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Su Libero del 20 settembre Vittorio Feltri, che ne è il direttore editoriale non il responsabile così le querele se le becca tutte il povero Senaldi, in un articolo intitolato “Giustiziamo i giustizialisti di sinistra” scrive a proposito di Diego Sozzani di cui la magistratura aveva chiesto l’arresto (ai domiciliari naturalmente perché questa detenzione soft è riservata a lorsignori, parlamentari e non, mentre gli altri, nelle stesse condizioni, vengono sbattuti in carcere senza tanti complimenti e anche questa è una discriminazione sociale intollerabile) ha scritto: “Troviamo assurdo privare della libertà un signore, fosse anche colpevole, prima di essere processato e condannato. La gente, di qualunque tipo, non va punita se non dopo sia stata dimostrata con regolare processo la sua partecipazione a un reato…Basta ricevere un avviso di garanzia per essere sputtanato a vita, esposto al pubblico ludibrio”.

Il Feltri si concede qui la parte del Cesare Beccaria del Dei delitti e delle pene (meglio cento colpevoli in libertà che un innocente in galera). Ma il Feltri Beccaria lo deve aver letto abbastanza di recente o forse è uno scambio di persona tanto diverso è dal Feltri che diresse l’Indipendente dal 1992 al 1994. Quell’Indipendente fu il quotidiano più “forcaiolo” della storia del giornalismo italiano. Fu Feltri a sbattere in prima pagina, con goduto compiacimento, una grande foto dell’onorevole Carra in manette. Fu sempre Feltri a coniare per Bettino Craxi, in quel momento raggiunto solo da un avviso di garanzia, il termine “cinghialone” dando a una legittima inchiesta della magistratura il sapore di una caccia sadica che non fu estranea al vergognoso lancio di monetine davanti all’hotel Raphael. Fu ancora Feltri ad attaccare pesantemente i figli di Craxi, Stefania e Bobo, come se i figli avessero le colpe dei padri. Avallò anche i suicidi che avvennero durante la stagione di Mani Pulite: “Craxi ha commesso l’errore…di spacciare i compagni suicidi (per la vergogna di essere stati colti con le mani nel sacco) come vittime di complotti antisocialisti”. Il Feltri diventò  “ipergarantista” quando nel 1994 passò alla corte di Silvio Berlusconi. Era stato l’ammiratore più fanatico dei magistrati di Mani Pulite, Di Pietro in testa, ne divenne un altrettanto fanatico accusatore. Da questo “forcaiolo”, poi pentitosi al momento in cui gli conveniva pentirsi, non accettiamo quindi lezioni postume di “garantismo”.

La carcerazione preventiva certamente dolorosa per qualsiasi indagato, soprattutto se poi risulterà innocente, si rende necessaria in tre casi: quando i magistrati ravvisino il pericolo di fuga o la possibilità di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato. Ma seguiamo pure l’ultimo Feltri o il Feltri numero 2 o lo pseudo Feltri, che di diritto ne sa quanto la mi zia,  nel suo ragionamento e aboliamo quindi la carcerazione preventiva. Non si capisce allora però perché questa immunità dal gabbio lo indigni particolarmente quando di mezzo c’è un parlamentare. Non gli ho sentito emettere simili lai quando in carcere preventivo, e non ai più comodi domiciliari, sono stati sbattuti senza tanti complimenti presunti ladri di galline, presunti rapinatori, presunti stupratori. In questo caso la linea è anzi quella di madama Santanchè che fa parte del suo giro o comunque del movimento politico, la destra, cui si rifà: “In galera subito e buttare via le chiavi”. Cioè in galera senza che nemmeno ci sia un processo. Il Feltri o lo pseudo Feltri appartiene a quella linea politica, sempre la destra, che quando Pietro Valpreda era in galera da quattro anni senza processo voleva che vi rimanesse a vita.

La carcerazione preventiva è una dolorosa necessità che esiste in tutti gli ordinamenti. Ma se si vuole abolirla, come sottintende il Feltri, allora va abolita per tutti e con la stessa indignazione che Feltri riserva al parlamentare di Forza Italia. Insomma, nonostante il lacrimoso e intellettualmente disonesto articolo di Feltri, siamo alle solite: due pesi e due misure, due diritti, uno per lorsignori e gli amici degli amici l’altro per i cittadini comuni.

