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l'Idv si è sciolta e scompare dalla scena politica insieme al suo Fondatore Antonio Di Pietro, che probabilmente tornerà a fare il contadino a Montenero di Bisaccia. Di Pietro è stato, per un certo periodo, l'uomo più amato d'Italia dalla gente e da sempre il più odiato dai politici perché, insieme a uno straordinario pool di magistrati milanesi, aveva osato scoperchiare le pratiche mafiose dei partiti (la tangente non è diversa dal 'pizzo', un ricatto sotto minaccia). La forza di Di Pietro Pm era quella di dire da buon contadino, pane al pane, vino al vino, di essere tornato a chiamare ladri i ladri e non 'i costi della politica' (e per questo Francesco Saverio Borrelli lo aveva scelto come Pm d'udienza al posto di colleghi tecnicamente più attrezzati). Nel '92-'94 i giornali, i giornalisti, gli intellettuali, quasi tutti compromessi col vecchio regime, nel tentativo di riposizionarsi (esattamente come oggi dopo l'irruzione di Grillo) facevano a gara per blandire, lisciare, molcere Di Pietro. Era tutto un ' Tonino qua e Tonino là' (anche il vezzo di chiamare i politici per nome, Silvio, Bettino, non è innocente, è indice dell'eterno familismo italiano, una delle cause principali del malcostume del nostro Paese. Sui giornali francesi o inglese si scive monsieur (Hollande, Cameron). Mi ricordo in particolare un editoriale del direttore del Corriere, Paolo Mieli: «Dieci domande a Tonino» che ho inserito in una cartellina intitolata 'Infamie'. Se Di Pietro fosse entrato in politica il giorno dopo che si tolse la toga avrebbe preso il 90% dei consensi. Una volta gli chiesi perché non lo avesse fatto (gli davo del lei, cosi' come durante le inchieste di Mani Pulite scrivevo della Procura della Repubblica di Milano, intuendo i rischi, ambivalenti, della personalizzazione). «Non sarebbe stato corretto» rispose. «E' vero» replicai «ma non si puo' eternamente combattere con un braccio legato dietro la schiena contro avversari che li usano entrambi aggiungendovi un bastone». Oggi vediamo magistrati, De Magistris, Ingroia, che passano direttamente alla politica gettando un'ombra sulle loro inchieste pregresse e dando fiato alla favola berlusconiana delle 'toghe rosse'.

Intanto poco dopo il '94 la musica era cambiata. I partiti, sempre con l'appoggio dei giornali, erano riusciti nel gioco delle tre tavolette: i veri colpevoli erano i magistrati, i ladri le vittime che in seguito diventeranno i giudici dei loro giudici.

Di Pietro è un uomo antropologicamente di destra ma da quella parte non poteva andare perchè c'era Berlusconi (il quale, secondo il suo costume, all'inizio aveva cercato di comprarlo offrendogli il posto di ministro degli Interni). Dovette spostarsi a sinistra. Ma si trovo' sempre a disagio, anche perché gli apparati, memori di Mani Pulite, lo detestavano. Se c'era uno cui picchiare in testa, era Di Pietro. Cosi' di passaggio in passaggio è finito dalle parti di Ingroia, a sinistra della sinistra. L'avvento di Grillo l'ha spiazzato definitivamente. Ma nell'ora della sconfitta io, che non l'ho mai chiamato per nome, voglio dirgli: grazie Tonino.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2013

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In margine alla visita del Papa alle grotte di San Pietro per pregare sulla tomba che conterrebbe le ossa dell'apostolo è rispuntata fuori la millenaria fandonia di Nerone «primo persecutore dei cristiani». Nerone non perseguitò mai i cristiani in quanto tali, per la loro fede. In materia religiosa era, nel solco della migliore tradizione romana, estremamente tollerante. La questione è un'altra.

Tutto nasce dal devastante incendio che nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 64 colpi' Roma e vi infurio' per alcuni giorni. Non era certo il primo. Ce ne erano stati nel 6, nel 27, nel 36, nel 54. Ma quello del 64 fu il più disastroso. La Roma di allora era stretta fra vicoli tortuosi, dove il popolino faceva un uso disinvolto e spesso irresponsabile di bracieri, di fornelli, di torce fra catapecchie di legno che aspettavano solo di prender fuoco (e Nerone ricostruirà Roma in pietra ignifuga).

