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Nei giorni scorsi il direttore del Parco archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, intervistato dal Corriere nella fatidica data dell’8 marzo, alla domanda di quale fosse il ruolo della donna nella società romana, ha affermato che veh, sì, le donne avevano un certo spazio perché partecipavano ai banchetti. Stupisce una risposta così superficiale e banale da parte di un uomo colto quale è certamente Zuchtriegel. Perché nel diritto civile romano c’era un’assoluta parità di genere: la donna poteva divorziare senza dover avere il consenso di nessuno, la terza moglie di Nerone, Messalina, veniva dal quinto divorzio. In Italia per arrivare a legalizzare il divorzio abbiamo dovuto aspettare il 1970 e quella legge, qualcuno lo ricorderà, dovette anche superare un referendum abrogativo. La donna poteva abortire, sia pure col consenso del marito o del convivente (all’”utero è mio me lo gestisco io” i Romani non erano ancora arrivati) e quell’accenno al “convivente” ci dice che in Roma esistevano le coppie di fatto, del resto l’espressione more uxorio deriva proprio dalla lingua latina. La libertà sessuale era assoluta sia per gli uomini che per le donne. Praticamente l’intera società romana era bisessuale, bisessuali erano gli uomini, bisessuali le donne anche se la bisessualità femminile rimaneva più nascosta, non per ragioni di diritto o di costume, ma perché più nascosto è il loro sesso.

Solo una vecchia zia moralista come Tacito, una specie di Enzo Biagi dell’antichità solo che scriveva un po’ meglio, poteva scandalizzarsi perché Nerone, anche in questo un apripista, si faceva inchiappettare (o inchiappettava) da segretari e servi. Si sa che Nerone era un grande appassionato d’arte (si vada a vedere, per tutte, la Domus aurea). Ma per Tacito l’arte che piaceva a Nerone era “arte degenerata”, insomma Hitler non avrebbe potuto dir meglio. L’unico limite, non di diritto ma di costume, era che se il padrone aveva rapporti sessuali con un servo o uno schiavo, doveva avere la parte del pistillo e non della corolla. Di qui le reprimende tacitiane contro Nerone che non faceva differenze, insomma anche nel sesso era più democratico.

Nell’Olimpo tutti scopano con tutti, non aveva una buona reputazione Minerva, troppo rigida, troppo catafratta nella sua intelligenza, però Diana, la casta, era rispettata. Ma la dea che i Romani più veneravano era Venere, la dea dell’Amore. Innamoratosi di una deliziosa fanciulla, Europa, Giove si travestì da toro e rincorrendola la raggiunse dalle nostre parti, da cui il nome del nostro Continente.

Pari nel diritto privato, le donne erano invece discriminate nel diritto pubblico. Non potevano assumere cariche pubbliche, cioè il ruolo di questore, di pretore, di edile, cioè percorrere il cursus honorum che portava alla carica massima, il consolato. Ma manovravano dietro le quinte indirizzando le scelte dei loro mariti o conviventi, un po’ come avviene oggi con la mafia. Insomma quella romana era una società sostanzialmente matriarcale, com’è matriarcale oggi la società americana.

Credo che noi dovremmo studiare un po’ di più il diritto romano, del resto i Latini sono gli inventori del diritto e studiando il diritto romano, così come se si studia il diritto di qualsiasi paese, si penetra a fondo in quelle mentalità. Quello romano è un diritto contadino, pragmatico, che, poniamo nei processi, privilegia la rapidità delle procedure (ha il “giusto processo”) rinunciando a una verità giudiziaria assoluta, che non esiste né nel diritto né in natura. Nel diritto giustinianeo, ma qui siamo ormai fuori dalla latinità, si pretende invece la certezza assoluta delle sentenze, un diritto, è proprio il caso di dirlo, bizantino, che è zeppo di ricorsi, di controricorsi, di appelli, di revisioni, di controrevisioni, che finisce per essere inapplicabile proprio a causa della sua durata, perché nel frattempo i testimoni sono morti o non ricordano, le carte ingiallite, spesso illeggibili o affondate in chissà quale armadio.

Molte altre cose dovremmo imparare dal diritto e dal costume romano, anche e forse soprattutto in politica estera. Il più grande Impero di quei tempi conquistava territori, chiedeva che le nuove province pagassero le tasse in termini di frumento, ma non pretendeva di cambiare i costumi, le tradizioni, le istituzioni dei popoli assoggettati. Questo dovrebbero imparare gli occidentali e soprattutto gli americani che pretendono di imporre i loro valori, in particolare la democrazia con tutto ciò che ne consegue, all’universo mondo. Negli ultimi trent’anni gli americani, e noi dietro come reggicoda, non hanno fatto solo guerre di conquista, e questo si comprende, ma anche guerre puramente ideologiche. Quella all’Afganistan talebano è esemplare: non ci piacevano i costumi di quella gente e poiché non ci piacevano i costumi di quella gente abbiamo occupato per vent’anni quel Paese, uscendone con la più vergognosa e umiliante delle sconfitte. Una lezione che dovrebbe far meditare.

