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Psicanalisi del fan. Quando ero un giovane giornalista, ma già abbastanza affermato, mi meravigliavo che i miei maggiori, quelli che almeno conoscevo io, Giorgio Bocca, Oreste Del Buono, Indro Montanelli, si rifiutassero categoricamente di rispondere alle lettere personali dei lettori (non quelle che si scrivono ai giornali) e tantomeno di ricevere fan o presunti tali. Mi sembrava una manifestazione di chiusura, un segno di indifferenza e di grettezza, soprattutto nei confronti dei giovani. Negli anni Ottanta, al Giorno di Zucconi e Magnaschi, scrivevo al ritmo con cui lo fa oggi, al meglio, Marco Travaglio, e ricevevo circa una cinquantina di lettere alla settimana. Cercavo di rispondere a tutte, scartando solo quelle chiaramente deliranti. Ho passato quasi tutti i pomeriggi delle mie domeniche, facendo infuriare la mia fidanzata, in questa occupazione. Ma alla fine ho dovuto riconoscere che evevano ragione Bocca and company. Un lettore ti scrive qualcosa di interessante, di intelligente e tu rispondi, non con semplici formule di cortesia («La ringrazio», «mi fa piacere avere un lettore attento come lei») ma sulle sue argomentazioni sviluppandone altre. Lui ti riscrive e tu non rispondi più. E il lettore s'incazza. Lo prende come un segno di superbia. Non capisce che non puoi tenere una corrispondenza continuativa con tutti quelli che ti scrivono, anche cose profonde e da approfondire, perché altrimenti non solo non avresti più il tempo di lavorare ma nemmeno di vivere. Ed ecco che uno che ti ammirava prende a odiarti.

Peggio va con i fan o presunti tali, che desiderano incontrarti. I miei sono sempre stati soprattutto dei giovani, ragazzi e, in misura minore, ragazze. Per molti anni li ho ricevuti a casa mia. Negli ultimi tempi le ragazze solo al bar di sotto. Per precauzione. Basta che una dica che ci hai provato e, parola contro parola, sei fritto. Ma anche questo è uno sbaglio. Non c'è quasi fan, o presunto tale, che alla fine non tiri fuori da sotto i panni un suo scritto, un romanzo, un saggio, che considera ovviamente fondamentale. Poi cominciano a tempestarti di telefonate (io ho -avevo- anche la sbadataggine di dargli il mio numero di telefono): «L'ha letto? Che gliene pare?». Siccome tu non l'hai letto, perché non hai tempo, perché non sei un editor (del resto nemmeno gli editori -con l'eccezione di Cesare De Michelis, il patron della Marsilio, uno degli uomini più colti d'Italia insieme a Luciano Canfora- leggono più nulla, se non su raccomandazione degli amici degli amici) passano direttamente dall'adorazione all'insulto. Ma non è questo che mi colpisce di più. Questi ragazzi e ragazze per due ore parlano solo «di sè fra sè e sè» come «il finto pittore e il finto scrittore» della canzoncina di Giorgio Gaber, 'Trani a gogò'. Non hanno alcuna vera curiosità per te, per la tua persona, per la tua vita e nemmeno per la tua biblioteca (una volta è venuto un giovane di 24 anni che si è gettato, come un affamato, sui miei libri, discorrendo con cognizione di causa di Camus, di Sartre, di Baudelaire, di Rimbaud, di Lautrémont, di Céline, di Kafka, di Schopenhauer, naturalmente di Nietzsche, di Parmenide, di Democrito, di Eraclito, e ho capito che era un ragazzo totalmente fuori dal suo tempo, che avrebbe avuto una vita difficile). E allora perché vogliono incontrarti? Perché vogliono constatare di persona che, per quanto tu sia un nome più o meno famoso, sei un poveraccio come tutti gli altri, un poveraccio come loro, alleviando con ciò le proprie frustrazioni. Vogliono uccidere in qualche modo l'immagine che si son fatta di te. Io la chiamo 'la sindrome John Lennon'.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2014

