Dopo le mie prese di posizione sulla guerra e sulla necessità del riarmo della Germania mi sono arrivate, come era prevedibile, molte email di dissenso. Lettere pacate però, direi pacifiste prive di quegli insulti che ho ricevuto in altre occasioni quando ho espresso opinioni lontane dalla linea del Fatto che non sempre condivido anche se una cosa fondante mi lega a Marco Travaglio, “che Allah l’abbia sempre in gloria” e alla comunità del Fatto: la difesa ad oltranza della legalità e di quella sua espressione più sottile che è l’onestà intellettuale, valori spazzati via, anche fra la cosiddetta gente comune, dai decenni berlusconiani (vedendo che quello e i suoi accoliti violavano l’intero Codice penale il cittadino normale si è chiesto: ma devo essere solo io il più cretino del bigoncio?).
Perché le proteste contro i miei pezzi sono state civili e, oserei dire, caute? Perché chiunque si rende conto che una questione, eccezionale, di importanza storica come quella della guerra e della pace non può essere risolta con un secco, sì sì, no no e infatti Lev Tolstoj, un pacifista convinto, dà come titolo al suo memorabile libro non ‘guerra o pace’ ma Guerra e pace.
Tutte le guerre sono ingiuste e tutte le paci sono giuste? Non è così. Giuste sono sicuramente le guerre di indipendenza. Senza la nostra guerra di indipendenza non si sarebbe fatta l’Unità d’Italia assolutamente necessaria perché molti altri Stati europei l’unità l’avevano raggiunta. Giuseppe Mazzini, uomo di pensiero, che a quell’indipendenza diede corpo, era anche un terrorista. Giuseppe Garibaldi non era certamente un uomo di pace visto che combatté in Italia e in Sudamerica e l’inno che Goffredo Mameli compose nel 1847 e che è attualmente il nostro inno nazionale, non è certo pacifista quando declama “stringiamci a coorte, siam pronti alla morte”. E’ un inno di guerra sia pure difensiva che è perfettamente allineato con l’articolo 11 della Costituzione. Quella guerra di indipendenza mise anche fine al vergognoso “Franza o Spagna purché se magna” un detto, oserei dire, romanesco (pensando agli italiani imbelli di oggi quel “siam pronti alla morte” fa sorridere amaro, oggi gli italiani nella loro maggioranza - ci sono per fortuna eccezioni - non solo non sono “pronti alla morte” ma non sono nemmeno disposti a rischiar nulla tanto che in tante, troppe, occasioni, abbiamo visto ragazze violentate nel pieno centro di una città senza che nessuno pensasse che era suo dovere intervenire).
Senza la guerra di indipendenza talebana l’Afghanistan sarebbe ancora sotto il giogo degli occupanti occidentali, americani in testa.
Senza la guerrilla del Che e Castro Cuba sarebbe ancora governata da Batista che aveva fatto dell’isola caraibica un resort per i giocatori d’azzardo e per coloro che erano dediti allo stupro sistematico delle ragazze. Cuba oggi non è più una dépendance americana, certo è comunista e molto vicina alla Russia ma per lo meno, secondo i dettami del socialismo, l’istruzione e la sanità sono gratuite. E qualcuno ricorderà, forse, che medici cubani vennero in nostro aiuto all’epoca del Covid.
Comunque, per tornare al presente, i pericoli di guerra non vengono certo dalla Germania e dall’Europa in generale, non vengono nemmeno dai cinesi che più intelligentemente si limitano a conquiste economiche, vengono dagli Stati Uniti, da Israele e, in prospettiva, dall’Isis.
