0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Se fossi stato il direttore del Fatto non avrei pubblicato il numero speciale di Charlie Hebdo. Perché con questo non facciamo che allinearci alla roboante retorica del “Je suis Charlie”, che non costa niente, che, come la pletorica manifestazione di Parigi, con la rappresentanza di generali tagliagole come Al Sisi, manifesta solo la nostra paura ed è fuorviante. Charlie era sicuramente uno degli obbiettivi privilegiati per gli jihadisti -ed è stupefacente che la polizia francese non abbia provveduto a difenderlo adeguatamente- ma era solo uno degli innumerevoli possibili, tant'è che subito dopo è stato colpito un ipermercato kasher. La questione non riguarda la libertà di stampa, anche se noi giornalisti, autoreferenziali come sempre, l'abbiamo focalizzata lì. La questione sta altrove. E' da più di dieci anni che siamo all'attacco del mondo islamico: Afghanistan (2001), Iraq (2003), Somalia (2006/7), Libia (2011) e, da ultimo, non contenti ci siamo intromessi, con bombardamenti e droni, nella battaglia che l'Isis sta legittimamente combattendo sulle sue terre. E' da più di dieci anni che siamo in guerra, facendo centinaia di migliaia di vittime civili in campo altrui, ma siccome questa guerra non ci toccava, non colpiva i nostri territori, ce ne siamo fregati. Ora arriva l'inevitabile colpo di ritorno. Io mi ritrovo non nelle azioni, ma in una parte del 'testamento postumo' di Amedy Coulibaly: “Tutto quello che facciamo è legittimo. Non potete attaccarci e pretendere che non rispondiamo. Voi e le vostre coalizioni sganciate bombe sui civili e sui combattenti ogni giorno. Siete voi che decidete quello che succede sulla Terra? Sulle nostre terre? No. Non possiamo lasciarvelo fare. Vi combatteremo”.

Dovremmo riflettere sui nostri errori e sui nostri orrori perpetrati da anni. Altro che pubblicare un fac-simile di Charlie Hebdo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2014

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Scrivevo in agosto: “E’ evidente che se i caccia americani e i droni continueranno a bombardare i guerriglieri dell’Isis, sottraendogli una vittoria che si stanno conquistando legittimamente sul campo di battaglia, intromettendosi così in una guerra civile senza averne alcun titolo, essendone anzi la causa originaria per la sciagurata aggressione all’Iraq del 2003, l’Isis porterà la guerra in Occidente. Con le armi che, in questo caso, ha a disposizione: il terrorismo” (Il Gazzettino, 29/08/2014).

Dovevamo quindi aspettarcelo. E’ indubbio infatti il legame, diretto o indiretto, del piccolo manipolo, militarmente ben attrezzato, anche se logisticamente un po’ ingenuo, che ha attaccato Charlie Ebdo, con l’Isis o comunque con centri della galassia del radicalismo islamico che si sta estendendo a macchia d’olio in Medio Oriente e in Africa, dagli Shabaab somali, a Boko Haram in Nigeria, ai guerriglieri del delta del Niger, ai focolai, per ora minori, in Algeria (i due attentatori sono di origine algerina), nel Sinai, nello Yemen. Ed è sorprendente che la polizia francese si sia fatta trovare impreparata e maldestra nella difesa di un obbiettivo così ovvio come il giornale satirico diretto da Stéphane Charbonnier.

Pierluigi Battista sul Corriere (8/1) riporta un principio espresso dal filosofo Lucio Colletti, l’essenziale delle democrazie europee e occidentali è “la critica di se stessi”, anche se, nel suo articolo, come del resto in quelli di tutti gli altri commentatori, si guarda bene dal praticarlo. Ci proviamo noi.

