Persino il Presidente della Repubblica si è reso conto, sia pur con un certo ritardo, dei gravi, e a volte drammatici, problemi che pongono il progetto e la realizzazione del Ponte di Messina. Matterella ha centrato le sue perplessità soprattutto sulla possibilità di infiltrazioni mafiose negli appalti. Possibilità? Certezza. La mafia oggi è meno controllabile di un tempo, quello dell’epopea dei Riina, dei Provenzano e, da ultima, dei Messina Denaro (nomen omen) perché non ha più una struttura gerarchica ma si suddivide in rivoli di cento, mille, piccole mafie. Queste si ammazzano, ma sarebbe meglio dire ammazzano, per l’appalto di progetti infinitamente meno costosi e quindi meno appetibili di quello colossale del Ponte di Messina e certamente non si faranno sfuggire una polpetta avvelenata, un polpettone, ghiotto come la costruzione del Ponte. Il solo parlarne è come mettere un vampiro davanti a un lago colmo di sangue.
Ma prima di parlare dei problemi economici, ambientali, in terra e in mare, che pone la costruzione del Ponte sullo Stretto, sarà bene ricordare che siamo in un territorio sismico (L’Aquila, l’Irpinia, la Sicilia). Il Terremoto di Messina del 1908 uccise la metà della popolazione della città siciliana e un terzo di quella calabrese. Chi è favorevole al Ponte, in pratica solo Matteo Salvini e la sua cricca, sostiene che oggi ci sono i mezzi tecnici per fare una costruzione sicura. Ma la Natura ha soprassalti incontrollabili come dimostrano i tanti “eventi eccezionali” che avvengono in ogni parte del mondo. Si dice, prendendo dal latino, “natura non facit saltus”. Invece i salti li fa eccome, con buona pace di Leibniz.
Inoltre contro la costruzione del Ponte c’è il suo stesso peso, 887 mila tonnellate. Nei terremoti a essere pregiudicate sono innanzitutto le grandi costruzioni, non le piccole case, così come durante la tempesta sono le querce le prime ad essere abbattute perché oppongono più resistenza. Di più: se sei in un territorio sismico come è tutta l’Italia dovresti pensarci mille volte prima di azzardare un’opera come il Ponte. Gli indigeni delle Isole Andamàne, che sono soggette a devastanti maremoti, non costruiscono sulle coste perché, come tutti i “popoli primitivi”, così noi con disprezzo li chiamiamo, fanno esperienza della loro esperienza e non su ipotetici teoremi matematici.
Come se non bastasse il Ponte pone gravi problemi ambientali, in cielo e in terra. In cielo perché lo Stretto di Messina è un collo di bottiglia dove devono necessariamente passare nelle loro migrazioni i più importanti volatili europei che sarebbero quindi costretti a cambiare le loro rotte sempre che riuscissero a sopravvivere.
In terra perché il Ponte eroderebbe le coste soprattutto ad est di Reggio. Una ventina di anni fa quando ero leader di Movimento Zero, ora in sonno (ma chissà che non lo risvegli con una sacrosanta violenza) mi trovavo spesso a Reggio perché attraverso il Movimento eravamo legati agli indipendentisti sardi e a quelli corsi. Era mia abitudine farmi portare dagli amici calabresi, anche d’inverno, a novembre, a dicembre, quando in realtà l’acqua è più calda perché risente ancora del calore dell’estate, il momento peggiore per chi ama nuotare in mare è aprile perché, al contrario, risente ancora del freddo dell’inverno, sulle coste ad est di Reggio Calabria. Facevamo pochissimi chilometri per arrivare a rive dove si poteva fare il bagno. Una volta però mi accorsi che per una trentina di chilometri c’erano rive sassose e inabbordabili. Ne chiesi ragione ai miei amici calabresi. Risposero: “Sai, hanno costruito un porticciolo a est di Reggio”. Chiesi dunque di andare a vedere questo porticciolo. Era un porticciolo modestissimo, ma era bastato per rovinare trenta chilometri di costa. Si può facilmente immaginare cosa può fare un’opera come il Ponte.
Il Ponte non lo vogliono né i calabresi né i messinesi, anche perché per salire all’altezza del Ponte ci metterebbero più tempo che a prendere il traghetto.
