Domani Papa Wojtyla verrà canonizzato a soli otto anni dalla morte. Un tempo la Chiesa ci metteva decenni se non addirittura secoli prima di proclamare qualcuno Santo. Ma la gente (e non solo i cattolici) voleva Wojtyla 'santo subito'. E così è stato. Sembra che non sia più la Chiesa a indirizzare gli uomini, ma gli uomini a indirizzare la Chiesa.
Premesso che parlo 'in partibus infedelium' a me pare che la Chiesa abbia perso la sua proverbiale prudenza, e sapienza, per inseguire quasi tutti gli 'idola' della mondanità e della modernità, fra i quali la velocità e la spettacolarizzazione mediatica hanno una parte di primo piano. Proprio Wojtyla ne è stato un emblematico e paradossale esempio. Il Papa polacco, nelle sue strutture più intime e profonde, era portatore di valori spirituali forti, antichi, tradizionali, premoderni, addirittura pretridentini e quindi particolarmente adatto a rilanciare la Chiesa in un'epoca in cui di fronte a una modernità trionfante, dilagante, egemonizzante, che ha fatto terra bruciata del sacro e che sembra travolgere tutto, per contraccolpo si fa sentire prepotente il bisogno di un ritorno a quei valori religiosi o comunque a dei valori che la società laica non ha saputo dare. Inoltre Wojtyla è stato di grand lunga il Papa più popolare del dopoguerra. Eppure mentre la popolarità di Wojtyla è andata sempre crescendo, fino all'apoteosi della sua esibita agonia e della sua morte, nello stesso tempo, parallelamente e quasi in correlazione, sono crollate le vocazioni (crisi del sacerdozio e degli ordini monacali) e la fede, almeno in Occidente, si è intiepidita fino a ridursi, in molti casi, a vuota forma.
La Chiesa in generale e Papa Wojtyla in particolare non sono stati in grado di intercettare quelle montanti esigenze di spiritualità, tanto che sempre più spesso in Occidente molti giovani e meno giovani (direi soprattutto nella fascia fra i 40 e i 50) si volgono verso le religioni orientali, verso il buddismo, verso l'islamismo, oppure si lasciano attrarre dai fenomeni di quella che viene chiamata comunemente la 'New Age', dall'esoterismo, dalla magia, dal satanismo e addirittura dall'astrologia, per cercare in qualche modo, un modo povero, confuso, lontanissimo dalla sapienza e dalla raffinatezza psicologica della Chiesa di Paolo, di soddisfare quel bisogno di metafisica.
Come si spiega questo paradosso: un Papa Supestar e una Chiesa che ha visto aggravarsi la sua crisi proprio durante il suo pontificato? Ciò che ha offuscato il messaggio spirituale di Wojtyla e il suo tradizionalismo, divenuto a un certo punto puramente teorico o troppo intimo per essere colto, è stato l'uso a tappeto, spregiudicato e anche abbondantemente narcisistico, dei mezzi di comunicazione della modernità (Tv, jet, viaggi spettacolari, creazione di 'eventi', concerti, gesti pubblicitari, 'papamobile', 'papaboys') per cui, se è vero, come dice McLuhan, che 'il mezzo è il messaggio', ha finito per confondersi totalmente con essa. Quando un Papa partecipa, sia pur per telefono, alle trasmissioni di Bruno Vespa perde in credibilità quanto guadagna in popolarità.
Una conferma clamorosa che Giovanni Paolo II avesse una scarsa presa spirituale, in contrasto con la sua enorme popolarità, si è avuta nelle vicende della guerra all'Iraq, contro la quale Wojtyla tuonò più volte nel modo più fermo, senza peraltro riuscire a impedire al cattolicissimo Aznar di parteciparvi.
