0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

La guerra è comune a tutti gli esseri, è la madre di tutte le cose. Alcuni li fa dei, gli altri li fa schiavi o uomini liberi (Eraclito).

“La guerra è una costante della storia. Non c’è periodo, arcaico o moderno, non c’è società, primitiva o tecnologica, non c’è regime, dittatoriale o democratico, aristocratico o popolare, monarchico o repubblicano, che non abbia conosciuto la guerra… Infondata è la convinzione, abbastanza diffusa ed espressa da ultimo da Norberto Bobbio, che le democrazie siano refrattarie alla guerra e vi vengano trascinate per i capelli dai regimi totalitari… Se si a ben vedere, la democrazia ateniese fu ferocemente bellicista, la coscrizione obbligatoria nasce proprio con la Rivoluzione francese (Napoleone) e alla guerra ’14-’18 parteciparono con entusiasmo anche le democrazie, al contrario, non si può negare che alcune dittature, come quelle dell’America latina, siano state, e siano, tendenzialmente pacifiste… E’ vero che la frequenza della guerra (oltre che, ovviamente, la sua capacità devastante) aumenta col passaggio dalle società arcaiche a quelle più evolute e che la propensione alla guerra è direttamente proporzionale al grado di civilizzazione”. Tanto più una società raggiunge, culturalmente, l’apogèo della sua civiltà, tanto più è guerrafondaia e nel modo più feroce. Ne è dimostrazione il nazismo che operò in decenni in cui la cultura tedesca, partorita dall’Illuminismo, soprattutto filosofica (Kant, Hegel, Fichte, Schopenhauer) fu egemone sopraffacendo quella francese e anche quella italiana che se si esclude Leopardi, questa straordinaria figura di poeta e di filosofo, ha partorito pochissimo (Vico coi suoi modesti ‘corsi e ricorsi’). In epoca rinascimentale l’Italia è stata fortissima nell’estetica (da Vinci, Michelangelo, Raffaello per dire solo di alcuni) ma non nell’introspezione psicologica (bisognerà aspettare Freud, che non per nulla è tedesco, Nietzsche, Dostoevskij con le sue Memorie del sottosuolo). In realtà, se si va a ben vedere, i nostri grandi artisti rinascimentali (se si esclude Leonardo da Vinci, un genio universale, forse il più grande di tutti i tempi) erano, di fatto, fermi al loro tempo mentre al nord, Bosch, anticipava di quattro secoli la psicoanalisi (La nave dei folli, attualmente al Louvre).

La guerra è uno straordinario strumento per scaricare l’aggressività che è essenziale alla vitalità. Se si comprime troppo l’aggressività poi saltan fuori “i delitti delle villette a schiera” come li ha chiamati Guido Ceronetti.

