più indietro”, invece di descrivere la partita e di restituirne le emozioni (nostalgia di Nicolò Carosio: “Così si gioca, palla avanti e pedalare” riferito al piccolo Muccinelli ala della Juve e della Nazionale o la mitica chiusa dopo una vittoria degli azzurri in Scozia: “E adesso andiamo a berci un buon wiskaccio!”, oggi arriverebbe subito la psicopolizia).
In studio conduce Ilaria D’Amico, brava quanto bella, quindi bravissima, che potrebbe essere impegnata anche in trasmissioni non sportive come rare volte, troppo rare, le è stato concesso di fare. Il parterre è sontuoso: Fabio Capello, Billy Costacurta, Alessandro Del Piero, il simpatico ‘Cuciu’ alias il Cambiasso di un’altra Inter. E’ chiaro che quando parla Capello, grande giocatore ma anche grande allenatore quindi con una visione complessiva del gioco, noi tifosi ci mettiamo tutti sull’attenti. E lo stesso vale, sia pure a un livello un po’ inferiore, per i Del Piero, i Costacurta, i Cuciu. Se si tratta quindi di spiegare il gioco tutto va bene. Il disastro comincia con le interviste agli allenatori e ai giocatori. Domande prive di sale e direi anche di senso che inducono gli intervistati a risposte altrettanto banali. Se chiedi a un giocatore che ha appena vinto la Champions quanta emozione ha provato che vuoi che ti risponda: “Tantissima. E' stato meraviglioso, stupendo, incredibile”. In quanto agli allenatori, ma qui torniamo al campionato italiano, devono restare necessariamente sul vago, per colpa dei media perché se dicono che Caio ha giocato bene il giorno dopo i giornali titoleranno che il tecnico ha detto che gli altri dieci hanno giocato male. Anche il giocatore, quand’anche abbia segnato tre goal, non può fare concessioni all’autostima, ma deve dire che è sempre e comunque “tutto merito del gruppo”. Perdi, non importa, c’è “un progetto”, altro termine intollerabile che va bene per un’azienda non per una squadra di calcio. Se perdi è meglio perché “cresci” e “cresce il progetto”. Che le sconfitte insegnino è vero, ma in linea di massima le partite è meglio vincerle che perderle.
Ai due allenatori, bravissimi, entrambi tedeschi, Flick e Tuchel, qualche domanda l’avrei fatta. A Flick, intervistato da Sky, avrei chiesto perché a dieci minuti dalla fine (prevedibile recupero compreso) ha messo fuori Thiago Alcantara perno decisivo del gioco del Bayern per far posto a Tolisso. Una sostituzione incomprensibile perché i francesi avrebbero potuto ancora segnare e nei supplementari l’assenza di Thiago si sarebbe fatta sentire in modo pesante. Per sua fortuna il suo dirimpettaio Tuchel pochi minuti prima aveva fatto una mossa altrettanto incomprensibile, aveva messo fuori Di Maria che è Insostituibile per definizione, perché ha visione di gioco, lanci geniali alla Iniesta, disposizione a difendere quando occorre, gran tiro (un gol e due assist col Lipsia, tanto per dire).
Una domanda l’avrei fatta anche a Thiago Silva, pure intervistato da Sky. Thiago centrale del Paris aveva il compito, insieme al compagno Kipembe, di occuparsi di Lewandowsky. Robert Lewandowsky è da anni il miglior centravanti del mondo (per certi versi mi ricorda Ruud van Nistelrooy perché è un bomber assassino, ma sapendo giocare al calcio non è egoista, passa la palla al compagno meglio piazzato e contrasta con la dovuta durezza). Lewandowsky quest’anno ha segnato 55 gol in 46 partite e in questa Champions aveva segnato almeno un gol in ogni turno. Domenica non ha segnato. A Thiago Silva che a 35 anni ha affrontato nella sua carriera i migliori centravanti del mondo avrei chiesto come ha fatto a fermare Lewandowsky e che differenza c’è tra Lewandowsky e gli altri assi che ha incrociato. Gli avrei anche chiesto come mai la difesa del Paris, che da capitano comanda, si è fatta sorprendere sul colpo di testa di Coman, il più scarso del Bayern. Invece che gli han chiesto? Se era amareggiato. Ma vai a dar via el cu.
Domenica alla fine della trasmissione Ilaria D’Amico e suoi partner si sono autocelebrati. Con ragione perché giocandosi quasi una partita al giorno han dovuto faticare quanto i giocatori e forse anche un po’ di più perché mentre uscivano di scena le varie squadre uscivano di scena anche i loro giocatori, mentre D’Amico e gli altri han dovuto restare sul pezzo fino all’ultimo. In questa autocelebrazione avrei evitato qualche slinguata di troppo alla dirigenza Sky. Non è elegante. E a Ilaria D’Amico una cosa la direi: è vero che loro sono i migliori ma, avendo Sky il monopolio, giocano la partita senza avversari. Troppo facile, cara Ilaria.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2020
Come se gli italiani non avessero altro a cui pensare alcuni giornali si dedicano in questi giorni alla celebrazione dei dieci anni dalla morte di Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica dal 1985 al 1992.