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I bombardamenti americani su Raqqa e altre località della Siria controllate dall'Isis hanno un qualche fondamento legale, un'ombra di legittimità internazionale? No. Lo ammette sul Corriere anche Guido Olimpio, prestigioso commentatore di questioni internazionali, iperfiloamericano. La Siria non ha richiesto l'intervento americano e l'Onu si è ben guardata dall'avallarlo. «Per questo» scrive Olimpio «gli Usa si aggrappano all'unica giustificazione possibile. Quella del pericolo di un attentato terroristico di grandi proporzioni contro obbiettivi americani o di altri Paesi» organizzato dal gruppo Khorasan, definito qaedista, che non si sa nemmeno bene se sia collegato all'Isis. Insomma l'America del Premio Nobel per la Pace Barack Obama è tornata alla teoria della 'guerra preventiva' di George W. Bush, ammesso che l'abbia mai abbandonata.

E' dal collasso dell'Urss che gli americani continuano imperterriti una politica di aggressione che, ogni volta, si è rivelata un boomerang. Nel 1996 impedirono ai serbi di Bosnia una vittoria conquistata sul campo e nel 1999 attaccarono direttamente la Serbia, cristiana, per favorire la componente musulmana dei Balcani a favore del loro grande alleato nella regione, la Turchia. Risultato: oggi in Albania, in Bosnia, in Kosovo ci sono cellule di radicalismo islamico ben più vicine a noi di quelle di Raqqa e che ci possono colpire in ogni momento. Nel 2001 attaccarono l'Afghanistan, che con l'avvento dei Talebani aveva trovato almeno un po' di sicurezza e di pace dopo anni di guerra civile e di soprusi, assassini, stupri, taglieggiamenti, rapine da parte dei 'signori della guerra', senza alcuna vera ragione. Nessuno ha mai fornito le prove che alle spalle dell'attacco alle Torri Gemelle ci fosse Bin Laden, prove che, giustamente, il governo afgano-talebano chiedeva e a cui gli americani diedero la sprezzante risposta: «Le prove le abbiamo date ai nostri alleati». A un convegno tenutosi domenica a San Pellegrino il direttore del Fatto, Antonio Padellaro, ha trovato come unica giustificazione dell'aggressione all'Afghanistan il fatto che i Talebani avevano abbattuto i Buddha di Bamiyan. A parte che nell'ottica dell'Afghanistan talebano (dove, a differenza di quanto avviene in Corea del Nord, a Cuba, in Cina o in qualsiasi altro Paese, dittatoriale o no, non circolava una sola immagine del leader, il Mullah Omar) quell'abbattimento aveva un senso, quattordici anni di occupazione e di guerra, centinaia di migliaia di vittime civili provocate dai bombardamenti e dai droni della Nato sembrano un prezzo un tantino alto per due statue. Nel 2003 c'è stato l'attacco all'Iraq che con la sua disintegrazione, combinata con l'appoggio fornito ai ribelli anti Assad, ha dato origine al fenomeno dell'Isis. Nel 2006/7 c'è stato l'attacco alle Corti Islamiche somale, che in Somalia avevano fatto lo stesso lavoro di pulizia, nient'affatto etnica, dei Talebani in Afghanistan. E oggi i somali corrono a ingrossare le file dell'Isis. Nel 2011 c'è stata la defenestrazione violenta di Gheddafi e oggi la Libia è in mano agli jihadisti. Nell'estate 2013 c'è stato l'appoggio occidentale al colpo di Stato del generale tagliagole Al Sisi che ha rovesciato il governo, eletto con legittime elezioni, dei Fratelli musulmani. E oggi il Sinai è un brodo di coltura dello jihadismo così come lo è l'Algeria dove nel 1981 altri generali, sempre con l'appoggio occidentale, misero in galera e massacrarono gli esponenti del Fis (Fronte islamico di salvezza) vincitore delle prime elezioni libere in quel Paese (e l'altro ieri come spietata ritorsione per la partecipazione dei caccia francesi ai bombardamenti in Siria c'è stata la barbara esecuzione nel Maghreb dell'escursionista Hérve Gourdel).

