L’onorevole Luciano Violante tenendo una lectio magistralis all’Università di Pisa ha affermato tra le altre cose che “in Italia sta nascendo una società giudiziaria, ci deve preoccupare questa concezione autoritaria per cui il Codice penale è diventato la Magna Carta dell’etica pubblica”.
Luciano Violante si è inventato una categoria giuridico-politica del tutto nuova, inaudita nel senso letterale del termine: di mai udita prima. E ‘pour cause’. Perché ‘una società giudiziaria’ non significa assolutamente niente, è una pura tautologia. Ogni società infatti, almeno da quando assume la forma-Stato, è giudiziaria. In uno Stato il cittadino rinuncia alla violenza e ne conferisce il diritto allo Stato che ne assume il monopolio. Questo per evitare che il cittadino si faccia giustizia da sé e la filiera senza fine della vendetta, personale o collettiva, e della faida, come è stato in molte comunità che ci hanno preceduto, ad esempio quella germanica primitiva. E’ per questo, per richiamarci a un episodio recentissimo, che è stato chiesto l’ergastolo per Fabio Di Lello che a Vasto, per vendicarsi, ha assassinato con tre colpi di pistola il giovane Italo D’Elisa che in un incidente stradale ne aveva ucciso la moglie. In uno Stato, in qualsiasi Stato, il cittadino non può farsi giustizia da sé. Altrimenti sarebbe l’anarchia e lo Stato si dissolverebbe. E’ allo Stato quindi che compete di amministrare la giustizia, attraverso uno dei suoi tre poteri, la Magistratura (gli altri due sono l’Esecutivo e il Legislativo) e punire il cittadino che viola la legge e retribuire così chi, singolo o collettività, da quella violazione sia stato danneggiato in modo più o meno grave. Lo Stato quindi, anche quello democratico, è sempre per sua natura ‘giudiziario e autoritario’.
Sono princìpi elementari, questi, che si studiano al primo anno di Giurisprudenza e che un ex magistrato come Luciano Violante non può certamente ignorare. La sua affermazione sulla “società giudiziaria” e quindi autoritaria, totalmente priva di senso dal punto di vista del diritto ne ha evidentemente un altro. Si inserisce nella lotta, sorda e sordida, che la classe politica di questo Paese sta conducendo da decenni, soprattutto dall’epoca di Mani Pulite, contro la Magistratura pretendendo l’impunità per i crimini che le sono propri (corruzione in tutti i settori della vita pubblica) ricordandosi però che lo Stato ha il monopolio della violenza, attraverso la magistratura e la polizia, solo quando a commettere delitti anche molto meno gravi sono i comuni cittadini. Provate a lanciare un sasso contro un poliziotto e vedrete che Violante, e tutti i Violante, invece di contestarla invocheranno l’intervento della “società giudiziaria e autoritaria” e si guarderanno bene da negare la validità, anche morale, del Codice penale (la pena non ha solo una funzione retributiva ma anche rieducativa oltre a quella, complementare, come scrive l’Antolisei, di “fungere da controspinta alla spinta criminosa”).
In questa battaglia contro la Magistratura la classe politica si è inventata di sana pianta categorie giuridiche mai prese in considerazione da alcun Codice penale: il ‘garantismo’, il ‘forcaiolismo’, la ‘giustizia ad orologeria’, l’’accanimento giudiziario’, l’’indebita supplenza’ della Magistratura accusata di sostituirsi alla politica e molte altre. Ma mancava ancora qualcosa. Adesso è stata trovata. Si chiama ‘società giudiziaria’ e quindi autoritaria. Copyright Luciano Violante.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2017
Pochi giorni prima che Khalid Masood, probabilmente un mezzo squilibrato su cui però l’Isis, come sempre fa, ha messo il cappello di “soldato del Califfato”, uccideva quattro persone sul ponte di Westminster, i bombardieri americani, in un sol colpo, ne avevano fatti fuori 200, quasi tutti civili, a Mosul ovest (la notizia è trapelata in ritardo, è stata rivelata dalla Tv curdo-irachena Rudaw e quasi ignorata dai giornali occidentali).
Nella città vecchia di Mosul ovest è asserragliato quel che resta dell’esercito del Califfo, circa 2.000 uomini a quanto se ne sa. Mosul ovest è un dedalo e un intrico di viuzze e per stanare gli uomini di Al Baghdadi bisogna combattere casa per casa. Operazione certo non facile e assai rischiosa. Ma l’esercito cosiddetto regolare dispone di circa 150 mila uomini (peshmerga curdi, pasdaran iraniani, esercito iracheno, più 4.000 elementi dei reparti speciali americani). E’ mai possibile che tutta questa coalizione, molto ben armata ed equipaggiata, non riesca ad avere ragione dei guerriglieri dell’Isis senza ricorrere ai bombardieri? E’ ovvio che se si bombarda una città ad andarci di mezzo sono soprattutto i civili (anche perché i guerriglieri di Al Baghdadi hanno provveduto a scavare cunicoli sotterranei in cui si rifugiano). Ed è quindi inutile che adesso i militari Usa abbiano aperto la solita inchiesta che non porterà a nulla. Quando bombardavano sapevano benissimo che avrebbero ucciso una gran quantità di civili. E questo è tutto.