Papa Wojtyla è stato popolare come lo può essere oggi una grande pop star, ma dal punto di vista spirituale la sua parola ha avuto il peso di quella di una pop star. O poco più.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2014
Elisabetta II d'Inghilterra ha compiuto 88 anni. Ho sempre avuto una grande ammirazione, anzi un'autentica passione per Elisabetta. Solo una vera regina può portare quegli orribili cappellini demodè e quegli abiti color pastello, rosa, verde senza rendersi ridicola. E' dotata di un autocontrollo eccezionale e di una resistenza fisica e nervosa che le consente ancor oggi di presenziare per ore a noiosissime cerimonie senza dar segni di insofferenza, di fastidio, di malumore, ma anche senza ridere perché a una regina non è consentito. In 72 anni di regno non le ho mai visto sbagliare un colpo. Tantomeno il giorno dei funerali di lady Diana che diedero, così grandiosi e insieme così composti, con i quattro uomini, Filippo di Edimburgo, Carlo e i due principini a seguire il feretro, la dimensione di un popolo. Il suo lieve ma percettibile inchino al passaggio della bara davanti a Buckingham Palace resta memorabile. Un inchino, ma diverso per tono e significato, lo vidi fare da Elisabetta a Milano quando, accompagnata dal presidente Ciampi, passò davanti alla Prefettura dov'era esposta la bandiera italiana. Il cafone livornese, colto di sorpresa, tentò tardivamente e goffamente di imitarla, riuscendo solo a sottolineare l'abissale distanza di stile.
Non credo che Elisabetta ami particolarmente il protocollo, il dover indossare a volte abiti paradossali e grotteschi come quello dell'Ordine della Giarrettiera, non poter manifestare in nessuna occasione publica le proprie opinioni politiche e nemmeno le sue emozioni. Ma sa che il suo mestiere è quello di regina e che è suo dovere onorarlo fino in fondo. Che è quanto non aveva capito la povera Diana, ragazza dei nostri giorni, la cui tragedia si poteva leggerle sul volto, dietro la veletta bianca, già il giorno delle nozze con Carlo. Le limitazioni di un sovrano sono infinite. E' un prigioniero di lusso. Perché è un simbolo e per un simbolo la forma è sostanza.
Elisabetta durante il conflitto delle Falkland lasciò andare il principe Andrea in guerra a rischiare come gli altri.
La giornata di Elisabetta è costellata di impegni cui non può sottrarsi. Legge tutti i dossier che le arrivano dal premier, dai ministri, dagli ambasciatori, dai servizi segreti, dai governanti del Commonwealth, firma tutti i documenti, risponde personalmentem o con l'aiuto delle dame di compagniam alle lettere, riceve visite, conferisce onoreficenze a 150 persone per volta e deve prepararsi perché a ognuna deve saper dire qualcosa. Di questi impegni protocollari la regina ne ha circa 400 l'anno. L'unico sfizio che si concede è di precipitarsi la mattina appena alzata, alle 7 e 30, su Sporting Life, che tratta solo delle corse dei cavalli, passione ereditata dalla regina madre. Ma in fondo anche questa passione per i cavalli e i cani di razza è perfettamente inglese (il principe Carlo ha una faccia assolutamente equina). Fino a non molto tempo fa le piaceva guidare personalmente la sua Jaguar e, a quanto pare, guida benissimo. Nel 1945, a guerra ancora in corso, fece il servizio militare in un corpo ausiliario e fu addestrata come autista. In fondo è una donna pratica. Dai gusti semplici (le piacciono i gialli, i programmi comici e i vecchi film). E' una brava massaia. Attenta, risparmiosa, se non addirittura tirchia.