La guerra è uscita dalla noia, dal tran tran quotidiano. “In una società di massa e di diritto, come la nostra, dove la vita è necessariamente omologata, appiattita, regolamentata fino all’ultimo respiro, garantita ‘dalla culla alla tomba’, la guerra è stata sentita come uscita dalla noia. Scrive in proposito Erich Fromm, che pur è un pacifista a tutto tondo: ‘Vi sono altre motivazioni emozionali, più sottili, che rendono possibile la guerra, pur non avendo niente a che fare con l’aggressione. La guerra è eccitante persino se implica il rischio di perdere la vita e grandi sofferenze fisiche. Considerando che la vita della persona media è noiosa, tutta routine e senza avventure, l’atteggiamento di chi è pronto ad andare in guerra deve essere inteso anche come il desiderio di mettere fine al noioso tran tran della vita quotidiana, di lanciarsi nell’avventura, l’unica avventura, in realtà, che la persona media può aspettarsi in tutta la sua vita. In una certa misura, la guerra rovescia tutti i valori. Incoraggia l’espressione di impulsi umani profondamente radicati, come l’altruismo e la solidarietà, impulsi che vengono mutilati dal principio dell’egocentrismo e della competizione indotti nell’uomo moderno dalla vita normale in tempo di pace. In guerra l’uomo è nuovamente uomo’. Un’altra attrattiva psicologica della guerra è di costituire un tempo d’attesa, un tempo sospeso, la cui fine non dipende da noi, al quale ci si consegna totalmente e che ci libera d’ogni responsabilità personale. E’ un po’ come durante l’università o il servizio militare: il tuo compito è di attenderne la fine, nient’altro. Così, in un certo senso, in guerra ‘ha da passà ‘a nuttata’, non ci sono obblighi se non quello di sopravvivere, non si tratta che di aspettare. Kunkurrenzkampf, responsabilità, doveri, incombenze, dilemmi, scelte, problemi della vita civile sono lasciati alle spalle, con tranquilla coscienza, perché sono rimandati a una scadenza, la fine della guerra, sulla quale nulla possiamo. Scrive Bouthoul: ‘L’individuo… è sottratto alla meschinità della vita quotidiana, ed è liberato dagli obblighi della vita di famiglia e dal quotidiano lavoro: non ha più da pensare alla tasse né alla pigione’… Capisco che sia abbastanza impressionante ciò che sto per dire, ma la guerra è un’occasione irripetibile e inestimabile per imparare ad amare e apprezzare la vita. Non per ciò uno deve andarsela a cercare, ma una volta che c’è è questo il meccanismo psicologico che innesca. Io non dico, come Malraux, che battersi allontana l’assillo della morte (‘Ho pensato molto alla morte ma da quando mi batto non ci penso più’). Questo è il pensiero del dannunziano, dell’esteta, dell’eroe. Io dico, al contrario, che la guerra esalta la vita proprio perché ci avvicina al pensiero della morte. ‘La malattia rende dolce la salute, il male il bene, la fame la sazietà, la stanchezza il riposo’ (Eraclito). Peraltro la morte in guerra è di una qualità diversa della morte in pace. Non si tratta, anche qui, del mito della ‘bella morte’ caro agli esteti (la morte, in sé e per sé, è neutra, non conosce aggettivi) ma di qualcosa di più sottile. E precisamente questo: l’uomo tende, in genere, a preferire, nel suo immaginario, la morte violenta a quella biologica, soprattutto se la prima è conseguenza di un rischio assunto in modo consapevole”. Si preferisce la morte violenta perché si può sempre pensare, in qualche modo, di scapolarla, la morte biologica, con le atroci agonie inevitabili dei malati terminali, no.

La guerra riconduce tutto, sentimenti e bisogni, all’essenziale. Soprattutto i bisogni e in questo senso il Covid e il lockdown avrebbero potuto essere una lezione esemplare che ci avrebbe indotto a consumare di meno e quindi a produrre di meno con l’inevitabile ricaduta, positiva, sulla Co2 mentre oggi siamo al meccanismo assurdo per cui non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre.

Quando si può morire da un momento all’altro un amore va fino in fondo a se stesso, una coppia non si lascia perché lui schiaccia il tubetto del dentifricio dalla testa e lei dal fondo.

Ma nel tessuto paradossale, psicologico e oggettivo, di cui è fatta la storia della guerra e della pace c’è che nel periodo in cui vennero maggiormente esaltati i valori guerreschi, i valori della cavalleria medievale, le guerre furono particolarmente incruente. Nella Battaglia di Anghiari, quella dipinta da Leonardo da Vinci, ci furono, a seconda delle stime, un morto o al massimo una decina. La cosa si acuisce quando entrano in campo le compagnie di ventura perché queste avevano tutto l’interesse a conservare i propri effettivi, cosa che dovrebbe interessare parecchio Putin ma soprattutto Zelensky.

Ps. Legenda. I periodi con singole virgolette doppie sono estratti direttamente dal mio libro Elogio della guerra (1999) tutto il resto è espresso con mie parole attuali ma del tutto conseguenti al testo originale. Vi sono poi alcune, pochissime, attualizzazioni.

m.f

 

4 aprile 2025, il Fatto Quotidiano

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Milano è una città di merda, abitata da una media borghesia di merda da quando i ceti popolari, più o meno all’epoca del boom, sono stati espulsi per andare a vivere nell’immenso hinterland, luoghi che di paese hanno solo il nome e a volte nemmeno una piazza o una chiesa.