Spero che Eva Cantarella, la più grande latinista vivente, non mi bacchetti perché ho osato parlare di diritto romano, ma soprattutto temo il giudizio di Piercamillo Davigo e di Travaglio che è il più grande esperto di diritto al mondo, tanto che quando parlo di diritto, io che sono pur sempre laureato in Giurisprudenza, per certe situazioni complicate, che proprio nel groviglio di norme fan la gioia degli avvocati, mi rivolgo a lui.

Questa volta non l’ho fatto. Che il Ciel mi assista.

 Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2024

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Clamoroso al Cibali: la Marina militare italiana ha abbattuto un drone. Il protagonista di questa eroica prestazione è il capitano di vascello Andrea Quondamatteo, di San Benedetto del Tronto, comandante della Caio Duilio che opera attualmente nel Mar Rosso. L’azione è parsa così meravigliosa che il Corriere della Sera, non il giornalino di parrocchia di San Benedetto, ha pensato di dedicargli un’intervista a tutta pagina. Qui il capitano Quondamatteo, fingendo modestia, ma trasudando orgoglio (l’ordine dell’abbattimento l’ho dato io, proprio io, solo io, non il contrammiraglio Stefano Costantino, mio superiore diretto) ci informa di tutti i dettagli tecnici dell’operazione, ecoradar, telecamere a infrarossi, ma per esser certi del risultato si è avuto bisogno dell’“apprezzamento ottico”, cioè di vedere con i propri occhi che il micidiale drone era caduto in mare. Il timore del capitano Quondamatteo era di colpire un drone amico, tedesco, francese o degli altri Paesi che partecipano alla “missione Aspides”. Forse c’è qualche difetto di collegamento tra la nostra Marina e le altre che operano nel Mar Rosso. Che il drone non fosse amico lo si poteva dedurre facilmente dalla sua direzione, partito dallo Yemen stava solcando il Mar Rosso proprio, o bella, o orrore, nella nostra direzione.

Il comandante della Caio Duilio è stato sommerso dalle congratulazioni: del governo italiano, dei comandanti delle navi Jolly Rosa e Grande Baltimora, dell’ammiraglio Enrico Credendino, capo di stato maggiore della Marina Militare (il contrammiraglio Stefano Costantino, diretto superiore del Quondamatteo, si è prudentemente e saggiamente astenuto, sembrandogli, probabilmente, che troppo fosse il clamore creato da quell’abbattimento). Sui social il capitano Quondamatteo è stato paragonato a Mosè che divise le acque del Mar Rosso e anche a qualche eroe omerico, tipo Achille. Ora della tipologia dell’eroe il capitano Andrea Quondamatteo non ha proprio le caratteristiche. Ha un fisico che, almeno in fotografia, appare qualunque e più che a Ettore o ad Achille somiglia a Enrico Letta o piuttosto al capitano Rigoletto, protagonista di uno straordinario racconto di Dino Buzzati che fotografa, si per dire, la modestia fisica dei comandanti di una grandissima operazione probabilmente atomica. Buzzati, a me par di capire, aveva intuito che nella guerra moderna, tutta tecnologica, il valore fisico sarebbe andato a scomparire.

Ma se un solo drone ci mette in allarme, vuole complicatissime operazioni di collegamento e di raccordo con gli eserciti nostri alleati e addirittura un “apprezzamento ottico”, che dovrebbero dire i comandanti della difesa ucraina che ne affrontano ogni giorno almeno un centinaio?

Il fatto è che noi italiani non siamo più preparati alla guerra. Quando ci capita, spinti a calci in culo dagli americani, treschiamo subito col nemico come abbiamo fatto in Afganistan stringendo patti leonini con i comandanti talebani o in Libano all’epoca della missione, nel 1983, del generale Angioni. Il tradimento, il passare dall’altra parte, quella del vincitore, sta nei nostri geni, intesi come struttura del Dna, non come intelligenze superiori, vedi la prima e la seconda guerra mondiale (pugnalare l’alleato mentre si combatte per la vita o per la morte, fosse pure tedesco e nazista per soprammercato, non mi è mai parsa un’azione lodevole).