Nell’ultimo quarto di secolo gli americani hanno inanellato una serie di guerre d’aggressione, disastrose, che sono venute regolarmente in culo all’Europa. Tutte guerre a parte l’eccezione di cui dirò, contro la volontà dell’Onu. Si è cominciato con l’aggressione alla Serbia, 1999, circa seimila morti fra cui anche quegli albanesi che si pretendeva di difendere, si è continuato con l’invasione dell’Afghanistan del 2001 (400 mila morti, calcolo in difetto) che ebbe all’inizio il consenso dell’Onu ma che fu però ritirato quando ci si dovette rendere conto che i Talebani non avevano avuto nessun ruolo nell’attacco alle Torri Gemelle. Peraltro l’11 Settembre fu un ottimo pretesto, se così si può dire, per la successiva aggressione all’Iraq che secondo il Wall Street Journal e il Washington Post era in preparazione da tempo. Bisogna ammettere che la stampa americana è più libera della nostra, tutta allineata sul filo-atlantismo. Si è proseguito nel 2003 con l’aggressione appunto all’Iraq, basata su presupposti rivelatisi falsi (dai 650 ai 750 mila morti) poi con quella alla Somalia del 2008 per interposta Etiopia. Infine con la più disastrosa e disgustosa di tutte: l’aggressione alla Libia del colonnello Mu’ammar Gheddafi che non minacciava nessuno, aveva anzi allacciato ottimi rapporti con l’Italia di Berlusconi e la Francia di Sarkozy. Sono stato in Libia all’epoca in cui governava Gheddafi per visitare gli straordinari resti romani, era un Paese tranquillo. Gheddafi si limitava a favorire i componenti della sua tribù, i Warfalla, come fa qualsiasi capataz di un Paese democratico. Le prigioni libiche non erano zeppe di detenuti politici. Oggi la Libia è un groviglio di milizie che si combattono l’un l’altra e dove domina l’Isis. Per salpare dalle coste libiche i ‘mercanti di morte’ devono pagare una taglia agli uomini dello Stato Islamico e non mi meraviglierei affatto se Isis che ha conquistato il potere in Siria con le milizie guidate da al-Jolani, un ex terrorista, riprendesse gli attacchi mirati in Europa come fece nel 2015/2016. Spero di sbagliare. Del resto Isis, sia pur per ora parzialmente dormiente, è presente nei Balcani, cioè a due passi da noi, proprio grazie alla guerra che gli americani fecero alla Serbia ortodossa e socialista favorendo la componente islamica dei Balcani nel 1999. Isis è esattamente lo specchio rovesciato dell’Occidente. Come l’Occidente vuole imporre i suoi valori all’universo mondo così vuol fare l’Isis che ha una grande capacità di attrazione e di fascinazione. Furono molti gli europei, uomini e donne, che a suo tempo accorsero nello Stato Islamico di al-Baghdadi (vedi Sottomissione di Houellebecq).
Scrive Goffredo Buccini sul Corriere (7.4), interpretando un pensiero comune, che con l’aggressione della Russia all’Ucraina si è scardinata la distinzione fra “aggressore e aggredito” e violata la Carta dell’Onu che stabilisce “principi come l’integrità territoriale, la sovranità, la non ingerenza negli affari interni altrui”. Ma questa sottile distinzione fra aggressore e aggredito noi non l’abbiamo fatta né in Serbia né in Afghanistan (una guerra puramente ideologica) né in Iraq né il Libia quando eravamo noi gli aggressori. Quindi a demolire l’Onu, che oggi non conta più nulla e i principi del diritto internazionale che non esiste più, siamo stati innanzitutto noi occidentali.
Infine c’è Israele. Con la disinvoltura con cui sta uccidendo, massacrando, decine di migliaia di palestinesi, costringendo quelli che sono rimasti vivi alla fame, alle notti all’addiaccio e alla quasi impossibilità di curarsi, c’è poco da sperare. Tra l’altro Israele vìola più di altri Stati quel poco che resta del diritto internazionale, spara sulla Croce Rossa, sulla Mezzaluna Rossa, sulle Ong anche le più accreditate come Medici Senza Frontiere, sui giornalisti. Secondo uno studio della Brown University “la guerra a Gaza in 18 mesi ha ucciso più giornalisti della Guerra Civile statunitense, della Prima e della Seconda guerra mondiale, della Guerra di Corea, della Guerra del Vietnam, delle guerre in Jugoslavia e della guerra in Afghanistan messe insieme”. Israele ha l’Atomica. E noi dovremmo temere la Germania…
13 aprile 2025, il Fatto Quotidiano