C’è poi la questione dei necessari espropri. Dove andrebbero a vivere, in che contesto, e con che stress, persone che già in partenza sono contrarie al Ponte per ragioni anche psicologiche che non vanno sottovalutate (i calabresi dicono “noi siamo abituati da secoli e millenni ad avere difronte un’isola”, i siciliani “noi siamo abituati da secoli e millenni ad avere difronte un continente”)?
Infine noi italici siamo abituati a ragionare con i piedi ma a partire dalla testa, cioè dall’opera, senza aver creato prima le necessarie infrastrutture, nel caso aver messo a punto la disastrosa viabilità, ferroviaria e stradale, siciliana.
Quasi inutile dire che i costi del Ponte sono nel frattempo lievitati a dismisura, per la gioia delle mafie: da 5 miliardi del 2001 ai 14,5 di oggi.
Ma chi ha dato a Giorgia Meloni la demenziale idea di fare Matteo Salvini ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti? Qualcosa non quadra. C’è puzza di zolfo.
28 maggio 2025, il Fatto Quotidiano
In un articolo intitolato “Con l’intelligenza artificiale nuove assunzioni” (Corriere, 19.5) Massimo Sideri sostiene, e non è il solo, che la Tecnica, storicamente parlando, e quindi anche al di fuori del digitale, ha sempre creato nuove occasioni di lavoro. Però bisogna anche vedere quante ne ha eliminate.
Faccio un esempio semplice semplice. Alla barriera sud dell’autostrada Genova-Milano c’erano, in fondo non poi tanto tempo fa, dieci caselli governati da umani. Oggi in un solo casello c’è una persona, gli altri nove lavoratori dove sono andati a finire? E’ vero che non c’è, credo, nessuna occupazione più noiosa del casellante che vive in una sorta di bolla senza avere contatti con nessuno. Ma il problema resta. Elon Musk licenziò a suo tempo circa trecento lavoratori della Tesla poi però si ricredette perché si accorse che i robot erano più inefficienti, disordinati e casinisti dei lavoratori normali. Questo è un caso favorevole che dipende dall’indubbia intelligenza di Musk, ma molti altri grandi imprenditori licenziano a manetta senza riassumere i reprobi. Dove vanno a finire costoro? Dovranno cercarsi un'altra occupazione che non hanno scelto, per la quale non hanno passione e soprattutto competenza perché non sono stati “formati”, parola magica come ”Innovazione”, per questo lavoro. Per cui ci sono in giro un mucchio di incompetenti. Questo riguarda soprattutto il mondo artigiano dove molti di costoro si sono rifugiati credendo che fosse semplice fare il falegname, il fabbro, l’imbianchino senza avere alcuna esperienza. Ma non è così. Tutti noi, o quasi, abbiamo fatto l’amara esperienza di aver ingaggiato questi lavoratori improvvisati. Esemplare in questo senso è il bel film di Silvio Soldini, Giorni e nuvole, dove il compagno di Margherita Buy, licenziato come manager, si mette appunto a fare l’imbianchino, con risultati disastrosi.
Nel Medioevo le cose andavano molto diversamente. Il giovane veniva assunto a bottega dal Maestro, che aveva l’obbligo di insegnargli il mestiere (allora si chiamava così) a regola d’arte oltreché quello di sfamarlo e di fornirgli due vestiti, uno per la domenica l’altro per i restanti giorni della settimana. Molti grandissimi artisti da Raffaello a Michelangelo (Leonardo no perché era un tale genio che il mestiere se lo insegnava da solo) sono stati prima di diventare quello che sono diventati “ragazzi di bottega”. Il momento decisivo era quando il ragazzo presentava al Maestro il ‘capolavoro’, cioè un manufatto che era all’altezza delle aspettative del maestro. A questo punto il ragazzo lasciava la bottega e ne metteva in piedi una sua. Questo probabilmente era possibile perché il mondo medievale era meno popolato. Ma l’artigiano restava legato affettivamente, e non solo materialmente, al suo mestiere, perché quello e solo quello aveva fatto per tutta la vita e ne andava orgoglioso (sono i concetti della ‘fama’ e dell’‘infamia’ medievali sottolineati da Paolo Gresti in un recente articolo sul Fatto molto diversi dai nostri dove si può essere famosi per stronzate che nulla hanno a che fare non dico con l’arte, ma con la creatività).