Non è nemmeno vero che gli 800 mila civili rimasti a Mosul vengano tenuti in ostaggio dagli uomini del Califfato come ‘scudi umani’. Non è militarmente possibile che 2.000 guerriglieri, che hanno altro a cui pensare, possano controllare 800 mila persone. Molto più probabilmente gli 800 mila sunniti che sono rimasti a Mosul ovest con le loro famiglie è perché è lì che vogliono restare, nelle loro case, e più che l’Isis temono le vendette dell’esercito sciita iracheno e dei pasdaran iraniani pur essi sciiti, come è già avvenuto quando sono stati ‘liberati’ i villaggi attorno a Mosul (i peshmerga curdi, in realtà i soli legittimati alla riconquista di Mosul, perché Mosul è curda, sembrano tenersi fuori, per quanto possibile da questa logica di faida).
Il 5 gennaio del 62 a.C. l’esercito di Catilina formato da 3.000 uomini per lo più armati alla bell’e meglio affrontò i 18 mila soldati dell’esercito regolare romano. Catilina aveva scelto oculatamente il luogo, una piccola radura chiamata Campo di Zoro, sopra Pistoia, chiusa a sinistra dai monti che culminano nel poggio di Madonnina e a destra da un’altissima rupe. Alle spalle la catena dell’Abetone lo metteva al riparo, almeno per il momento, da brutte sorprese (un altro esercito romano, proveniente dall’Adriatico, incombeva). Il posto era ben scelto perché il piccolo esercito di Catilina, protetto su tre lati, avrebbe potuto combattere su un fronte limitato, di circa mezzo chilometro, dove la superiorità numerica del nemico, costretto in quell’imbuto, si sarebbe fatta sentire di meno. Ma nello stesso tempo Catilina si era messo in trappola. Lui e i suoi uomini sapevano benissimo di andare incontro a morte certa. Erano in tremila e in tremila caddero. Certo gli intenti di Catilina erano nobili: riscattare la plebe, salvare i piccoli agricoltori strangolati dai grandi latifondisti del Senato, dare voce a quelli che oggi chiameremmo i ‘ceti emergenti’ (mercanti, piccoli imprenditori), tentativi che furono poi anche di Caligola e, in modo molto più strutturato, di Nerone, tutti e tre poi affogati nell’ignominia dalla Storia dei vincitori. Gli obbiettivi dell’Isis sono molto diversi e, ai nostri occhi di contemporanei, per nulla nobili. Ma quando io vedo 350 mila uomini contro 2.000, vocati anch’essi a morte sicura, io sto con costoro quali che siano le loro ragioni. Come sono sempre stato per i catilinari.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2017
Quando sento parlare di ‘guerre dimenticate’ metto mano alla pistola. Perché vuol dire che gli occidentali se ne stanno per ricordare e hanno intenzione di intervenire in questioni che non li riguardano affatto, provocando i consueti disastri.
E’ avvenuto nella guerra Iraq-Iran cominciata nel 1980 per iniziativa di Saddam Hussein che riteneva che lo Stato persiano si fosse indebolito con la caduta dello Scià e l’avvento di Khomeini. Ed effettivamente per cinque anni gli Stati occidentali si dimenticarono di quella guerra, salvo ovviamente vendere grandi quantità d’armi ad entrambi i contendenti perché potessero ammazzarsi meglio. Ma inopinatamente nel 1985 l’esercito iraniano, molto meno attrezzato di quello iracheno, più tecnologico, era davanti a Bassora e stava per prenderla. La presa di Bassora avrebbe comportato l’immediata caduta di Saddam Hussein, la nascita di un Kurdistan indipendente ai confini della Turchia e la naturale riunione della parte sciita dell’Iraq con l’Iran, perché si tratta della stessa gente, dal punto di vista antropologico, religioso e culturale. Allora intervennero gli americani, per ‘motivi umanitari’ naturalmente: “Non si può permettere alle orde iraniane di entrare a Bassora, sarebbe un massacro” (i soldati altrui sono sempre ‘orde’, solo i nostri sono eserciti regolari, anche se adesso i pasdaran iraniani, non più ‘orde’, ci fanno molto comodo per combattere l’Isis a Mosul). Risultato dell’’intervento umanitario’: la guerra che sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di morti, terminò solo nel 1988, ma i morti, nel frattempo, erano saliti a un milione e mezzo. Saddam Hussein invece di essere disarcionato restò in sella, e rimpinzato, in funzione antiraniana e anticurda, di armi di tutti i tipi, anche quelle chimiche fornitegli da americani, francesi e sovietici, aggredì il Kuwait. E fu la prima guerra del Golfo (1990). Le ‘bombe intelligenti’ e i ‘missili chirurgici’ americani fecero 157.971 vittime civili fra cui 39.612 donne e 32.195 bambini. E fermiamoci qui.