Sono più di dieci anni che l’Occidente è all’attacco del mondo musulmano: invasione ed occupazione dell’Afghanistan, che non costituiva un pericolo per nessuno perché gli afghani, talebani o no, storicamente non sono mai usciti dai propri confini, aggressione ed occupazione dell’Iraq, sanzioni all’Iran, Somalia (per interposta Etiopia) nel 2006/7, Libia (2011), bombardamenti contro l’Isis che, al di là del fanatismo religioso, vuole ridefinire confini disegnati arbitrariamente dagli Inglesi nel 1930, fino al vergognoso appoggio al generale tagliagole egiziano Al Sisi che ha messo in galera i dirigenti dei Fratelli Musulmani che avevano vinto le prime elezioni libere in quel Paese e ha ucciso migliaia di suoi militanti bollandoli come terroristi (i Fratelli Musulmani non sono terroristi, di questo passo lo diventeranno).

Ovunque siamo intervenuti militarmente (Afghanistan, Iraq, Somalia, Libia - vero presidente Sarkozy?) in nome della libertà naturalmente, abbiamo fatto danni, non solo per il numero impressionante di vittime civili che abbiamo causato (650 mila solo in Iraq), ma perché abbiamo distrutto equilibri, disgregato società e culture, ponendo le basi per feroci guerre civili.

Cosa intendo dire con questo? Che è stata l’aggressività dell’Occidente a fomentare il radicalismo islamico contro di noi e ad allargarne le basi. E così ci siamo messi in una situazione pericolosissima. Perché abbiamo grandi eserciti, tecnologicamente avanzatissimi, ma difendersi da un terrorismo interno che ha le sue basi all’esterno è estremamente difficile perché gli obbiettivi possibili sono innumerevoli (l’altro giorno è toccato a Charlie Ebdo ma poteva essere qualsiasi altra cosa) e perché combattere il ‘terrorismo molecolare’, come l’ha definito il ministro Alfano, è come prendere a cannonate un moscerino.

Certo noi abbiamo il sacrosanto diritto di difendere la nostra libertà. Ma lo stesso diritto dovrebbe essere ammesso anche per altri popoli che hanno culture diverse dalle nostre e a cui noi pretendiamo di imporre, spesso in buona fede, istituzioni, principi, valori, costumi che sono loro estranei. E’ quello che ho chiamato ‘il vizio oscuro dell’Occidente’.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2015

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il ‘vizio oscuro’ dell’Occidente è, nell’interpretazione di Fini (scrittore attivo in Italia dal 1985 con ‘La Ragione aveva Torto?’ in cui mette in dubbio gli esiti e le conquiste dell’Illuminismo) la pretesa totalitaria delle Democrazie di omologare a sé, alle proprie istituzioni, ai propri valori, ai propri costumi, ai propri consumi, al proprio modello di sviluppo, l’intero esistente e quindi società e comunità che hanno storie, culture, tradizioni completamente diverse. L’Occidente non è più in grado di tollerare e nemmeno concepire, concettualmente prima ancora che praticamente, ‘l’altro da sé’. Questo totalitarismo ‘democratico’ globale non può avere come risposta che un altrettale totalitarismo, nelle forme del terrorismo globale.

Scritto nel 2002, solo un anno dopo l’11 settembre, ‘Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità’ si è rivelato un libro profetico. Dopo l’occupazione dell’Iraq del 2003, l’aggressione, per interposta Etiopia, alla Somalia nel 2006/2007, la defenestrazione violenta di Gheddafi nel 2011, il tentativo di rovesciare il dittatore Assad (tutte operazioni motivate ideologicamente -portare la democrazia in Paesi che non la conoscevano- anche se sottotraccia c’erano certamente anche interessi economici) è nato l’Isis, forse il più preoccupante fenomeno, per l’Occidente, dalla fine della seconda guerra mondiale, formazione di guerriglia cui accorrono ‘foreign fighters’ da tutto il mondo, mentre una parte dell’Africa è in rivolta contro di noi, dagli shebab somali, al nord Mali, al nigeriano Boko Haram che significa letteralmente “l’educazione occidentale è peccato”. Ma tutto ha inizio, secondo l’Autore, con l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan della fine del 2001 senza alcuna motivazione plausibile se non quella, meramente ideologica, di togliere di mezzo con la brutalità dei bombardieri e dei droni il tentativo del Mullah Omar di conservare, dopo dieci anni di devastante occupazione sovietica, le tradizioni del proprio Paese senza peraltro rifiutare alcune, poche, ma indispensabili conquiste della Modernità.

