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James Hansen, ex diplomatico di lungo corso, profondo conoscitore delle realtà internazionali, passato poi al giornalismo (ha lavorato per l’Herald Tribune e il Daily Telegraph) ha scritto in una sua “nota diplomatica”: “In Afghanistan ci sono andati tutti. Una lista, incompleta, comprende l’Impero macedone di Alessandro il Grande, l’Impero mongolo di Gengis Khan, l’Impero timuride di Tamerlano, l’Impero Mughal, vari imperi persiani, l’Impero britannico, l’Unione Sovietica e, più di recente, gli Stati Uniti. Se ne sono andati via tutti, malamente e sempre con la necessità di spiegare a casa come quattro straccioni afghani siano stati capaci di cacciarli”.

Fin qui Hansen. Possibile che gli americani che hanno centri studi e di ricerca ovunque, soprattutto in materia di strategia militare, non sapessero quello che sa Hansen e cioè che andare in Afghanistan è come mettere il piede nelle sabbie mobili e affondarvi?. L’ultima invasione, quella degli Occidentali, è particolarmente significativa perché l’esercito più numeroso che sia stato schierato dopo la Seconda guerra mondiale, dotato di armi tecnicamente sofisticate, è stato messo sotto dai talebani che avevano a disposizione il Kalashnikov, con cui non potevano raggiungere i B52 e i caccia che volavano a 10 mila metri d’altezza, e gli Ied. Avevano però una motivazione fortissima: difendere la loro terra e la loro indipendenza, quella motivazione che li ha sostenuti quasi dall’alba del mondo (la campagna di Kabul di Alessandro Magno è del 327-325 avanti Cristo).

Ma questa è storia del passato e del trapassato. Attualmente i new taliban, come vengono chiamati, hanno soppresso la coltivazione del papavero, da cui si ricava l’oppio, seguendo la linea del Mullah Omar che nel 2000 aveva preso e attuato concretamente questo provvedimento e la produzione dell’oppio era crollata quasi a zero. Poiché i media occidentali, a parte un fuggevole accenno di Sergio Romano, hanno sempre ignorato questo coraggioso provvedimento preso dal Mullah è utile vedere in proposito, a pro dei perenni increduli in malafede, il prospetto pubblicato il 17 maggio 2006 dall’insospettabile, in questo caso, Corriere della Sera.

Intanto il governo afghano ha messo a terra grandi progetti di ingegneria civile per la ricostruzione del Paese. In questo, aiutato dalla Cina, con cui confina, l’unico paese che non li abbia mai aggrediti. Del resto questo rapporto di buon vicinato conviene sia all’Afghanistan che alla Cina. I cinesi stanno scoprendo in Afghanistan grandi depositi di litio, diventato indispensabile per la produzione delle batterie e quindi per tutto il mondo digitale. Di recente una delegazione afghana (e quindi talebana) ha incontrato gli omologhi cinesi. Dalla Cina gli afghani sperano anche di ottenere il riconoscimento di Stato rappresentato all’Onu che gli è stato finora negato. Un’esclusione incomprensibile dato che perché esista uno Stato deve avere tre requisiti: un governo, un territorio, una popolazione. E l’Afghanistan li ha tutti e tre.

Scrive ancora Hansen che i talebani sono stati “mostrificati” -Hansen dice dai media americani io aggiungerei da tutti i media internazionali legati all’Occidente- per il modo in cui trattano le donne. Forse bisognerebbe capire una volta per tutte che quella afghana, non solo talebana, perché coinvolge tutte le etnie del Paese a cominciare dai tagiki del fu Massud, è diversa dalla nostra. Quando il Mullah Omar fu scalzato dal potere e diede inizio ad una resistenza durata vent’anni, il governo fu preso dai tagiki ma tutti gli afghani, tagiki, pashtun, hazara che fossero, si infuriavano a vedere che “le vispe terese” delle varie Ong sculavano a Kabul in Hot pants. La direzione di Tolo tv, l’emittente statale dell'Afghanistan, fu presa da un tagiko il quale si rifiutava di parlare con le sue redattrici.