Nel 1999 gli americani si intromisero in un’altra guerra altrui. Quella fra lo Stato serbo, che voleva legittimamente conservare l’integrità dei propri confini, e gli albanesi del Kosovo che pretendevano invece l’indipendenza. Gli Usa, dando ragione ‘a prescindere’ ai kosovari, bombardarono per 72 giorni una grande capitale europea come Belgrado facendo 5.500 morti civili e fra questi c’erano anche 500 di quei kosovari di cui avevano preso le difese. Ma le conseguenze furono più gravi del numero delle vittime. In assenza del ‘gendarme Milosevic’, il quale, checché se ne sia detto e scritto, era un fattore di stabilità dei Balcani, sono concresciute in Kosovo, in Bosnia, in Albania grandi organizzazioni criminali (armi e droga soprattutto) che per fare i loro affari passano in prima battuta per l’Italia. Inoltre l’azzeramento, come potenza, della Serbia, ortodossa, ha favorito la componente islamica dei Balcani dove oggi allignano le più forti basi che l’Isis abbia in Europa.
Nel 2011 iniziò in Siria una rivolta spontanea contro il despota Bashar al-Assad. Doveva essere una questione fra siriani. Invece c’è stato l’intervento americano (la famosa ‘linea rossa’ di Obama) che ha legittimato quello dei russi, dei turchi e di altri macellai della regione. E così siamo arrivati alla catastrofe umanitaria di Aleppo.
Ma c’è una guerra che è realmente ‘dimenticata’: quella all’Afghanistan che dura da più di 15 anni, la più lunga dei tempi moderni. I giornali occidentali e in particolare quelli italiani (ad eccezione di un recente reportage di Pierfrancesco Curzi pubblicato dal Fatto) ne danno notizie sporadiche, striminzite, reticenti. Più che una guerra dimenticata è una guerra rimossa, occultata, una guerra che non esiste, tanto che si nega lo status di rifugiati politici agli afgani che, sempre più numerosi, fuggono dal loro Paese. Ed è rimossa per occultare la vergogna, occidentale e in particolare americana, dell’occupazione del tutto arbitraria di un Paese che dura da tre lustri.
Si poteva sperare che lo strombazzato isolazionismo di Donald Trump oltre che commerciale fosse anche militare. Invece il neopresidente degli Stati Uniti ha deciso di inviare in Afghanistan altri 4.500 uomini convincendo a ritornarvi anche i canadesi che, con gli olandesi, erano stati fra i primi ad andarsene non capendo l’utilità e il senso di quella ‘missione’ (e quando gli olandesi lasciarono Kabul, l’Emirato islamico d’Afghanistan, guidato dal Mullah Omar, con una nota ufficiale ringraziò pubblicamente il governo e la popolazione di quel Paese). Inoltre il ritiro delle truppe NATO e dei suoi alleati che inizialmente era stato previsto per il 2014 è stato procrastinato al 2020 e oltre (una richiesta in questo senso è arrivata anche all’Italia ed è stata subito accettata).
Anche gli inglesi, che pur si sono battuti bene in Helmand, subendo gravi perdite, hanno deciso di rientrare in forze in Afghanistan. Alla recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera il ministro della Difesa britannico Michael Fallon ha dichiarato: ”Se era una cosa giusta andare, deve essere altrettanto giusto non lasciare prima che il lavoro sia terminato”. Costoro, la distruzione materiale, economica, sociale, culturale di un Paese e le 200 mila vittime civili provocate dal loro intervento, lo chiamano “lavoro”. Il lavoro del boia.
Senza le basi americane, i bombardieri americani, i droni americani, il governo fantoccio di Ashraf Ghani non resisterebbe più di una settimana ai Talebani. Perché anche il suo esercito, che noi italiani pretendiamo di addestrare, è fantoccio. E’ formato da poveri ragazzi afgani che a causa della disastrosa situazione economica (la disoccupazione è al 40%, all’epoca del governo talebano era all’8%; Kabul ha oggi 5 milioni e mezzo di abitanti, con i Talebani ne aveva un milione) non hanno altra scelta, per guadagnarsi di che vivere, che arruolarsi. Ma appena possono se ne vanno. Ogni anno la metà diserta, l’altra metà, tagiki a parte, non ha nessuna voglia di combattere i propri connazionali. Inoltre nel pletorico esercito ‘regolare’ afgano, che teoricamente conta su quasi 350 mila uomini, ci sono infiltrati talebani che periodicamente aprono il fuoco sugli istruttori stranieri (l’ultimo episodio è del 19 marzo quando un soldato afgano ha ferito almeno tre addestratori americani).
Quando un governo, le forze occupanti, le ambasciate, le ambigue Ong e coloro che vi fanno parte sono costretti a vivere in compound protetti da mura alte sei metri, allineate in tre cerchi concentrici, e non osano mettere il naso fuori se non usando gli elicotteri o ricorrendo ad altre mille precauzioni, vuol dire che sanno di avere contro l’odio della popolazione, anche quella che talebana non è e non è mai stata. Forse Assad, in Siria, ha un appoggio maggiore.
Ma noi continuiamo a restare lì, coperti, oltre che dai muri di cemento, da una vergogna che non si cancella col silenzio. E che ci sopravviverà.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2017