Questo per il passato recente. Alle spalle ci sono due secoli in cui prima gli europei e poi anche gli americani hanno fatto quel che han voluto in Medio Oriente (e altrove). E' così strano che il mondo arabo musulmano abbia covato un sordo rancore contro gli occidentali che oggi esplode nelle forme più feroci e spietate? Nel 2005, dopo gli attentati alla metropolitana londinese, il sindaco di Londra, Ken Livingstone, molto amato dai suoi concittadini, ebbe l'onestà intellettuale di dire: «Certo, gli attentati terroristici sono inaccettabili. Ma se gli arabi e i musulmani avessero fatto in Gran Bretagna quello che noi inglesi abbiamo fatto per due secoli in Medio Oriente, io oggi sarei un terrorista britannico».

Massimo Fini

Il Gazzettino, 26 settembre 2014

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Nei 'Frammenti alle istituzioni repubblicane' Saint-Just, uno dei leader della Rivoluzione francese da cui è nato il nostro mondo, afferma: «La virtù è una sola e quindi deve essere ammesso solo il partito che in essa si riconosce, mentre tutti gli altri, che le sono contrari, vanno soppressi». La pretesa di possedere una verità assoluta che esclude tutte le altre non appartiene solo alle religioni monoteiste, nelle loro varie declinazioni di cui l'Isis è l'ultima espressione, ma anche alla cultura laica. Oggi la proposizione di Saint-Just può essere tradotta così: «La virtù è solo democratica, tutti i popoli che in essa non si riconoscono vi vanno ricondotti, con le buone o con le cattive». E' la storia dell'Occidente degli ultimi quindici anni, dall'aggressione alla Serbia in poi. In Iraq sono quindi a confronto due totalitarismi, uguali e contrari, quello dell'Isis che vuole convertire tutti, con la violenza, alla propria fede, e quello occidentale che fa lo stesso. Con la differenza che il primo è consapevole di essere tale, il secondo no, crede di essere liberale.

Lasciamo pur perdere la filastrocca delle guerre d'aggressione perpetrate dagli americani negli ultimi anni, ma se da più di un ventennio si inserisce l'Iran khomeinista, cioè un Paese strutturato, di grande cultura, colpevole di aver cacciato a pedate lo Scià, un dittatore feroce, per quanto patinato, nell' 'Asse del Male', è evidente che si pongono le premesse per la nascita di fenomeni incontrollabili come l'Isis. Anche se adesso uno dei tanti paradossi della Storia vuole che proprio ai pasdaran iraniani ci aggrappiamo perchè sono i soli che hanno le palle per affrontare i guerriglieri islamici sul campo.

Gli americani hanno sempre bisogno di 'punire' qualcuno, si tratti di Iran, di Milosevic, di Talebani, di Saddam, di Gheddafi. Sta nella loro cultura protestante. Un tempo, non tanto lontano, i bambini e le bambine riottosi venivano fustigati davanti a tutta la famiglia, a culo nudo per umiliarli (nelle scuole inglesi è esistita per tutto l'Ottocento e oltre, la pratica del 'flogging': frustare lo studente o la studentessa indisciplinati davanti a tutta la classe, con le vesti rialzate o i calzoni abbassati -Abu Ghraib si spiega anche così). Sono sempre lì a segnare 'linee rosse' invalicabili, 'diritti umani' inviolabili in nome di una morale (Saint-Just avrebbe detto una 'virtù') superiore, la loro. Io non riconosco agli americani alcuna superiorità morale. Hanno cominciato con un genocidio infame e vile (winchester contro frecce), usando anche le 'armi chimiche' del tempo (whisky) per distruggere un popolo spirituale come i pellerossa (e adesso si scandalizzano per gli iazidi). Durante la seconda guerra mondiale bombardarono Dresda, Lipsia, Berlino uccidendo volutamente milioni di civili col preciso scopo, dichiarato dai loro comandi politici e militari, di «fiaccare il morale del popolo tedesco». Sono gli unici ad aver usato l'Atomica, e Nagasaki venne tre giorni dopo Hiroshima quando si conoscevano i suoi spaventosi effetti. Sono l'unico Paese occidentale ad aver praticato la schiavitù in epoca moderna, scomparsa in Europa dalla fine dell'Impero romano. Hanno avuto l'apartheid fino al 1960, salvo scagliarsi subito dopo contro quella sudafricana che qualche ragione in più ce l'aveva.

Io non sto con l'Isis. Ma l'ipocrisia americana mi fa più ribrezzo dei tagliatori di teste islamici.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2014