L'incendio fu casuale. Che Nerone ne sia stato l'autore nessuno storico serio, nè antico nè, tantomeno, moderno l'ha mai sostenuto. Saranno il pettegoliere Svetonio, sett'anni dopo i fatti, e Dione Cassio un secolo dopo Svetonio a costruire l'immagine di un imperatore che «dall'alto del Palatino», munito di cetra osserva la distruzione della capitale per ispirare la sua musa. Ma Nerone sul Palatino non ci poteva essere per la semplice ragione che era in fiamme.

Quella notte Nerone si trovava ad Anzio e, a cavallo, si precipito' a Roma per dirigere le operazioni dei soccorsi con una serie di misure degne, seguendo il racconto di Tacito che pur gli era ostilissimo, di una moderna protezione civile.

L'incendio fu casuale. Ma non è escluso che, alcune frange di estremisti cristiani, che vedevano la Roma baccante di Nerone come una nuova Sodoma e ne sognavano la distruzione, ci abbiano messo una manina per alimentarlo (lo stesso Paolo, nella 'Lettera ai romani' si mostra preoccupato per l'estremismo di alcuni suoi compagni di fede). In ogni caso la comunità cristiana ebbe l'imprudenza di manifestare la propria gioia per quella immane catastrofe. Per questo gli uomini di Tigellino diressero la loro attenzione verso quelle parti. Alcuni confessarono prima ancora di essere arrestati: per la gloria del martirio, come i moderni terroristi islamici, anche se probabilmente non avevano fatto niente. In tutto ne furono arrestati 300. Alcuni vennero assolti, altri condannati a pene minori, 200 a morte. I processi furono accurati , durarono due mesi, tanti per la veloce e pragmatica giustizia romana. le pene terribili: arsi vivi, crocefissi, dati in pasto ai cani. Tutto si svolse secondo le leggi e i costumi dell'epoca. Niente di più. Ma anche niente di meno. In quella occasione Nerone, «per quanto forte fosse la sua avversione per le pene capitali» (Grant) uso' il massimo rigore. Ma se le autorità romane credevano, a torto o a ragione, che frange di estremisti cristiani fossero responsabili di un atto terroristico cosi' grave, di fronte al quale quello dell'11 settembre impallidisce, la reazione non fu sproporzionata: 200 esecuzioni su una comunità che contava 3000 persone e che, in quanto tale, non fu toccata. Lo stesso Paolo, il leader dei cristiani a Roma, potè continuare la sua predicazione e nessuna conseguenza ci fu per i cristiani delle province. E in seguito, durante il principato di Nerone, non fu varata nessuna legge che proibisse ai cristiani di professare la propria fede. Le persecuzioni cominciarono dopo con Domiziano (81-96), e proseguirono con Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino, per assumere, con Diocleziano, le forme del genocidio. Ma con tutto questo Lucio Domizio Enobarbo, alias Nerone, non c'entra nulla.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 5 aprile 2013

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Di Enzo Jannacci non ne nasceranno più. Per la semplice ragione che la Milano che cantava è scomparsa da tempo e, per la verità, non esisteva già più, se non in qualche anfratto, anche ai tempi in cui, nostalgicamente, la celebrava. Una volta gli dissi che in 'Ti te sè no' , del 1964, peraltro bellissima, il verso «Che bel ch'el ga de vèss èss sciuri, cunt la radio noeuva e, nell'armadio, la torta per i fieu», suonava bizzarro perchè nel dopo boom non solo la radio ma la Tv ce l'avevano tutti. Enzo, che era un tipo un po' puntuto, se ne risenti'. Ma in realtà Jannacci cantava una Milano da dopoguerra. Era, quella, la Milano dei quartieri, dell'Ortica, della Bovisa, della Barona, di Affori, di Baggio, delle periferie, viale Forlanini, Rogoredo (la minuscola stazione di Rogoredo resiste ancora, ma di fronte ha gli enormi, bianchi, sepolcrali sarcofaghi degli studi di Sky), non ancora stritolate fra l'avanzare della città e l'immenso hinterland. In quei quartieri, che conservavano il sapore del villaggio, in quelle periferie noi ragazzini giocavamo al calcio in strada. Mettevamo le cartelle a fare da pali e quando passava una macchina ci scansavamo. Il problema era sempre quello: se il tiro era stato troppo alto o se era il portiere ad essere troppo piccolo. Era la Milano dei barconi sui Navigli che portavano la sabbia dalle cave fino alla darsena (Milano era allora il più importante porto di sabbia d'Europa). Era la Milano delle fabbriche («I s'era conossü visin a la Breda, li' l'era d' Ruguréd e lü..su no»), della Pirelli-Bicocca, dell'Innocenti, dell'Alfa Romeo, della Richard Ginori, della Borletti, che stavano, come sentinelle, alle soglie della città. Era la Milano degli 'strascée' («Andava a Rogoredo, vosava come un strascée»), degli arrotini, del contadino che veniva a portarti le uova, i pomodori, la frutta a casa perchè la città era ancora parzialmente integrata con la campagna. Era la Milano di una malavita minore, di ladri di «ruote di scorta di micromotori», di galline e di polli (chi mirava ai tacchini apparteneva già a una categoria superiore: «Io non conoscevo i tacchini, ero appena avanguardista, chi conosceva i tacchini era giovane e fascista»-in Jannacci, che era del 1935, c'erano reminescenze del regime). Ma anche la malavita vera quella che non metteva un «guercio» a fare il palo come la squinternata banda dell'Ortica, era un'altra cosa. Era professionale. Nella famosa rapina di via Osoppo (1958), che impegno' le pagine dei giornali per mesi, e ancora oggi la si ricorda, non ci fu un morto nè un ferito. I locali più sicuri erano proprio quelli della 'mala' cantata da Jannacci e dalla Vanoni ( «ma mi, ma mi...mi sont de quei che parlen no»).