Si calcola che ogni giorno entrino a Milano un milione e 300 mila abitanti dell’hinterland e altrettanti se ne vadano a sera alla chiusura degli uffici. Il risultato è che Milano ha perso la sua socialità. Di sera la città è deserta, sia per quel milione e passa che se n’è andato sia perché i milanesi dopo una dura giornata di lavoro (ed è indubbio che nel capoluogo lombardo si lavori seriamente perché il lavoro sta nel dna dei milanesi che ne hanno fatto una mistica) non hanno voglia di uscire e di andare a infilarsi in quel poco di movida che c’è. La desertificazione di Milano dopo le otto di sera crea quel clima di insicurezza che si respira in città. Perché manca il controllo sociale. Diversa è la situazione a Roma dove i romani sia per il clima sia per il loro dna escono la sera. Diciamo in estrema sintesi: a Milano si lavora, a Roma non si fa un cazzo.

A causa della desertificazione sono spariti i negozietti, le botteghe artigianali e anche attività tradizionali dell’alimentare come il fruttivendolo o il macellaio o il salumiere (per fare un esempio di vita da me vissuta: nel mio quartiere ci sono un panificio, un fruttivendolo e un minimarket, se ho bisogno di un martello devo rivolgermi a eBay). Al loro posto ci sono enormi supermarket dove le commesse fiaccate da un anonimo e massacrante lavoro non hanno il tempo e nemmeno la voglia di fare due chiacchiere. E’ la stessa ragione per cui i cinema, ma questo discorso vale in generale anche se qui il fenomeno è più acuto, si sono molto ridotti in città, da 160 negli anni Sessanta agli attuali 29. Recentemente sono stato all’Orfeo a vedere Babygirl, il film detestato dal bacchettone Travaglio, e c’erano solo otto spettatori. Ma anche il cine è un momento di socializzazione perché sei con altri spettatori, senti i loro commenti e dopo, magari, ti fermi sul marciapiede per commentare. Altra cosa è vedere un film standotene seduto comodamente a casa perché puoi farlo grazie a Netflix.  

A Milano c’è un traffico allucinante, come a Roma ma con minori giustificazioni di Roma. Milano è tutta piatta, Roma “la città dei sette Colli”, no. Le piste ciclabili si potevano fare già mezzo secolo fa, e fare quindi della bici un mezzo di locomozione come ad Amsterdam. Si sono fatte adesso, troppo tardi, per cui formano imbuti per il traffico delle automobili. Il traffico diventa poi totalmente insostenibile se ci sono grandi eventi come la moda o il mobile. In quei giorni è praticamente impossibile trovare un taxi, cosa già difficile in tempi normali, bisogna affidarsi ai mezzi e in questo Milano con le cinque linee di metro più il passante resta un’eccellenza.

Milano a differenza di Roma ha già di per sé pochissimi parchi pubblici, i Giardini Montanelli, il Parco Sempione, Trenno e qui ci si ferma. In realtà ci sono nel centro molti giardini privati, me ne resi conto una volta che sorvolavo Milano con un aereo da turismo (adesso non si può più fare) ma quelli se li godono solo gli abitanti di quei ricchi edifici. Come se ciò non bastasse Milano è vittima, come ha documentato Gianni Barbacetto, ma non solo lui, di una cementificazione selvaggia. Scrive Barbacetto: “I dati ufficiali Ispra dicono che a Milano tra il 2019 e il 2020 sono stati impermeabilizzati ben 935 mila metri quadrati e che nel 2023 sono stati consumati altri 190 mila metri quadrati, l’equivalente di 26 campi di calcio” (il Fatto, 14.2). Come se ciò non bastasse le proprietà di Milan ed Inter, americane, vogliono abbattere San Siro che per noi milanesi è come abbattere il Duomo, anzi peggio, e costruirvi attorno il solito gozzillaio di hotel superlusso, centri congressi, eccetera, andando quindi ad intaccare e quasi a cancellare il Parco Trenno dove ci sono le piste di allenamento per i galoppatori (il trotto è sparito) come quella “alla Maura” in particolare. E’ un’area, quella, molto particolare perché sei a Milano e insieme fuori Milano, dove si respira ancora un profumo di erba e di campagna e dove c’è il Cemetery, cioè il cimitero che raccoglie le spoglie dei soldati del Commonwealth, dei ragazzi di vent’anni o poco più, fra cui sudafricani, i ‘razzisti’ sudafricani a cui dobbiamo anche a loro la liberazione dal nazifascismo, “venuti a morire inutilmente per la libertà d’Europa” (Curzio Malaparte).