Fra i compiti di una regina c'è anche quello di fare figli. Lei ne ha sfornati quattro. Nessuno può sapere, tranne gli intimi, se Elisabetta è anche una donna intelligente. Ma un Re non è obbligato a essere intelligente. Deve saper fare il Re. E a me pare che Elisabetta II d'Inghilterra, pur regnando in tempi tanto diversi, sia una degna erede di suo padre, quel Giorgio VI che durante i devastanti bombardamenti tedeschi su Londra del 1942 restò ostentatamente nella capitale per infondere fiducia e coraggio ai suoi sudditi. God save the Queen.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 25 aprile 2014
Da ieri al Sistina si ridà per l'ennesima volta Jesus Christ Superstar. Io lo vidi a Londra nel 1972 in un teatro del West End prima che nel 1973 se ne facesse un film che gli diede fama internazionale. Ma a teatro è meglio perché è più essenziale. Eravamo un gruppo di ragazzi e ragazze a Londra per perfezionare il nostro inglese. Jesus era in scena da tre giorni. Prendemmo i biglietti e andammo. Allora era tutto più semplice, oggi per un concerto di Zucchero devi prenotarti sei mesi prima.
Jesus Christ Superstar è la più perfetta opera hippy. Non a caso è coeva alla 'grande Olanda' dei Neeskens, dei Cruijff, dei Krol, l'Olanda del 'calcio totale', che non ha nulla a che vedere con l'andirvieni monotono e scontato dei terzini di oggi, dove i giocatori facevano tutti i ruoli, il portiere Jongbloed, un pazzo, stava costantemente nel cerchio di centrocampo, e giocavano per divertirsi, dentro e fuori del campo e in ritiro portavano le mogli e le fidanzate, cosa proibitissima allora. L'Olanda hippy appunto. Che perse due finali mondiali perché le giocò sul campo dei padroni di casa nel 1974 con la Germania, che perlomeno era una grande Germania, con Beckenbauer e Breitner, e con gli assassini dell'Argentina che falciarono subito Neeskens che dovette giocare tutta la partita col braccio al collo (ah, quel palo di Resenbrink all'ultimo minuto, dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che Dio non esiste, il che ha qualcosa a che vedere con Jesus Christ Superstar). Il movimento hippy era nato in realtà negli anni Sessanta ma trovò le sue migliori espressioni, Jesus Christ appunto e il calcio olandese, quando ormai era finito ed imperversavano i sessantottini e postsessantottini che sbandieravano Marcuse senza averlo letto nè tantomeno capito (per questi imbecilli Adorno e Horkheimer erano già troppo).
Il Cristo di Jesus è un borderline, uno che delira, che crede veramente di essere figlio di Dio. Memorabile è la scena in cui Ponzio Pilato, in tunica rossa, infligge, su un parterre a scacchi blu e rossi che somiglia a un flipper, le famose 39 frustate a Cristo, che si è spogliato della veste bianca, perché la smetta di dire che è figlio di Dio. Pilato in realtà vuole salvarlo perché il mob, alias gli ebrei, ne pretende la crocefissione per questa blasfemia. Sullo sfondo ballano ragazzi inglesi, capelli lunghi, tipo Beatles. E' il coro greco in versione moderna. Ma Cristo Superstar non può rinnegare se stesso. Alla fine Pilato gli dice «You are foolish Jesus Christ. How can I help you?» se sei così testardo, non ti rendi conto che la tua vita è nelle mie mani? «You have nothing in your hands. Everything is fixed and you can't change it». Cosa che farà dire a Giuda, in un passaggio precedente, quando si impicca: «Se ogni cosa è già stata stabilita allora tu Cristo, se sei veramente il figlio di Dio, sei il mio assassino (you have murdered me)». Ma Cristo non è il figlio di Dio. E' solo uno che crede, da folle, di esserlo. E questo rende ancora più commovente il passo del Vangelo quando Cristo, inchiodato sulla croce, dubita, umanamente dubita: «Padre, padre. Perché mi hai abbandonato?».
Jesus Christ Superstar fa piazza pulita di tutti i luoghi comuni della Chiesa cattolica, del suo insopportabile senso di colpa -Giuda (il bello del senso di colpa è che la pena ricade sempre sulla testa degli altri) dà agli ebrei la parte di fanatici che ebbero in quell'occasione, restituisce a Pilato il ruolo, degno, che ebbe e soprattutto all'uomo, impersonato da Jesus Christ, la sua umanità.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2014