Ma quella Milano stava cambiando. Insieme all'Italia. E uno dei segnali venne proprio dal mondo della musica leggera. Nel 1958 al Santa Tecla a fianco della Statale, Tony Dallara, con i suoi Campioni, aveva spazzato via la canzone melodica italiana, gli intollerabili Villa, Tajoli, Pizzi, col 'singhiozzo' che aveva preso in prestito dai Platters («Co-ome prima, più di prima t'amero'») e con l''urlo' che era invece roba sua. Erano nati gli 'urlatori' di cui Dallara fu l'indiscusso capostipite. La prima Mina lo imitava ('Tintarella di luna'), in quanto a Celentano, al Santa Tecla pure lui, faceva le facce di Jerry Lewis, l'attore, scambiandolo per il famoso rocker americano Jerry Lee Lewis. Come sempre non aveva capito niente. Intanto alla Trattoria della Magolfa, sui Navigli altri menestrelli facevano gavetta, chiedendo alla fine delle loro esibizioni il regolamentare obolo. I più bravi approdavano al Derby di Enrico Intra, tappa obbligata a Milano per l'inizio di ogni carriera di musicista. Anche Jannacci aveva cominciato, nel 1959, al Santa Tecla ma era arrivato quasi subito al Derby. E vi porto' il suo stile singolarissimo. Non era un urlatore, non era un rockettaro, non era propriamente nemmeno un cantautore, alla Paoli o alla Tenco. Faceva un cabaret musicale stralunato, strampalato, paradossale, surreale. Unico. Inimitabile. Anche perchè stralunata era la sua antropologia, la sua faccia, il suo corpo che si muoveva a scatti, schizofrenico. Cantava storie minime di gente minima, storie disperate venate di ironia, con punte di esilarante comicità. Ma ironico o comico che fosse c'era sempre in Jannacci un sottostrato di profonda malinconia che io credo sia stata la cifra più autentica della sua arte. Tanto è vero che se si riascoltano le canzoni di cui è il solo autore, senza gli apporti di Fo, di Conte, di Strehler o di altri, come 'Ti te sé no' o ' E l'era Tardi' («E l'era tardi, l'era tardi in quèla sera straca che m'é vegnù el bisogn' d'on mila franch' per quattà 'na trata»), ogni ironia é scomparsa, c'è solo struggimento, (del resto l'umorista è quasi sempre un melanconico, si pensi ad Achille Campanile o a Paolo Villaggio).

Ma negli anni '80, insieme a Gaber, apparve improvvisamente in Tv (cosa rara), entrambi con un paio di enormi e impudenti occhiali da sole, in una interpretazione scatenata e rockettara, stile Blues Brothers, della beffarda «Una fetta di limone nel te'». In quel momento erano solo due ragazzacci quarantenni che, dimentichi delle paturnie consuete, avevano solo voglia di divertirsi. E cosi' mi piace oggi ricordarli.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2013