Mi colpisce l’inerzia di questi ultimi. I privilegi di lorsignori rimangono intatti tant’è che Feltri li difende fingendo di farlo per tutti e noi non ci ribelliamo mai. Qualsiasi partito si sia votato o non si sia votato la cittadinanza intera dovrebbe insorgere. Invece no. Siamo solo pecore da tosare, asini al basto, maiali che si fanno docilmente portare al macello senza emettere nemmeno un grugnito, preda per soprammercato degli azzeccagarbugli alla Vittorio Feltri.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2019

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“Cantami, o Diva, del pelide Achille l’ira funesta che infiniti lutti addusse agli Achei”. Così inizia il primo e il più grande poema di guerra della Storia.

Da che esiste, cioè da sempre,  la guerra è uno scontro fra uomo e uomo. Inizialmente un vero e proprio corpo a corpo. In seguito verranno elaborate nuove tecnologie di offesa cui si risponderà con nuove tecnologie di difesa e viceversa in un botta e risposta senza respiro. Ma il corpo a corpo rimarrà almeno fino all’epoca dei cavalieri che, sotto certi aspetti, etici e pratici, è il periodo migliore dell’infinita storia della guerra. La guerra la fa chi la vuol fare, chi vi ha una certa propensione, chi crede in qualcuno dei suoi valori. La povertà della tecnologia militare medioevale e il ridotto numero dei combattenti limitano grandemente l’area di azione della guerra e la stessa economia non ne viene scossa più di tanto proprio perché la classe produttiva, cioè i contadini, rimane al suo posto. Del resto quelle medioevali sono in assoluto le guerre meno cruente della storia. Ciò nonostante il guerriero nel Medioevo godrà sempre di un altissimo prestigio. In un contesto del genere alcune qualità umane, come la forza fisica, il coraggio, l’abilità nel battersi e la disponibilità a farlo, che oggi, politicamente, non hanno più alcun senso, erano determinanti.

Molto cambia con l’introduzione delle armi da fuoco. Esemplare in questo senso è lo straordinario film di Ermanno Olmi Il mestiere delle armi. Giovanni delle Bande Nere, in realtà un Medici, guerriero di altissimo valore,  quando si cala la celata della sua armatura crede di potersi battere come sempre. Ma ha contro quattro pezzi di artiglieria e l’inconsapevole Giovanni verrà ferito e ucciso. La guerra adesso si fa a distanza. I cavalieri si batteranno idealmente contro l’introduzione delle armi da fuoco, sembrandogli questa una cosa slealissima. Ariosto chiama l’arma da fuoco “abominoso ordigno” e Lutero tuonava, con la consueta veemenza, contro i moschetti e gli obici che chiamava “opera del demonio” perché contro i proiettili non valevano né la forza né il coraggio. Insomma i cavalieri, e tutti coloro che avevano una concezione etica della guerra, cercarono di bandire le nuove armi, ma naturalmente furono loro a essere banditi.

Tuttavia, anche se a distanza, la guerra rimane una lotta di uomini contro altri uomini dove il coraggio e le altre doti peculiari del guerriero continuano ad avere un senso. E questo sarà vero anche nella seconda guerra mondiale, nonostante l’introduzione dei bombardieri. Fu grazie al coraggio dei combattenti americani e inglesi che poté essere effettuato il decisivo sbarco in Normandia. Fu grazie al coraggio dei combattenti russi contrapposto a quello di altrettale valore dei militari nazisti che poté essere vinta, complice anche il generale Inverno, l’altrettale decisiva battaglia di Stalingrado. Persino nella guerra delle Falkland, e siamo già nel 1982, combattuta a colpi di Exocet, il valore dell’uomo fu decisivo. Nell’ultima battaglia, terrestre, c’era un nido di mitragliatrici argentino che pareva inespugnabile. I soldati inglesi che gli stavano di fronte si sentivano impotenti. Allora il loro comandante, di cui mi spiace non ricordare qui il nome, uscì dalla trincea, allo scoperto, trascinando in tal modo i suoi uomini alla conquista. Lui ne uscirà ferito in modo grave, ma gli inglesi conquisteranno quell’ultimo baluardo argentino ponendo così fine, di fatto, alla guerra.  

Insomma fino a poco tempo fa  i fanti, cioè gli uomini, avevano in guerra una parte e un valore decisivo. Poi sono arrivate armi che avevano perduto anche la forma di armi, armi nucleari, batteriologiche, chimiche. A parte Hiroshima e Nagasaki nella seconda guerra mondiale queste armi, per una sorta di fair play, di rispetto delle regole di quel grande gioco che era stato fino ad allora la guerra, non furono usate da nessuno, nemmeno da Hitler.