La via l’aveva indicata Angela Merkel nel 2017 quando in un coraggioso discorso nell’ambito del G7 affermò: “Gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli” cioè a riarmarci ma prima, e oltre che riarmarci, dovremmo smetterla di disarmarci. A favore dell’Ucraina. La capacità di guerra dell’Ucraina secondo il Global Firepower Index è superiore a quella della Germania, rimpinzata delle armi più sofisticate molte delle quali provenienti proprio dagli arsenali tedeschi. L’Ucraina quindi invece di essere l’avamposto dei valori democratici dell’Occidente (così dice la narrativa ufficiale, ma l’Ucraina è in realtà un sistema totalitario dove comanda un unico partito, quello di Zelensky, e i media che possono esprimersi sono solo quelli che piacciono a Zelensky) potrebbe rivelarsi, mutata la situazione geopolitica (e con Trump cambia in continuazione) un pericolo per i Paesi dell’Unione europea. I soldati ucraini hanno poi esperienze di guerra da quando nel 2014 aggredirono il Donbass e poi nel 2022 furono costretti a difendersi dall’aggressione russa. I soldati europei non hanno di queste esperienze tranne forse i francesi quando furono gli artefici dello smantellamento, pro domo sua e contro l’Italia, del regime del colonnello Mu’ammar Gheddafi, un’operazione sciagurata come dimostra la situazione attuale della Libia, dove nel groviglio di milizie che si combattono l’un l’altra emerge l’Isis. I cosiddetti “mercanti di morte” per lasciare le coste libiche devono pagare una tangente allo Stato Islamico che vinto a al-Raqqa e Mossul nel 2019 si è espanso poi in mezzo mondo, oltre che in Libia spadroneggia oggi in Somalia, dove gli al-Shabaab gli hanno giurato fedeltà, in Kenya, in Pakistan, in Bangladesh e poi in molti altri Paesi dell’Africa nera. Isis è anche presente in Afghanistan nonostante i Talebani siano stati gli unici a combatterlo seriamente, ma stretti fra la necessità di fronteggiare gli occupanti occidentali e gli stessi Isis, hanno dovuto cedere un po’ di terreno. Nella sciagurata invasione dell’Afghanistan del 2001, oltre agli americani, c’erano forze francesi, tedesche e anche italiane. Gli italiani, secondo il loro costume di passare al momento opportuno dalla parte del vincitore (Prima guerra mondiale, Seconda guerra mondiale dopo il tracollo del regime nazista) fecero subito degli accordi con i comandanti talebani.
C’è da aggiungere che nessuna esercitazione può sopperire all’esperienza sul campo. Quando il soldato sa di poter morire in battaglia la sua forza insieme al suo coraggio si moltiplicano.
E allora cosa possiamo fare per rafforzare un’Europa attualmente imbelle e in balia, anche se in modo diverso, delle grandi Potenze, Stati Uniti, Russia, Cina? Innanzitutto e forse soprattutto bisogna che si riarmi la Germania. La Germania è oggi un Paese democratico che ha pagato tutti i suoi debiti con la storia. Ed è oggi incomprensibile che alla Germania sia proibito di essere una potenza nucleare secondo il Trattato di non proliferazione nucleare del 1968. La Bomba ce l’hanno oggi, oltre che le grandi Potenze, Stati Uniti, Russia e Cina, anche il Pakistan, la Corea del Nord e Israele che nega di averla ma ci tiene a far sapere che ce l’ha. Ce l’ha anche la Francia ma sulle capacità militari dei francesi c’è sempre da dubitare, sono bravissimi a sedersi al tavolo dei vincitori anche quando una guerra l’hanno persa, come è stato nell’ultimo conflitto mondiale tanto che oggi siedono, insieme a Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna, i veri vincitori della Seconda guerra mondiale, nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Quindi, innanzitutto, riarmare la Germania con Atomica compresa. Si obietta che c’è l’accordo del 1968. Ma gli accordi valgono, secondo il diritto internazionale, rebus sic stantibus e siccome le cose cambiano in continuazione si può dire che gli accordi sono fatti solo per essere violati. In ogni caso da quegli accordi di “non proliferazione” è passato più di mezzo secolo e molta acqua sotto i ponti. Quindi Deutschland über alles, quindi viva la Germania che potrà portare in campo oltre alle armi che adesso non ha la rigida disciplina tedesca (vedi l’estraniante racconto di Christian De La Mazière raccolto nel libro Il sognatore con l’elmetto, un francese che si arruolò nelle Waffen SS e, nonostante la guerra perduta – i russi erano già davanti a Berlino – i tedeschi si sottoponevano a esercitazioni di tutti i tipi, pratiche e teoriche, nonostante l’obiettivo fosse diventato impossibile).