Non essere più preparati alla guerra, perché in Europa dal 1945 in poi non ce ne sono state, fino all’aggressione russa all’Ucraina, sembrerebbe di per sé un bene. Ma è anche un male perché la guerra serve, nella vita pubblica e anche privata, ad avere il senso delle proporzioni. Quello che è mancato al governo italiano, ai vari media che si sono lanciati in elogi turibolanti e allo stesso Rigoletto.

Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2024

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Berlusconi è morto e consuma il suo Eterno Riposo nel mausoleo di Arcore, ma la sua anima, sarebbe meglio dire il suo spirito, aleggia ancora, se non in Cielo, perché sarebbe azzardatissimo dire quale posto occupi l’ex Cavaliere in quel lontanissimo e remoto Empireo, perché innanzitutto bisognerebbe dare per presupposto che esista un Cielo e che in quel luogo si eserciti, oltre a quello di primo grado, l’Appello, la Cassazione, la Revisione, la Corte internazionale dei diritti dell’uomo, anche un sesto e insindacabile giudizio, il Giudizio Universale, che dovrebbe punire alla fine dei Tempi i disonesti, i corrotti, i corruttori, i truffatori di ragazze minorenni ed orfane, e premiare coloro che in vita si sono comportati correttamente, cioè gli eterni fessi, insieme ai risparmiatori, ripagati, secondo il Verbo del Cristo, perché “è dei poveri di spirito il Regno dei Cieli” e poi “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco varchi la porta del Paradiso”. Campa cavallo, anzi cammello, perché per avere un po’ di giustizia dovremmo aspettare la fine dei Tempi.

Comunque, se non si può sapere se lo spirito di Berlusconi aleggi nel Regno dei Cieli, non si sa mai, agisce, e molto concretamente, nient’affatto spiritualmente, sulla Terra. Si sa che a Berlusconi i magistrati non sono mai stati molto simpatici. Li definì “antropologicamente pazzi”, non esseri umani in senso proprio, così come non gli è mai andata a genio la Magistratura nel suo complesso, per cui, lui premier, in terra di Spagna definì il legittimo, anzi doveroso, agire di Mani Pulite “una guerra civile”. Queste sì sono cose che non stanno né in Cielo né in Terra e che possono avvenire solo in Italia. In nessun altro Paese sarebbero passate senza qualche bacchettata del Presidente della Repubblica, da noi niente, aggiungendo così brace al fuoco della protervia berlusconiana cui contribuì parecchio Vittorio Feltri per cui per anni, sul Giornale da lui diretto (ho la raccolta completa), non c’era errore di un magistrato, commesso sia pure in Nuova Zelanda, che non trovasse posto in prima pagina.

Adesso sull’onda dello Spirito berlusconiano si riaffaccia la proposta di un test psicologico non solo per chi sta facendo tirocinio per entrare in magistratura, ma anche, come pare di capire nel confusissimo dibattito che questa proposta ha generato, ai magistrati già in servizio. Si è parlato anche di un Tso per costoro.

È ovvio che se passasse questa proposta, che vede come capofila, non a caso, un senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, appena un Pm prendesse un’iniziativa sgradita o un giudice deliberasse in modo altrettanto sgradito, si scatenerebbe mediaticamente e anche politicamente la caccia al magistrato. Emblematico è il caso del giudice Raimondo Mesiano, nel 2009, che aveva condannato Fininvest a risarcire la Cir di De Benedetti. Dopo un’udienza fu pescato da una troupe di Mediaset seduto su una panchina mentre fumava e gli si vedevano, sotto il risvolto, dei calzini color turchese. Segno inequivocabile, secondo la troupe di Mediaset, ripresa poi da altri media berlusconiani, di un’instabilità mentale. La troupe fu poi condannata per violazione della privacy e il direttore di Videonews, Claudio Brachino, fu sospeso dall’Ordine dei giornalisti. Ma intanto la minaccia mafiosa era arrivata. Stessa sorte era toccata a John Henry Woodcock, non a caso di origine inglese, uno dei nostri magistrati più irreprensibili, non rilascia interviste e quando lascia la città dove vive per una qualche indagine non ne informa nemmeno la propria fidanzata. Il giovane magistrato (allora era giovane, oggi ha 56 anni) fu pescato mentre inforcava una moto, non era normale.

Da Mani Pulite in poi si è fatta una lotta senza quartiere alla Magistratura, da parte dei berluscones ma non solo, che continua ancora oggi, come la proposta del “test attitudinale” dimostra.  

Berlusconi è morto e sia pace all’anima sua, il berlusconismo no e “lotta insieme a noi”, i mascalzoni.

Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2024