Adesso siamo arrivati alla guerra economica, allo strangolamento di Paesi con strumenti finanziari, ai droni per cui la distanza tra chi colpisce e chi può essere colpito è abissale, inarrivabile. Cioè c’è qualcuno che può colpire e un altro che può solo subire. Mentre la straordinaria legittimità di poter uccidere in guerra deriva dal fatto che si può essere altrettanto legittimamente uccisi. Ma adesso stiamo andando ancora oltre. Come dimostrano i documenti resi pubblici dalla Cia si usano piccioni, lucertole, scoiattoli, avvoltoi, corvi, delfini. Insomma la guerra la facciamo fare agli animali non avendo più il coraggio né di Achille né di Giovanni delle Bande Nere, vale a dire il coraggio di essere uomini.

E questo toglie alla guerra la sua epica e la sua etica. E poiché la guerra, come ho cercato di dimostrare in Elogio della guerra, non è che uno specchio, un grande specchio, della società, noi abbiamo oggi, in Occidente ma non solo, una civiltà che sarà anche modernissima ma è quasi completamente priva dell’elemento umano.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2019

 

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Giovedì scorso, per presentare il mio libro Storia reazionaria del calcio. I cambiamenti della società vissuti attraverso il mondo del pallone, ho partecipato alla Festa nazionale di CasaPound che si teneva in un bel agriturismo (il meglio della dolcezza delle colline venete) ma parecchio fuori mano e lontano da Verona dove i militanti di questo gruppo hanno una certa consistenza. Evidentemente si era ritenuto opportuno tenerli il più possibile alla larga. C’era moltissima pula. L’ambiente era misto, insieme a giovani che si tatuano da capo a piedi c’erano famigliole con bambini. Il mio intervento si è svolto nella massima tranquillità e alla fine mi sono salutato molto cordialmente col presidente di CasaPound Gianluca Iannone. Non è la prima volta che accetto gli inviti di CasaPound, sono stato tre volte a Roma dove hanno la sede nazionale e ho potuto notare che fanno un buon lavoro sociale in aiuto alle famiglie disagiate. Naturalmente le teste di cazzo non mancano nemmeno qui, ma quando esorbitano dalla loro ideologia e compiono atti violenti vengono giustamente messi al gabbio come ha deciso anche di recente una sentenza della Cassazione. Ma questo non vale solo per Casapound ma per chiunque compia atti di violenza.

La targa della mia automobile è stata fotografata da agenti in borghese. Ora la mia domanda è questa. Se decidessi di aprire un profilo Facebook per i fatti miei –non ci penso neanche- incorrerei nelle sanzioni che la società di Zuckerberg ha comminato a CasaPound e Forza Nuova? Facebook –che se vogliamo metterci nella sua ottica, che non è la nostra, è uno dei peggiori seminatori di odio e di istigazione alla violenza come la cronaca ha ampiamente dimostrato- è una società privata che può darsi i regolamenti che vuole. Lo Stato italiano no, deve sottostare alla Costituzione che all’articolo 21 garantisce la libertà di opinione e di espressione. E non per nulla sia CasaPound e Forza Nuova, i due gruppi messi fuorilegge da Facebook, si sono regolarmente presentati alle elezioni sia pur prendendo percentuali bassissime.

Per legittimare l’intervento censorio di Facebook nei confronti di CasaPound e Forza Nuova ci si è richiamati alla legge Scelba del 1952 che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” e che dà attuazione all’articolo XII delle “Disposizioni transitorie e finali” posposte alla Costituzione. Sia la legge Scelba che la disposizione a cui questa legge dà attuazione avevano un senso al momento in cui furono emanate. Uscivamo da una gravissima sconfitta militare e da una sanguinosa guerra civile fra chi al fascismo si opponeva e chi il fascismo ancora difendeva. C’erano quindi ancora ferite aperte. Ma sono passati tre quarti di secolo da allora e proprio per questo i nostri padri costituenti definirono “transitorie” quelle disposizioni e sta ‘in re ipsa’ che una disposizione transitoria non può andare avanti all’infinito (altrimenti si chiamerebbe in altro modo) e prima o poi deve decadere.

Insomma queste leggi liberticide avevano un senso 75 anni fa, oggi lo hanno perso. Io voglio potermi dire fascista, anche se non credo di esserlo, è un mio diritto di libertà come è un mio diritto di libertà riconoscere le cose buone che il Fascismo pur fece (“Gli anni del consenso”, De Felice) come è un altrettale diritto di libertà vederne solo il peggio. Queste sono le regole della democrazia, di ogni democrazia, dove la libertà di esprimere le proprie idee e opinioni, per quanto possano essere ritenute aberranti dalla maggioranza, è sacra. Altrimenti non di democrazia si tratta ma di un totalitarismo democratico. Che non è meno totalitario di ogni altro totalitarismo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2019

Ps. Chi sia interessato può leggersi la risposta di Tomaso Montanari sempre sul Fatto del 17 settembre 2019