‘Sudditi. Manifesto contro la Democrazia’, scritto a seguire, solo due anni dopo (2004), si lega strettamente a ‘Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità’. La Democrazia ha tradito sé stessa o, per essere più precisi, il pensiero liberale da cui è nata, che intendeva valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell’individuo mentre si è ben presto trasformata in un sistema di oligarchie, politiche ed economiche, di aristocrazie più o meno mascherate, di lobbies che opprimono e schiacciano il singolo che non accetta di degradarsi a questi umilianti infeudamenti e che sarebbe il cittadino ideale di un democrazia se esistesse davvero e ne diventa invece la vittima designata. Questa degenerazione della Democrazia è particolarmente evidente in Italia (peraltro Paese laboratorio: qui nacque, fra il 1200 e il 1400, la classe dei mercanti, preludio al sistema capitalistico di mercato; qui nacque il fascismo, padre di tutti i totalitarismi di destra europei) ma sta contagiando anche le altre democrazie. Persino negli Stati Uniti la leadership sta assumendo un carattere dinastico come ai tempi delle monarchie europee: prima Bush padre, poi Bush figlio, prima Clinton marito, poi, probabilmente, Hillary o Jeb Bush. Ma la Democrazia, nella visione di Fini, non è che l’involucro, più o meno luccicante, che avvolge la polpetta avvelenata: il modello di sviluppo economico che partito dall’Inghilterra a metà del XVIII secolo ha ormai egemonizzato, con una vorticosa cavalcata durata due secoli e mezzo, quasi l’intero pianeta e che oggi, con la globalizzazione, sembra arrivato alla sua piena maturazione. Un modello di sviluppo paranoico che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura. Per cui l’uomo, degradato a consumatore, è costretto –per l’intrinseca necessità del modello- a non avere mai un momento di pace, di quiete, di armonia, perché raggiunto un obiettivo deve immediatamente inseguirne un altro e poi un altro ancora, salito un gradino a farne un altro e un altro e un altro in una scalata che non ha fine se non con la sua morte. E’ un sistema che ha come molla dominante l’invidia come afferma esplicitamente, ma dandogli un connotato positivo, Ludwig von Mises uno dei più estremi ma anche coerenti teorici dell’industrialcapitalismo.

Per certi versi il pensiero di Fini si avvicina a quello dei libertarians americani che vorrebbero affrancare totalmente l’individuo dallo Stato e in pratica abolirlo (“Lo Stato? Il più freddo di tutti i mostri” scrive Friederich Nietzsche) ma se ne differenzia radicalmente perché il suo punto di arrivo non è la libertà economica (c’è anche quella nella sua filosofia) ma piuttosto il benessere esistenziale. In Europa a metà del 1600, un secolo prima del take off industriale, i suicidi erano 2,6 per 100 mila abitanti, a metà dell’Ottocento erano saliti a 6,9, triplicati, oggi sono 20 per centomila abitanti, decuplicati (sarebbe interessante una statistica del genere negli Stati Uniti, tenendo conto ovviamente delle differenze perché l’America è un Paese che nasce in pratica a cavallo della Rivoluzione industriale e quindi non sono possibili raffronti con un passato precedente), l’alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale, nevrosi e depressione sono malattie della Modernità che colpiscono, all’inizio del Novecento, prima i ceti benestanti e in seguito dilagano nell’intera società, il fenomeno inarrestabile della droga è sotto gli occhi di tutti.

Massimo Fini non pretende di avere la Verità in tasca. Pone delle domande, insinua dei dubbi, invita a rivedere certe nostre confortanti certezze e, più in profondità, a riflettere sulla condizione dell’uomo occidentale.