Sì quindi al riarmo urgente dell’Europa. Del resto gli antichi Romani che non erano gli ultimi della pista in queste questioni dicevano: Si vis pacem, para bellum. Un orientamento che Mussolini tentò di imitare anche se gli italiani che aveva a disposizione per le sue ambizioni non avevano la tempra degli antichi Romani. Aggiungo anche che il Duce fu il migliore alleato degli Alleati: aprì il fronte greco, “spezzeremo le reni alla Grecia” e dovette intervenire la Wehrmacht, aprì il fronte africano a cui Hitler non pensava e le forze nazifasciste furono sbaragliate ad Al Alamein dove gli italiani, per una volta, si batterono valorosamente come riconobbe il feldmaresciallo Rommel, la “volpe del deserto”.
Quindi in definitiva, e per concludere, e con buona pace, è il caso di dirlo, dei lettori del Fatto, viva la guerra, abbasso la pace.
8 aprile 2025, il Fatto Quotidiano
La guerra è comune a tutti gli esseri, è la madre di tutte le cose. Alcuni li fa dei, gli altri li fa schiavi o uomini liberi (Eraclito).
“La guerra è una costante della storia. Non c’è periodo, arcaico o moderno, non c’è società, primitiva o tecnologica, non c’è regime, dittatoriale o democratico, aristocratico o popolare, monarchico o repubblicano, che non abbia conosciuto la guerra… Infondata è la convinzione, abbastanza diffusa ed espressa da ultimo da Norberto Bobbio, che le democrazie siano refrattarie alla guerra e vi vengano trascinate per i capelli dai regimi totalitari… Se si a ben vedere, la democrazia ateniese fu ferocemente bellicista, la coscrizione obbligatoria nasce proprio con la Rivoluzione francese (Napoleone) e alla guerra ’14-’18 parteciparono con entusiasmo anche le democrazie, al contrario, non si può negare che alcune dittature, come quelle dell’America latina, siano state, e siano, tendenzialmente pacifiste… E’ vero che la frequenza della guerra (oltre che, ovviamente, la sua capacità devastante) aumenta col passaggio dalle società arcaiche a quelle più evolute e che la propensione alla guerra è direttamente proporzionale al grado di civilizzazione”. Tanto più una società raggiunge, culturalmente, l’apogèo della sua civiltà, tanto più è guerrafondaia e nel modo più feroce. Ne è dimostrazione il nazismo che operò in decenni in cui la cultura tedesca, partorita dall’Illuminismo, soprattutto filosofica (Kant, Hegel, Fichte, Schopenhauer) fu egemone sopraffacendo quella francese e anche quella italiana che se si esclude Leopardi, questa straordinaria figura di poeta e di filosofo, ha partorito pochissimo (Vico coi suoi modesti ‘corsi e ricorsi’). In epoca rinascimentale l’Italia è stata fortissima nell’estetica (da Vinci, Michelangelo, Raffaello per dire solo di alcuni) ma non nell’introspezione psicologica (bisognerà aspettare Freud, che non per nulla è tedesco, Nietzsche, Dostoevskij con le sue Memorie del sottosuolo). In realtà, se si va a ben vedere, i nostri grandi artisti rinascimentali (se si esclude Leonardo da Vinci, un genio universale, forse il più grande di tutti i tempi) erano, di fatto, fermi al loro tempo mentre al nord, Bosch, anticipava di quattro secoli la psicoanalisi (La nave dei folli, attualmente al Louvre).
La guerra è uno straordinario strumento per scaricare l’aggressività che è essenziale alla vitalità. Se si comprime troppo l’aggressività poi saltan fuori “i delitti delle villette a schiera” come li ha chiamati Guido Ceronetti.