Scriveva Dino Buzzati nel 1958 e quindi prima di Celentano (Il ragazzo della via Gluck) e di Barbacetto: “Ma nulla la città odia quanto il verde, le piante, il respiro degli alberi e dei fiori” (Il tiranno malato).

E il clima, vogliamo parlare del clima? Milano è una città mefitica, dove il tasso di umidità è quasi sempre vicino al novanta per cento e oltre e dove l’aria che si respira è quella dello scappamento delle auto. Luglio è il mese più tremendo. Non tira un alito di vento, chi può se ne fugge ai laghi o al mare. E chi non può, quasi sempre anziani con poca lira a disposizione, quasi sempre single perché Milano è una città di solitudini a due ma più spesso ad uno? Ascolta, col batticuore, le sirene delle autoambulanze che scorrazzano in una città finalmente liberata dal traffico e si dice: “se le sirene non sono per me questa volta, sarà la prossima”.

 

30 marzo 2025, il Fatto Quotidiano

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

E’ di moda di questi tempi che quando c’è qualcuno che insidia il Potere in una dittatura in un’autocrazia ma anche in una democrazia si cerchi di fermarlo aggrappandosi a ogni sorta di cavillo giuridico che ne nega la legittimità e quindi autorizza di conseguenza contro costui e i suoi sostenitori la violenza. E’ successo in Romania dove Calin Georgescu, filorusso, sulla via di una sua probabile elezione a presidente è stato stoppato con l’accusa di aver utilizzato per la sua propaganda elettorale TikTok e quindi andando poi a vedere come si era procurato i mezzi per utilizzare TikTok. Ci sono state manifestazioni di massa a favore di Georgescu ma inutilmente. Succede in Ucraina dove Zelensky la cui popolarità è in netto calo per aver perso la guerra con la Russia si rifiuta di indire elezioni col pretesto che il Paese è in guerra, ma in Gran Bretagna Winston Churchill fu eletto Primo ministro nel pieno di una guerra ben più importante e devastante di quella russo-ucraina. E’ successo, in un certo senso, anche negli Stati Uniti dove Donald Trump è stato messo sotto inchiesta dalla Magistratura per aver pagato una showgirl e non aver preso le distanze da coloro che avevano assaltato Capitol Hill. Ma The Donald, è stato protetto dalla sua stessa elezione a Presidente per cui si è procurato un’immunità di fatto.