Ora c’è da sperare che gli occidentali, tutti impegnati a sostenere il buffone di Kiev, non si rendano conto che i costumi afghani sono rimasti quello che sono sempre stati. Per ora sono distratti, occupati dalla guerra russo-ucraina, ma basta poco perché in nome della donna invadano di nuovo l’Afghanistan facendo la fine di tutti gli imperi possibili e immaginabili come ha segnalato Hansen. Se non ce l’ha fatta Gengis Khan, che non era uno che andava per il sottile, fece una trentina di milioni di vittime in Eurasia, figuriamoci se ci riusciamo noi con le nostre “volontarie” sculettanti. Da questo discorso va esclusa Emergency di Gino Strada che in Afghanistan tenne sempre una posizione equidistante, occupandosi di curare i feriti che erano soprattutto guerriglieri talib perché i militari occidentali erano curati negli ospedali sotto controllo degli occupanti, per cui si procurò la nomea di filo-talebano, così come oggi chi osa criticare Zelensky e il governo di Kiev viene immediatamente bollato come “filo-putiniano”.

Il Fatto Quotidiano, 3.10.2023

Sky

Clamoroso al Cibali: Chiara Martinoli è tornata sabato sera sugli schermi Sky. Per chi voglia saperne di più sulla grazia, femminile ma anche maschile, può leggere la voce sul mio Di(zion)ario erotico, uno dei miei migliori pezzi, forse il migliore in assoluto.

m.f

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Nei giorni scorsi una formazione di serbo-kosovari, definiti “criminali” dal Corriere, mentre sono degli indipendentisti come lo erano i russofoni del Donbass, ha teso un’imboscata ad agenti dell’esercito “regolare” del Kosovo. Risultato: un agente morto, sette assalitori uccisi nonostante si fossero rifugiati in una chiesa ortodossa e quindi non rispettando nemmeno il secolare “diritto d’asilo”.

La notizia è passata quasi inosservata sulle pagine degli esteri dei nostri giornali, tutti impegnati ad esaltare l’Ucraina del buffone Zelensky ai danni della Russia secondo diktat Usa. Non c’è articolo che non cominci, o non dia per presupposto, che “c’è un aggressore e un aggredito”, d’accordo ma c’era un aggressore anche nel 1999 proprio nei confronti della Serbia (Nato, cioè americani), c’era un aggressore, sempre Nato con i suoi satelliti, anche nel 2003 in Iraq, c’era un aggressore, anzi più aggressori, americani, francesi e italiani, nel 2011 quando fu invasa la Libia e ucciso Muhammar Gheddafi nel modo barbaro che conosciamo, ma in questi casi non si è mai fatta la distinzione fra “aggressore e aggredito” trovando per queste aggressioni motivazioni farsa e nomignoli grotteschi come “operazione di peacekeeping”, “operazione di polizia internazionale” (e per pietas nei confronti del lettore lascio perdere tutta la vicenda afgano-talebana).