La guerra è uscita dalla noia, dal tran tran quotidiano. “In una società di massa e di diritto, come la nostra, dove la vita è necessariamente omologata, appiattita, regolamentata fino all’ultimo respiro, garantita ‘dalla culla alla tomba’, la guerra è stata sentita come uscita dalla noia. Scrive in proposito Erich Fromm, che pur è un pacifista a tutto tondo: ‘Vi sono altre motivazioni emozionali, più sottili, che rendono possibile la guerra, pur non avendo niente a che fare con l’aggressione. La guerra è eccitante persino se implica il rischio di perdere la vita e grandi sofferenze fisiche. Considerando che la vita della persona media è noiosa, tutta routine e senza avventure, l’atteggiamento di chi è pronto ad andare in guerra deve essere inteso anche come il desiderio di mettere fine al noioso tran tran della vita quotidiana, di lanciarsi nell’avventura, l’unica avventura, in realtà, che la persona media può aspettarsi in tutta la sua vita. In una certa misura, la guerra rovescia tutti i valori. Incoraggia l’espressione di impulsi umani profondamente radicati, come l’altruismo e la solidarietà, impulsi che vengono mutilati dal principio dell’egocentrismo e della competizione indotti nell’uomo moderno dalla vita normale in tempo di pace. In guerra l’uomo è nuovamente uomo’. Un’altra attrattiva psicologica della guerra è di costituire un tempo d’attesa, un tempo sospeso, la cui fine non dipende da noi, al quale ci si consegna totalmente e che ci libera d’ogni responsabilità personale. E’ un po’ come durante l’università o il servizio militare: il tuo compito è di attenderne la fine, nient’altro. Così, in un certo senso, in guerra ‘ha da passà ‘a nuttata’, non ci sono obblighi se non quello di sopravvivere, non si tratta che di aspettare. Kunkurrenzkampf, responsabilità, doveri, incombenze, dilemmi, scelte, problemi della vita civile sono lasciati alle spalle, con tranquilla coscienza, perché sono rimandati a una scadenza, la fine della guerra, sulla quale nulla possiamo. Scrive Bouthoul: ‘L’individuo… è sottratto alla meschinità della vita quotidiana, ed è liberato dagli obblighi della vita di famiglia e dal quotidiano lavoro: non ha più da pensare alla tasse né alla pigione’… Capisco che sia abbastanza impressionante ciò che sto per dire, ma la guerra è un’occasione irripetibile e inestimabile per imparare ad amare e apprezzare la vita. Non per ciò uno deve andarsela a cercare, ma una volta che c’è è questo il meccanismo psicologico che innesca. Io non dico, come Malraux, che battersi allontana l’assillo della morte (‘Ho pensato molto alla morte ma da quando mi batto non ci penso più’). Questo è il pensiero del dannunziano, dell’esteta, dell’eroe. Io dico, al contrario, che la guerra esalta la vita proprio perché ci avvicina al pensiero della morte. ‘La malattia rende dolce la salute, il male il bene, la fame la sazietà, la stanchezza il riposo’ (Eraclito). Peraltro la morte in guerra è di una qualità diversa della morte in pace. Non si tratta, anche qui, del mito della ‘bella morte’ caro agli esteti (la morte, in sé e per sé, è neutra, non conosce aggettivi) ma di qualcosa di più sottile. E precisamente questo: l’uomo tende, in genere, a preferire, nel suo immaginario, la morte violenta a quella biologica, soprattutto se la prima è conseguenza di un rischio assunto in modo consapevole”. Si preferisce la morte violenta perché si può sempre pensare, in qualche modo, di scapolarla, la morte biologica, con le atroci agonie inevitabili dei malati terminali, no.
La guerra riconduce tutto, sentimenti e bisogni, all’essenziale. Soprattutto i bisogni e in questo senso il Covid e il lockdown avrebbero potuto essere una lezione esemplare che ci avrebbe indotto a consumare di meno e quindi a produrre di meno con l’inevitabile ricaduta, positiva, sulla Co2 mentre oggi siamo al meccanismo assurdo per cui non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre.
Quando si può morire da un momento all’altro un amore va fino in fondo a se stesso, una coppia non si lascia perché lui schiaccia il tubetto del dentifricio dalla testa e lei dal fondo.
Ma nel tessuto paradossale, psicologico e oggettivo, di cui è fatta la storia della guerra e della pace c’è che nel periodo in cui vennero maggiormente esaltati i valori guerreschi, i valori della cavalleria medievale, le guerre furono particolarmente incruente. Nella Battaglia di Anghiari, quella dipinta da Leonardo da Vinci, ci furono, a seconda delle stime, un morto o al massimo una decina. La cosa si acuisce quando entrano in campo le compagnie di ventura perché queste avevano tutto l’interesse a conservare i propri effettivi, cosa che dovrebbe interessare parecchio Putin ma soprattutto Zelensky.
Ps. Legenda. I periodi con singole virgolette doppie sono estratti direttamente dal mio libro Elogio della guerra (1999) tutto il resto è espresso con mie parole attuali ma del tutto conseguenti al testo originale. Vi sono poi alcune, pochissime, attualizzazioni.
m.f
4 aprile 2025, il Fatto Quotidiano