Francesco Cossiga è passato alla Storia, pardon alla cronaca, perché con la Storia non ha nulla a che vedere, come il “picconatore” che contribuì a far cadere la Prima Repubblica. E’ una leggenda metropolitana. Se “picconò” mai qualcosa, fra il 1990 e il 1992, quando era Capo dello Stato, fu proprio quello che allora veniva chiamato ”il nuovo che avanza”: la Lega, la Rete, Leoluca Orlando e quella parte della Magistratura che faceva i primi passi per richiamare la classe dirigente a quel rispetto delle leggi cui tutti noi normali cittadini siamo obbligati, mentre difese fino all’ultimo i socialisti che della sozzura partitocratica erano considerati l’emblema. Poiché lo criticavo sull’Europeo mi invitò al Quirinale. Fu, devo dire, un incontro piacevole durante il quale mi mostrò anche i suoi soldatini. Benché fosse stato riformato al servizio di leva, o forse proprio per questo, aveva una passione smodata, e come si scoprirà in seguito non del tutto innocente, per le divise, i militari, le Forze Armate, i servizi segreti più o meno deviati . Tanto che nel 1961 si era fatto nominare capitano di corvetta da Giuseppe Gronchi e nel 1972 capitano di fregata da Giovanni Leone, finché nel 1980, nonostante le sue disperate resistenze, i comandi militari posero fine a questa farsa. Ma questi sono forse peccati veniali di un narciso impenitente. Durante quell’incontro gli chiesi perché mai difendesse i socialisti. “O bella, rispose, perché i socialisti difendono me.”. Che non è esattamente un modo di ragionare da Presidente della Repubblica a cui il ruolo impone l’imparzialità. Ma qui siamo ancora nell’ambito dei peccati veniali, chiamiamoli da Purgatorio. Nel 1994 Gianfranco Miglio nel libro Io, Bossi e la Lega raccontò che il 26 maggio del 1990, pochi giorni dopo l’affermazione della Lega di Bossi alle amministrative, Cossiga, allora capo dello Stato, aveva telefonato a Gianfranco Miglio, che della Lega era la mente pensante, soffiandogli nella cornetta in tono concitato: “Di’ ai tuoi amici leghisti che sono indignato con loro: devono piantarla. Non mi mancano i mezzi per persuaderli. Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E, quanto ai cittadini che votano per la Lega, li farò pentire: nelle località che più simpatizzano per il vostro movimento aumenteremo gli agenti della Guardia di Finanza e della Polizia; anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano verranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali e le loro partite Iva; non li lasceremo in pace un momento. Tutta questa pagliacciata della Lega deve finire!” (Io, Bossi e la Lega, pag. 27, Editore Mondadori). Un fatto di una gravità inaudita, che Cossiga non smentì mai, e che, con la complicità dei media, i soliti media, passò praticamente sotto silenzio. Eppure quell’intervento di Cossiga era da Ghepeu o da Gestapo. Tuttora l’episodio è poco noto. Più nota, forse perché più folcloristica, è la serqua di insulti che tra il 1990 e il 1992 Cossiga cominciò a rovesciare, nel modo più sgangherato e volgare, su uomini politici e non con cui aveva vecchie e nuove ruggini personali: “piccolo uomo e traditore” (il dc Onorato), “cappone” (il dc Galloni), “zombie con i baffi” (il pds Occhetto), “poveretto” (il dc Flamigni), “analfabeta di ritorno” (il dc Zolla), “emerito mascalzone, piccolo e scemo” (il dc Cabras), “cialtrone e gran figlio di puttana” (Wallis, caporedattore della Reuter) e, infine, un omnicomprensivo “accozzaglia di zombie e di superzombie” appioppato all’intero Parlamento. Da allora si aprirono le cateratte e fu una serie di messaggi trasversali, cifrati, allusivi, intimidatori, secondo il suo miglior stile. Per giustificarlo si cominciò a dire che Cossiga era matto e gli inglesi lo soprannominarono “lepre marzolina”. Purtroppo matto non era affatto, intimidire e cospirare, come si evince tra l’altro dall’episodio raccontato da Miglio, stava nel suo dna. E’ stato Cossiga l’artefice della formazione paramilitare, parallela e clandestina, chiamata Gladio a servizio della CIA.
Francesco Cossiga è stato il peggior Presidente della Repubblica italiana? Non so. Forse in questa gara lo precede Sandro Pertini, il “presidente più amato dagli italiani”, che negli ultimi anni era andato fuori di melone (il vecchio Pietro Nenni diceva: “a me ha preso alle gambe, a lui alla testa”). Certamente è stato il più losco.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2020