La questione del Kosovo ha origine nelle guerre balcaniche fra croati, serbi e musulmani. Queste guerre avevano a loro volta alle spalle la disgregazione della Jugoslavia. Nel 1991 la Slovenia dichiarò la propria indipendenza dalla Jugoslavia di Tito senza colpo ferire, sempre nel 1991 la Croazia, cattolica, chiese ed ottenne dall’Onu l’indipendenza con l’appoggio della Germania e del Papa, il cosiddetto “santo padre”. Allora anche  i serbi di Bosnia chiesero quello che avevano ottenuto Slovenia e Croazia, l’indipendenza o la riunione con la madrepatria serba. Ma gli venne negata. E i serbi scesero in guerra. Quella guerra i serbi l’avevano vinta, perché a sentire gli addetti ai lavori, sono i migliori combattenti sul terreno. Ma intervennero gli americani che decisero di creare uno Stato inesistente, la Bosnia, che nella Jugoslavia era solo una regione, e trasformarono i vincitori in vinti. I serbi di Bosnia, oltre a quelle già accennate, avevano delle buone ragioni dalla loro parte: è ovvio che una Bosnia multietnica era concepibile solo all’interno di una Jugoslavia multietnica, una Bosnia multietnica a guida musulmana, integralista, era proprio una cosa che non si poteva vedé. L’accordo di Dayton del 1995, firmato da tutte le parti in causa ed in più dagli Stati Uniti e dalla Germania che non si capisce che cazzo c’entrassero, mise fine alle guerre balcaniche. Fu firmato anche, ovviamente, da Slobodan Milosevic che in seguito sarà mandato davanti al cosiddetto Tribunale Internazionale dell’Aja per “crimini di guerra”, il solito tribunale dei vincitori, e morirà in carcere per un infarto molto sospetto, diciamo un infarto alla Putin.

Non contenti di aver umiliato la Serbia in tutti i modi gli americani l’aggredirono, contro la volontà dell’Onu,  nel 1999, col pretesto del Kosovo. In Kosovo, terra serba da sempre, anzi “la culla della nazione serba”, i musulmani erano diventati maggioranza e chiedevano l’indipendenza e come in tutte le guerre partigiane facevano largo uso, legittimamente a mio vedere, del terrorismo, la Serbia rispondeva con l’esercito e gruppi paramilitari, le famose “tigri di Arkan”. Era una questione interna allo Stato serbo. Ma intervennero gli americani che decisero che i serbi avevano torto. Nei primi mesi del 1999 a Rambouillet fu proposto alla Serbia un trattato di pace assolutamente inaccettabile: la Serbia avrebbe dovuto rinunciare non solo ad ogni diritto sul Kosovo ma alla sua stessa sovranità. E fu la guerra. Per 72 giorni gli americani bombardarono una grande e colta (Kusturica, Bregovic) capitale europea come Belgrado (poi non ci si può lamentare se in una situazione quasi speculare Putin bombarda Kiev). Risultato: 5500 morti civili (l’esercito serbo, privo di contraerea, non aveva potuto rispondere) fra cui 500 albanesi, proprio quelli che si pretendeva di proteggere. E sotto questi bombardamenti ci furono gli eccidi che furono addebitati all’esercito serbo. In realtà ce ne fu uno solo, a Račak (45 vittime civili), ma la Cnn, seguita caninamente dalle televisioni italiane, lo ripresentava ogni sera, ma visto da prospettive diverse, per cui sembrava che gli eccidi fossero multipli, per aumentarne l’impatto sull’opinione pubblica.  

L’indipendenza del Kosovo è ratificata da 101 Stati su 193. La questione è quindi ancora aperta. È bene ricordare che il diritto su un paese non appartiene all’etnia che in quel momento ha la maggioranza, appartiene a chi quel paese ha contribuito a formare, lavorandoci sopra, altrimenti il Piemonte, qualora vi si imponesse una maggioranza di immigrati musulmani, dovrebbe essere tolto all’Italia e dato a questi ultimi.

Nel frattempo dei 300 mila serbi che abitavano in Kosovo ne sono rimasti 100 mila. La più grande “pulizia etnica” dei Balcani, dopo quella dal premier croato Tudjman che in un sol giorno cacciò 800 mila serbi dalle krajine. E questa volta complice è la KFOR, cioè le forze Nato che presidiano il Kosovo e nella KFOR sono presenti anche gli italiani con 850 soldati.

L’Europa intera dimentica di avere un grande debito di riconoscenza con i serbi. Fu la resistenza serba, durata tre settimane, a ritardare l’aggressione nazista alla Russia, tre settimane che furono fatali ad Hitler perché la Wehrmacht si trovò impantanata, come le armate di Napoleone, nell’inverno russo.