Questo orgoglio per il proprio manufatto ha resistito anche in èra industriale dove c’è una produzione seriale. A Milano voi potete vedere ancora oggi, incise su alcuni tombini, delle sigle, cioè in pratica delle firme, che non sono quelle dell’industria che li ha prodotti ma dell’artigiano che vi ha messo mano. Questo era l’artigianato al tempo che fu e il lavoro al tempo che fu. Quando si chiamava ancora “mestiere”.
24 maggio 2024, il Fatto Quotidiano
Il solo uomo veramente libero è il morto. Non deve pagare le tasse, toccherà ad altri, ma se sarà stato sufficientemente accorto non avrà fatto soldi, non avrà comprato case, non avrà acquistato croste di improbabili artisti, i suoi sopravvissuti non dovranno nemmeno pagare le tasse di successione. Beffa allo Stato padrone. “Prelati, notabili e conti Sull’uscio piangeste ben forte Chi bene condusse sua vita Male sopporterà sua morte Straccioni che senza vergogna Portaste il cilicio o la gogna Partirvene non fu fatica Perché la morte vi fu amica” (De André in una canzone titolata significativamente La morte).
Processi. Contumacia perpetua o, se si preferisce, prescrizione sine die.
Basta con la noia insopportabile di dover farsi la barba, talebano per sempre.
Se con la tua doccia hai inondato un intero palazzo non è più affar tuo ma dei vicini peraltro odiosi come ogni vicino (Esiodo, Le opere e i giorni). Niente periti delle Assicurazioni peraltro notoriamente ladre.
Fine del Tizio che, conoscendo i tuoi percorsi, ti aggancia davanti all’edicola per proporti sue assurde tesi complottiste mentre tu vorresti solo berti in santa pace un bicchiere di rosso. Fine dell’edicola e anche delle edicole, più defunte del morto.
Fine della lettura dei giornali, la cosa più inutile del mondo, soprattutto di questi tempi. Se il tuo Direttore non pubblica un pezzo cui tenevi ti risparmi l’incazzatura, se lo pubblica non hai il tempo di rileggerlo e di scoprire quante inesattezze hai scritto.
Fine delle interviste in cui non sai mai che cosa dire e nemmeno hai capito la domanda. Il martire sarà un altro.
Fine dei fan che vengono a farti domande impossibili, alla Catalano, “Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?” come se tu potessi saperne più di loro (Prezzolini, novantenne: “Non ne so di più di quando avevo diciassette anni”). Sei finalmente e totalmente disconnesso e quindi puoi fare a meno di buttare lo smartphone nel cesso. Peraltro i fan dovrebbero essere eliminati, in radice, quando sei ancora in vita. Sono fastidiosissimi.
Se la tua ragazza ti ha lasciato fine dei “dolori del giovane Werther”, se la veda Goethe. Se l’hai lasciata tu fine del senso di colpa.
Se per acculturarti credevi di dover andare a vedere uno spettacolo, lo spettacolo è sospeso sine die.
Uno struggimento, peraltro impossibile, ci sarebbe per le partite di calcio anche se fonti bene informate vicine al Vaticano dicono che partite se ne fanno anche nei Campi Elisi fra cherubini e serafini ma Dio pretende di fare sempre il capitano e non passa mai la palla.
Fine dell’ossessione sessuale peraltro quasi sempre deludente. In vecchiaia la virilità decresce ma aumenta la libido (“La bava alla bocca”) contristandoti per la tua parziale impotenza.
Fine del dovere di alzarsi alle sei del mattino per andare a fare la cosa più stupida del mondo: lavorare.
Fine della inseparabile compagna delle nostre vite: la noia.
Fine delle interminabili code davanti a qualsiasi ufficio. Non le devi fare, sei il vero privilegiato.
Fine delle preoccupazioni per la guerra ucraina, peraltro già vinta dai russi. Fine di Trump, Putin e compagnia cantante che comunque godranno anch’essi, arbitrariamente, dell’eterno riposo.
Fine degli insopportabili dolori fisici e morali della vecchiaia. In un istante sono scomparsi.
Avevi un tumore che ti preoccupava molto. La pratica è archiviata.
21 maggio 2025, il Fatto Quotidiano