Succede in queste settimane nella Turchia del tagliagole Recep Tayyip Ergogan, che da quando è al potere ha messo in soffitta la Turchia laica di Atatürk. Ma in questo caso c’è qualche possibilità che il tiranno possa saltare perché l’ha combinata troppo grossa. Dico “qualche” possibilità, cioè una ridotta possibilità, perché la Turchia è membro della Nato e in Turchia a Incirlik c’è la più grande base aerea yankee. E quando ci sono di mezzo gli americani si sa come va a finire, quasi sempre, anche se non sempre perché in Afghanistan, dopo vent’anni di occupazione, gli yankee sono stati cacciati a pedate nel culo. Ma questa volta Erdogan l’ha fatta troppo grossa tanto da meritarsi, udite udite, una reprimenda della Ue: “Gli arresti del sindaco Imamoglu e di oltre 300 manifestanti sollevano seri interrogativi sul rispetto, da parte della Turchia, della sua consolidata tradizione democratica”. A parte quella “consolidata tradizione democratica”, che fa venire in mente il ridere perché la Turchia non è democratica dalla fine dei tempi di Atatürk, quasi un secolo fa. Ma Erdogan questa volta l’ha fatta troppo grossa. Ha arrestato per “corruzione e finanziamento al terrorismo” Ekrem Imamoglu che non è l’ultimo della pista visto che è stato eletto per due volte sindaco di Istanbul, una città di più di quindici milioni di abitanti. E dalla parte di Imamoglu stanno anche passando molti elettori dell’Akp, il partito di Erdogan che sorvolato l’acronimo vuol dire beffardamente “Partito della giustizia e dello sviluppo”. Particolarmente proterva è l’accusa a Imamoglu di “essere un finanziatore del terrorismo”. Ora proprio un mese fa il leader del Pkk, il partito indipendentista, di ispirazione laica e marxista, Öcalan, tuttora detenuto nelle prigioni turche, ha dichiarato la “smilitarizzazione” del suo movimento e quindi di conseguenza la rinuncia alla lotta armata. Anche se la questione resta incerta perché il Pkk è legato come dice il suo stesso nome, Partito dei lavoratori del Kurdistan, ai curdi, cioè i soli che avrebbero diritto a governare in quel territorio che non per nulla si chiama Kurdistan. Ma i curdi, anche per le loro divisioni interne, sono fragili e comunque come ha scritto sul New York Times il giornalista William Safire: “Svendere i curdi è una specialità del dipartimento di Stato americano”. Lo si è visto anche di recente quando furono determinanti, perché sul terreno sono fra i combattenti migliori del mondo, insieme all’aviazione americana, nello smantellamento del Califfato di al-Baghdadi (2019). Invece di ringraziarli, in Iraq, dove vive una consistente minoranza curda, furono ulteriormente oppressi dall’Iraq allora governato da un fantoccio americano, anche se di estrazione curda. Inoltre i curdi non hanno santi in paradiso, non sono ebrei, non sono cristiani sono sì islamici ma di un islamismo che si è sovrapposto e imposto su una cultura “tradizionale”, come è avvenuto in Afghanistan. E comunque si è mai sentita levarsi una voce nel mondo, Papa compreso, a favore dei curdi? (“Chi si ricorda dei poveri curdi?”, 2010).

Una divagazione a parte, se così si può dire, merita la storia di Abdullah Öcalan, il leader del Pkk. Dopo varie traversie, che lo spazio non ci consente di riassumere qui, Öcalan si era rifugiato in Italia. Presidente del Consiglio era Massimo D’Alema che si rifiutò di concedergli l’asilo politico e con l’appoggio degli americani e degli israeliani, che non mancano mai, questi ultimi, nelle operazioni più turpi, fu rispedito nel 1999 nelle prigioni turche. Che cosa siano le prigioni turche, e non credo proprio che la situazione sia migliorata con Erdogan, ce lo racconta benissimo il film Fuga di mezzanotte del 1978 per la regia di Alan Parker. Billy, un americano accusato di traffico di stupefacenti, passa anni nella prigione di Sağmalcılar dove ne succedono di ogni sorta, in un crescendo di violenza, fra guardie, kapò, chi tenta di fuggire e spie. Dopo un tempo di prigionia che sembra infinito, Billy può finalmente ricevere la sua fidanzata Susan. Ma al di là di un vetro di pesante cristallo. E allora lei, scostandosi la camicetta, gli mostra il bel seno nudo. Un’immagine commovente. Perché se è vero che la forza muove il mondo e non i sentimenti, sono i sentimenti, anche nei frangenti tragici, anzi proprio in questi, che danno un senso alla nostra vita.

 

26 marzo 2025, il Fatto Quotidiano