Particolarmente stolida è l’ostilità dell’Italia verso la Serbia. Noi italiani non abbiamo mai avuto contenziosi con la Serbia, gli abbiamo avuti con i fascisti croati che verso la fine della seconda guerra mondiale “infoibarono” i nostri, militari e soprattutto civili. Nei primi anni del Novecento in Serbia si guardava alla monarchia italiana come ad un esempio e si pubblicava un quotidiano intitolato “Piemonte”.

Gli scontri di cui abbiamo parlato all’inizio sono solo l’antipasto di ciò che verrà. Il sentimento generale serbo è quello espresso dal tennista Nole Djokovic: “Il Kosovo è serbo e sarà sempre serbo”. In attesa che si sveglino anche i serbi di Bosnia.

Ps. Una cosa intollerabile fu la scomunica della squadra jugoslava dagli europei di Svezia del 1992. Quella squadra era formata, fra gli altri, da Stojkovic, serbo, Savicevic, montenegrino, Prosinecki, croato, Jugovic, serbo, Boban, croato, Mihajilovic, serbo e dal basilare Bazdarevic, bosniaco, regista che  calmava i bollori di una squadra dove tutti, anche i terzini, erano votati all’attacco. Quella squadra aveva vinto tutte le partite delle qualificazioni, tranne una pareggiata. I ragazzi erano già in Svezia e per imposizione della FIFA e della UEFA furono cacciati a pedate. Un’ignominia calcistica che fa quasi paro con quelle, non sportive, di cui abbiamo parlato.

Il Fatto Quotidiano, 28.09.2023

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La questione dell’“autonomia differenziata” ha richiamato alla mia memoria Bossi, il senatur, il mio vecchio e caro Umberto, il solo uomo politico con cui abbia avuto confidenza (in linea di massima il giornalista deve tenersi alla larga dai politici, simpatici o antipatici che gli siano).

Quando la Lega al Nord cominciò a prendere quasi il 50 percento dei voti Bossi puntò all’indipendenza della mitica “Padania”. A differenza dell’usurpatore Matteo Salvini, un razzista antropologico, Bossi non era razzista. Disse “la Padania è di chi ci vive e ci lavora” senza andare a fare l’esame del sangue sulle sue origini. Si inventò anche dei riti e dei miti (“il Dio Po”, “l’ampolla”) poveri miti ma pur sempre meglio del nulla che su questo versante hanno offerto i partiti tradizionali. Erano miti sentimentali, non politici.

All’indipendentismo, fortemente appoggiato da Feltri e da me sull’Indipendente, Bossi rinunciò presto perché avrebbe portato a una guerra civile. Era un visionario, non un folle.

Le tre “macroregioni” Nord, Sud, Centro, coese per socialità, cultura e anche clima ci sarebbero state molto utili adesso dove con l’autonomia differenziata non si capisce più quali sono le competenze dello Stato mentre fra le Regioni ci si fa la guerra. Le “macroregioni” furono stoppate dall’ostilità compatta della partitocrazia (“le tre repubblichette”, copyright, ahimè, Ugo Intini, è la sorte delle idee intelligenti).

L’Indipendentismo di Bossi, coadiuvato da Gianfranco Miglio, grande costituzionalista, si inseriva in un progetto più ampio anche se, come quello di un altro grande visionario, Gianroberto Casaleggio, troppo in anticipo sui tempi (è destino dei precursori, Nietzsche vendette settantacinque copie dello Zarathustra, oggi quel libro profetico è il più venduto al mondo dopo la Bibbia che però ha una rendita di posizione). Bossi pensava che in un’Europa realmente unita, politicamente, i punti di riferimento periferici non sarebbero più stati gli Stati nazionali, che sarebbero scomparsi ma “macroregioni” europee coese, dal punto di vista sociale, culturale, climatico, eccetera. Non c’è nessuna ragione, per fare un paio d’esempi, che il Tirolo non sia unito sotto la bandiera di un'unica entità, quell’Europa politicamente unita che allo stato non c’è ancora ma a cui si dovrà necessariamente arrivare perché non sia stritolata dai grandi agglomerati, Stati Uniti, Cina, Russia, come la guerra ucraina dimostra, o che la riviera ligure di ponente non sia unita con le Alpi marittime francesi.

Bossi, anche se non era affatto un uomo semplice, conduceva una vita semplice. Emblematica è la foto in canotta in Sardegna con Berlusconi, il cui primo governo farà cadere con un esemplare discorso in Parlamento in perfetta lingua italiana. Quel discorso si concludeva così: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. Si illudeva povero senatur, e poveri noi (era il periodo in cui Bossi chiamava Berlusconi “Berluscaz”, “Berluschì”, “Berluscaso”, “Berluscosa”).

Uomo semplice, ho detto, dai gusti e dai modi semplici, la pizzeria era il suo luogo d’elezione. Ogni tanto, a me e a Daniele Vimercati, il suo primo biografo, verso mezzanotte, veniva in mente di chiamare l’Umberto e lui se non aveva altro di importante da fare arrivava, solo, senza scorta. Una volta mi telefonò dicendomi che voleva darmi la direzione dell’Indipendente sceso a livelli di tiratura molto bassi dopo il tradimento di Vittorio Feltri che, amante della lira, dell’euro, del dollaro come nessuno, aveva scelto Berluscaz. Gli dissi: “Beh, vieni a casa mia”. Ora, qualsiasi giornalista che abbia frequentato i politici sa che anche il più squallido dei portaborse ti fa passare per una decina di sottoportaborse che ti chiedono favori indebiti, altro che venire a casa tua. Quando fu da me l’Umberto, impressionato dalla mia libreria, volle fare il fenomeno e indicando un libro posto negli scaffali più alti disse: “Quella è La ragione aveva torto”. Non lo era, ma io gli risposi “Sì, Umberto, è La ragione” del resto Bossi, in fondo un timido, non aveva alcun bisogno di quegli escamotage. Era un grande assimilatore, prendeva da ciò che vedeva, sentiva, ascoltava e da quel poco che aveva letto o leggeva, ciò che gli serviva e lo riutilizzava poi ai suoi fini.

Una notte ero a cena con lui, in pizzeria naturalmente, e gli chiesi: “Sei più di destra o di sinistra?”. “Sono più di sinistra ma se lo scrivi ti faccio un culo così” (io poi lo scrissi, anche se qualche tempo dopo, mai dire nulla a un giornalista perché prima o poi lo tira fuori).

Bossi è un uomo di passione. E come tutti gli uomini di passione ha pagato con la salute. Nel 2004, a soli 63 anni, gli venne un primo ictus, piuttosto pesante. SI riprese. Venne a casa mia. E giocando ironicamente, perché l’ironia non gli mancava, rifacemmo lo sketch de La Ragione che questa volta indicò correttamente. Ma quella malattia alla lunga l’ha logorato. Ci incontrammo casualmente ai funerali di Gianroberto Casaleggio (2016). Quasi non mi riconobbe, ma quel che è peggio non riconobbe la mia bella segretaria di allora. E all’Umberto le donne, nordiste o sudiste che fossero, sono sempre piaciute (quando mi incontrava con belle ragazze diceva, sospettoso e ironico: “ah questi intellettuali…”).

AI funerali di Berluscaz mi ha fatto senso vederlo, ormai inerme, in carrozzella. Mi sento di dire che in un certo senso quel Bossi, ridotto com’era ridotto, era una fotografia dell’Italia attuale. Povero Umberto, poveri noi.

Il Fatto Quotidiano, 26.09.2023